PERESIO, Giovanni Camillo
PERESIO, Giovanni Camillo. – Notizie riportate da Prospero Mandosio nella sua Bibliotheca romana lo vogliono nato nel 1628 (non è noto il giorno) «Joannis Laurentij, et Joannae Bonae filius» (Mandosio, 1682, p. 255). L’informazione, contenuta nella medesima voce, che scrisse un poema nel volgare natio ne collocano la nascita a Roma.
L’opera in questione, citata subito dopo, è infatti El Patescia affatato: povema romanesco, il cui testo, ancora in fase di stesura nel 1682, è andato perduto, ma avrebbe costituito la base del successivo Jacaccio.
Di ingegno incline alle discipline umanistiche, Peresio si dedicò anche a studi storici e fu probabilmente cortigiano senza molta fortuna. La prima opera di cui si abbiano notizie certe è una breve biografia encomiastica, La vita di monsignor Felice Contelori, edita in Roma nel 1684 per i tipi di Francesco de’ Lazari figlio d’Ignatio. Nei suoi Comentarj intorno all’istoria della volgar poesia Giovanni Mario Crescimbeni gli attribuì anche qualche «componimento serio […] per le Raccolte di quei tempi» (Crescimbeni, 1730, p. 207), senza però fornire ulteriori indicazioni.
Nel 1688 vide la luce Il Maggio Romanesco overo il Palio Conquistato: poema epicogiocoso nel linguaggio del volgo di Roma per i tipi del ferrarese Bernardino Pomatelli. L’opera era in realtà la rielaborazione di un altro poema romanesco, Il Jacaccio overo il Palio conquistato, conservato anonimo presso la Biblioteca Casanatense (Roma).
Di quest’ultimo diede notizia Francesco Sabatini nel 1879, in un articolo apparso nella Rivista di letteratura popolare, da lui diretta assieme a Giuseppe Pitrè. La grande somiglianza del manoscritto del Jacaccio con il testo a stampa del Maggio, a parte la presenza di «sensibili varianti e riduzioni» nel primo rispetto al secondo, e la diffusione, sempre in quello, di correzioni, «sotto le quali traspare ancora l’antico scritto che trovasi quasi sempre identico al poema a stampa» (Sabatini, 1879, p. 299), spinsero Sabatini a supporre il manoscritto opera di un anonimo contraffattore di Peresio, e in ogni caso successivo al Maggio. L’analisi di alcuni dettagli ha però sciolto quasi subito i dubbi riguardanti la paternità dell’opera, al punto che, nell’edizione del Jacaccio per cura di F.A. Ugolini (I-II, Roma 1939), quest’ultimo attribuiva il poema a Peresio. Nella fattispecie spicca la presenza, alla fine di tre pagine del testo a stampa del Maggio, di parole di richiamo che non corrispondono alla prima parola dell’ottava che apre la pagina successiva, ma a quella con cui iniziano le ottave corrispondenti nel Jacaccio: «Un fatto così strano si spiega solo pensando che al Peresio sia sfuggita, in sede di revisione, la correzione dei tre richiami a piè di pagina secondo la lezione stabilita dal nuovo poema» (Di Iaconi, 1997, p. 16). Per quanto riguarda la priorità di una versione sull’altra, taluni confronti testuali effettuati da Ugolini – come nell’episodio, nel canto VI, dello smaniglio e dello specchietto provvisti di virtù magiche – hanno certificato la posteriorità del Maggio: tanto che in questa sede lo stesso episodio appare ben più elaborato e plausibilmente risultato di un ampliamento, essendo altresì difficile ipotizzare il contrario, cioè un processo di riduzione che, immaginando invece il Jacaccio opera seriore, avrebbe avuto solo l’effetto di impoverire e rendere meno chiaro l’episodio stesso (Ugolini, 1987, pp. 27 s.).
Redatto in un romanesco spurio (se raffrontato a quello che Giuseppe Gioacchino Belli avrebbe usato nella prima metà dell’Ottocento), con dedica a Francesco Maria de’ Medici, Il Jacaccio narra le vicende di alcuni popolani che nella Roma di Cola di Rienzo si contendono il Palio issato durante la festa del Maggio sopra un tronco d’albero. Ricalcando in più punti e parodiando il modello ariostesco e la sua tecnica dell’entrelacement (ma con in mente anche l’esempio della Secchia rapita di Alessandro Tassoni), l’opera sostituisce i paladini con dei bravacci (fra cui quello che dà il titolo all’opera e il trasteverino Titta) e i duelli con risse, baruffe e sassaiole. Le situazioni descritte sono comiche, quasi da slapstick (una rissa si consuma a colpi di carne di macelleria), e l’elemento magico, già presente nel Furioso, è parodiato assieme a tutto il resto (al posto di Atlante c’è una maga decrepita, mentre gli oggetti fatati sono cinture che scatenano tempeste, berretti che fanno volare e occhiali che vanificano incantesimi). Nella revisione che portò al Maggio la vicenda rimase sostanzialmente la stessa (a parte alcune aggiunte e tagli di strofe) e a cambiare fu la lingua, oggetto di una progressiva ‘sdialettizzazione’ e toscanizzazione (anche se in alcuni luoghi si assiste al processo inverso), «con il fine manifesto di rendere il poema maggiormente accessibile ai lettori di livello più colto, o forse di sottrarlo alla censura di critici di più “emunctae naris”» (Ugolini, 1987, p. 36). La lingua che ne risultò fu definita da Benedetto Micheli, attivo come poeta romanesco nel Settecento, «ermafrodita, non essendo buon romanesco né buon toscano» (apud Sabatini, 1890, p. 93), includendo nel suo giudizio anche l’altro esponente dell’eroicomico romanesco del Seicento, Giuseppe Berneri, autore del Meo Patacca (1695). In questo modo anticipò l’opinione di Belli, il quale nel secolo successivo avrebbe definito entrambi i poemi «arbitrarie scritture» (apud P. Trifone, 1996, p. 99).
Incerta la data di morte di Peresio, che Crescimbeni e Francesco Saverio Quadrio collocarono poco dopo la pubblicazione del Maggio, e Pio Tommaso Masetti, prefetto della Biblioteca Casanatense fino al 1884, in un’annotazione vergata sulla pagina precedente il frontespizio del Jacaccio datò al 1696.
Fonti e Bibl.: P. Mandosio, Bibliotheca Romana seu Romanorum scriptorum centuriae (IV. 70), Roma 1682, p. 255; G.M. Crescimbeni, De’ Comentarj…, IV, 3, in Id., Dell’Istoria della volgar poesia, V, Venezia 1730, p. 207; F.S. Quadrio, Della storia, e della ragione d’ogni poesia, I, Bologna 1739, p. 214; F. Sabatini, Il Jacaccio, manoscritto inedito del secolo XVIII, in Rivista di letteratura popolare, I (1879), pp. 297-307; Id., L’ortografia del dialetto romanesco, in Il volgo di Roma. Raccolta di tradizioni e costumanze popolari, II, Roma 1890, pp. 85-100; F.A. Ugolini, G.C. P. e il suo poema romanesco, in Contributi di filologia dell’Italia mediana, I (1987), pp. 5-112; R. Bruschi, Fenomenologia del romanesco nel Jacaccio di G.C. P., ibid., pp. 113-195; P. Trifone, Roma e il Lazio, in L’italiano nelle regioni. Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, II, Milano 1996, pp. 98-100; E. Di Iaconi, P. poeta romanesco del Seicento e il suo ‘Jacaccio’, Roma 1997; F. Brevini, La poesia in dialetto, III, Milano 1999, p. 4317.