BORROMEO (Bonromeus, Borromaeus), Giovanni
Nacque il 12 maggio del 1439, primogenito di Filippo e di Franceschina Visconti. In giovinezza trascorse alcuni periodi a Mantova, alla corte dei Gonzaga; intorno al 1458 sposò Cleofe Pio, dei signori di Carpi. Nel 1464, alla morte del padre, gli succedette alla guida della famiglia, assumendo, insieme col fratello Vitaliano, il titolo di conte d'Arona. Padrone di una fortuna ingentissima, che lo collocava ai vertici della società sforzesca, per la sua potenza economica e per il personale prestigio si trovò spesso in posizioni di primo piano nelle vicende politiche del ducato. La sua esistenza non fu tuttavia segnata da fatti eccezionali: sua cura tenace e prudente, anche se non sempre fortunata, fu il consolidamento delle fortune del casato, che avevano ormai le loro radici più salde nel patrimonio fondiario (migliaia di ettari di terra sparsi in tutta la Lombardia), nel feudi, nei luoghi del Banco di S. Giorgio, e nella rete di parentele e di aderenze che intorno ad essi si veniva via via tessendo.
Alla morte di Francesco Sforza, quando, per far fronte alle pressanti necessità finanziarie, Bianca Maria e Galeazzo Maria Sforza dovettero procedere alla alienazione di feudi ed entrate, il B. acquistò il 10 dicembre del 1466 per 26.134 lire i luoghi di Guardasone (Parma), Castione (Lodi), e numerose terre fra l'Ossola e il Lago Maggiore, dove i Borromeo vantavano già numerosi possessi: Intra, la Vallintrasca, il contado di Angera, le deganie di San Pietro e Suna (della vendita faceva originariamente parte anche Pallanza, che tuttavia dopo poche settimane riscattò la propria autonomia).
Lo "Stato Borromeo" raggiungeva così la sua massima estensione, con una superficie di oltre un migliaio di chilometri quadrati. Era diviso in dieci podesterie: Arona, Angera, Lesa, Laveno, Intra, Cannobio, Val Vigezzo, Vogogna, Omegna, Mergozzo. Il podestà di Arona aveva titolo e funzioni di commissario, cioè di rappresentante diretto del signore, e di giudice d'appello. Un privilegio del 17 ag. 1480 avrebbe riconosciuto le terre dei Borromeo non soggette al decreto "de maiore magistratu", svincolate cioè dalle magistrature ordinarie di Milano e di Novara. I territori, per lo più poveri, perché montuosi e non molto abitati, contavano tuttavia alcuni centri fiorenti, come Arona e Omegna. Il possesso di numerose località lacustri consentiva il controllo della navigazione su tutto il Verbano e la riscossione del dazio ad Arona, importante nodo di traffico fra la pianura lombarda e le regioni transalpine. Il B. meditò anche la costruzione di una strada che collegasse le sue terre con il Vallese, attraverso l'Ossola: i lavori, non appena iniziati, vennero tuttavia interrotti per l'opposizione degli Ossolani. Lo "Stato Borromeo", posto al limite nord-occidentale dello Stato, e confinante con gli Svizzeri dell'alto Vallese, presentava anche una grande importanza politica per il controllo di numerosi luoghi fortificati, la possibilità di armare i sudditi in un piccolo esercito rusticano, l'appoggio di una piccola nobiltà locale, in parte originaria, in parte creata dai Borromeo e ad essi fedelissima.
E fu proprio a causa di questa sua importanza militare, che Galeazzo Maria Sforza, poche settimane dopo l'inizio effettivo del suo governo, senza tenere alcun conto dei privilegi e delle conferme concesse dal padre, volle riaffermare i diritti ducali su Angera, che, per le sue fortezze e la sua posizione strategica, dello "Stato Borromeo" costituiva il cuore.
Angera, a differenza degli altri feudi che i Borromeo detenevano, non era stata loro concessa dai duchi di Milano, ma dal governo della Repubblica ambrosiana: per quanto fosse stata loro riconfermata nel gennaio 1450 da Francesco Sforza, la legittimità del suo possesso (come di altri beni acquistati nel periodo della "libertà") era stata talora contestata. Il 17 genn. 1467, in una conferma generale dei feudi borromei, Galeazzo Maria riservava a sé la rocca di Angera, per la quale prometteva di pagare entro due anni 4.000 ducati. La somma non veniva mai pagata, anzi, qualche tempo dopo, Galeazzo Maria inviò addirittura una squadra di genti d'arme contro le fortezze dei Borromeo, che di Angera avevano mantenuto il possesso: solo il 7 marzo il duca acconsentì a renderla al B. per dieci anni, ma dietro l'esborso di 4.000 ducati e la promessa di altri 4.000.
Non si giunse però ad una aperta rottura, negli anni seguenti il B. (che il 5 0 il 10 genn. 1469 aveva ricevuto il titolo di consigliere ducale) fu spesso alla corte di Galeazzo Maria, che talora seguiva nei suoi spostamenti a Pavia e Vigevano. Nel 1470 fu ambasciatore ducale a Roma, per le trattative per il rinnovo della lega italica; quindi a Napoli, e ancora presso la duchessa di Savoia; nel 1474 fu con Ludovico Maria Sforza inviato a Venezia per la firma della pace con quella Signoria.
