BRACESCO (Braceschi), Giovanni
Originario di un castello nei pressi di Brescia, detto degli Orzi Nuovi, non se ne conosce la data di nascita, che, tuttavia, può porsi verso il 1481, secondo una informazione tramandataci da G. Gratarolo, che lo conobbe personalmente. Dedicò la propria vita agli studi di alchimia e da vecchio, ormai più che settuagenario, ebbe una certa notorietà. Non si sa quasi nient'altro della sua vita.
La sua prima opera, Dialogo di M. G. B. da Iorci Novi,nominato il legno della vita,nel quale si dichiara qual fusse la medicina per la quale gli primi padri viveano novecento anni, fu pubblicata a Roma nel 1542; venne ristampata in versione latina più estesa, da un manoscritto ricevuto dallo stesso B., da G. Gratarolo, Verae Alchemiae... scriptis tum novis tum veteribus nuncprimum et fideliter majiori ex parte editis,comprehensus, Basileae 1561, pp. 246.
È un dialogo di poche pagine tra Demorgon e Raimondo (Lullo), nel corso del quale quest'ultimo svela il segreto della longevità dei primi discendenti di Adamo, attribuita a una medicina a base di quint'essenza, la sostanza più incorruttibile esistente sotto il globo lunare, che ha la proprietà di conservare a lungo le cose nell'essere loro. La medicina sana le infermità curabili e per procurarsela basta liberare i metalli dalla loro terreità e densità e ricavarne la materia prima, sulla quale i cieli hanno più a lungo influito, infondendovi le loro mirabili virtù. Il modo pratico per eseguire questa operazione di alchimia si troverebbe nelle opere di Geber, alle quali il B. rimanda.
Collegata, in un certo senso, alla precedente è la seconda opera del B., La espositione di Geber philosopho... nella quale si dichiarano molti nobilissimi secreti della natura, Venezia 1544: l'edizione riporta anche il dialogo precedente ed ebbe tre ristampe (1551, 1552, 1562) e due traduzioni latine (nel 1548, a Lione e a Norimberga); un'altra edizione in latino comparve nel secolo successivo col titolo De alchimia dialogi duo, Hamburgi 1671.
L'opera è dedicata all'alchimia di Geber, o piuttosto dell'autore degli scritti in latino stampati nel Cinquecento sotto il nome del celebre alchimista arabo. Scritta anch'essa in forma di dialogo tra Demorgon e Geber, la sua prima parte è dedicata all'esposizione de principî teorici dell'alchimia, scienza che ha per scopo di attribuire ai metalli inferiori la nobiltà dei superiori. La trasformazione dei metalli è possibile, perché la loro materia prima è una sola, costituita dall'unione di zolfo e mercurio, secondo l'antica teoria attribuita a Geber, mentre le proprietà particolari dipendono unicamente dalla diversità del luogo della miniera da cui si traggono i metalli e dai diversi accidenti sopravvenuti alla materia prima. La trasformazione può essere operata dalla pietra filosofale, che ha la potenza di mutare i metalli volgari, solo toccandoli, in elisir, gemme, quint'essenza e oro potabile. L'alchimista, per mezzo della pietra filosofale, imita con l'arte i processi di trasformazione dei metalli operati dalla natura per via occulta. La seconda parte del dialogo è dedicata alla ricerca della pietra filosofale, che, contrariamente a quanto credono molti, è "brutta nel manifesto, ma nell'occulto bellissima": bisogna andarla a cercare nella calce di ferro, nelle scorie che i fabbri gettano per le strade o, meglio ancora, nel ferro che, restato a lungo al fuoco, abbia perduto la sostanza del ferro e si sia "mutato in natura di vetro, di colore quasi di zaffiro oscuro".
I dialoghi del B. ebbero notevole diffusione, come dimostrano le ristampe e le traduzioni latine, e non è facile indicare il motivo di tanta fortuna, perché non vi si trovano idee o procedimenti originali; l'esposizione procede secondo le linee tradizionali dell'alchimia e le consuete involuzioni di linguaggio. I dialoghi si attirarono, tuttavia, anche le critiche di alcuni alchimisti contemporanei, in particolare del francese R. Tauladanus, che nel 1554 scrisse un opuscolo (In I. B. Gebri interpretem animadversio, in G. Gratarolo, Verae Alchemiae..., pp. 49-111), nel quale rimprovera al B. il carattere chimerico delle sue ricerche e l'oscurità del suo linguaggio; analogo giudizio formulava Gaudenzio Merula, ritenuto un'autorità negli studi alchimistici dell'epoca, come attesta lo stesso Tauladanus in una lettera a M. Sterpino (ibid., pp. 47-49).
Bibl.: L. Cozzando, Libraria bresciana, Brescia 1694, p. 265; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 4, Brescia 1763, p. 1966; S. De Renzi, Storia della medicina in Italia, III, Napoli 1845, p. 73; L. Thorndike, A History of magic and experimental science, V, New York 1951, pp. 545 s., 601.