Dopo l'assassinio di Galeazzo Maria, il B., che insieme con Pietro Pusterla e Antonio Marliani capeggiava il partito ghibellino, osteggiò la reggenza di Bona di Savoia e, soprattutto, lo strapotere di Cicco Simonetta (che era animato da personale inimicizia contro di lui), favorendo invece il partito di Ludovico il Moro. Quando questi poté ritornare a Milano nel settembre del 1479, il B., insieme con Ludovico e Pietro Pusterla, veniva nominato governatore del ducato. Nel giro di pochi mesi il Simonetta era arrestato, processato e condannato (fra i capi d'accusa figuravano anche quelli di calunnie e macchinazioni contro numerosi gentiluomini milanesi, compreso il Borromeo). Il Moro tuttavia non volle farsi condizionare da quel partito ghibellino, a cui pure doveva la presa del potere: e, ponendosi come sovrano imparziale, preferì allontanare da Milano sia il Pusterla sia il B., inviato a Mantova con l'incarico di rinnovare la condotta a F. Gonzaga (e in una lettera confidenziale pregava il marchese di trattenere per qualche tempo il B. a Mantova, anche con pretesti).
Negli anni successivi i rapporti con il Moro non divennero mai cordiali: sia per la temibile potenza del B., sia per alcune difficili situazioni che si determinarono (come, per esempio, la ribellione di Guido Rossi conte di Berceto, genero del B., il quale aveva tentato invano di porsi come mediatore). Il B. non compare fra i gentiluomini della corte più vicini al Moro, né fra i suoi fiduciari, anche se non gli mancarono larga influenza e incarichi onorifici: nel 1489 insieme con Gian Francesco Pallavicino, come primo gentiluomo dello Stato, fu alla staffa di Isabella d'Aragona, che giungeva sposa al duca di Milano; nel 1490 condusse Anna, sorella di Galeazzo Maria, in sposa al duca di Ferrara. Tra il 1480 ed il 1482 fu in relazioni - certo non solo per motivi d'affari - con Lorenzo il Magnifico, mentre svolgeva attività diplomatiche presso Federico e, più tardi, Gian Francesco Gonzaga, marchesi di Mantova (Gian Francesco nel 1484 gli concedeva la cittadinanza mantovana), presso la Signoria di Venezia, le corti di Roma, di Napoli e di Francia. Non poco contribuirono a rafforzare le posizioni della famiglia gli importanti matrimoni dei numerosi figli del B.: Giberto sposava Magdalena di Brandeburgo, nipote della marchesa di Mantova; Lancillotto, Lucia Adorno; Isabella, in prime nozze Giuliano de' Medici, poi Francesco Bolognini, infine Antonio Maria Pallavicino; Ippolita, Claudio di Savoia; Franceschina, Francesco Sforza, fratello del duca; Giustina, Marchesino Stanga, favorito di Ludovico il Moro; Bianca, Francesco Trivulzio e poi Giacomo Trivulzio. Nel 1487 la famiglia ebbe anche la gloria della vittoria milanese al ponte di Crevola sulle truppe vallesane: di importanza risolutiva nella battaglia risultò infatti l'intervento delle schiere armate dei sudditi del B., comandati dal suo figlio maggiore, Giberto.
Gli ultimi anni della esistenza del B. furono turbati dai contrasti col fratello Vitaliano. Questi, nato il 25 ag. 1451, alieno da ogni attiva partecipazione alla vita politica, aveva lasciato al fratello la guida della famiglia e l'amministrazione del patrimonio. Nel 1477 aveva sposato Bianca di Saluzzo, ma le nozze erano rimaste sterili per la malferma salute della donna. Il B. desiderava che l'intero patrimonio famigliare passasse ai propri eredi maschi. Un vincolo fedecommissario a favore della linea maschile legittima sarebbe stato anzi esplicitamente disposto sul patrimonio dall'avo Vitaliano (ma del testamento non si poté ritrovare né l'originale né l'imbreviatura presso il notaio: e il B. accusò poi il fratello della sottrazione del documento). Una identica intenzione era stata più volte manifestata anche dal padre Filippo. Verso il 1487 Vitaliano cominciò a rivendicare i propri diritti alla libera disponibilità della sua parte del patrimonio, fino allora indiviso. Il 14 marzo quattro arbitri approntarono un compromesso, che lasciava a Vitaliano la disponibilità della ingentissima somma di 40.000 fiorini, riservando tuttavia ai figli maschi di Giovanni il grosso dell'asse ereditario. Ma Vitaliano respinse l'arbitrato, facendosi forte sia della inesistenza di prove decisive circa l'esistenza di un fedecommesso, sia dell'evidente appoggio di Ludovico il Moro, il quale il 19 gennaio di quell'anno lo aveva creato consigliere segreto, e mirava a indebolire i Borromeo.
Nel 1489 si giunse alla divisione del patrimonio. Nel gennaio del 1493 Vitaliano testò a favore del nipote Ludovico Visconti (il capostipite dei Visconti-Borromeo): la morte seguì il 7 settembre. Ma l'opposizione del B. non desistette. Nonostante l'ormai aperta ostilità del Moro, che decretò contro i Borromeo un pesante sequestro, accusandoli di non aver partecipato alle esequie, egli chiese l'invalidazione del testamento di Vitaliano, perché ad esso mancava la firma del terzo notaio secondo una norma che, per quanto in disuso, era tuttavia contemplata dagli statuti di Milano. I maggiori giureconsulti vennero invitati a pronunciarsi e numerosi consilia furono preparati per le parti in causa. Il B. ottenne appoggi e commendatizie dai potentati d'Italia, e anche da Carlo VIII: ma le magistrature milanesi ripetutamente si pronunciarono per Ludovico Visconti, a favore del quale sarebbe poi stata pronunciata una sentenza definitiva nel 1498.
Il B. morì il 14 nov. 1495 e fu sepolto nella chiesa milanese di S. Francesco Grande.
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