BONSIGNORI (de' Bonsignori, Buonsignori, de' Buonsignori, di Buonsignori, Bonsignore, de Bonsignore, dei Bonsogni), Giovanni
Nato a Città di Castello da un ser Falco nei primi decenni del sec. XIV, ebbe qualche parte nella vita politica della sua patria: il 28 genn. 1346 fu estratto a sorte membro del Consiglio dei sedici in rappresentanza di porta S. Maria; nel 1380 fu per sei mesi "vexillifer partis Guelfae"; il 3 marzo 1391 fu ammesso a partecipare al cosiddetto "Sacco dei Centocinquanta", da cui si estraevano a sorte i magistrati. Si sposò con una donna Fige, e da lei ebbe due figli, Ranieri e Bonsignore. A queste poche notizie, tratte dagli archivi di Città di Castello da O. Tommasini e da P. Tommasini-Mattiucci (i quali del resto non indicarono chiaramente le loro fonti), non molto si può aggiungere: dai suoi incarichi politici è facile dedurre che dovette nascere da una famiglia di notabili; dalle sue opere - l'OvidioMetamorphoseos vulgare e probabilmente il Libro Imperiale - risulta in possesso di una cultura farraginosa ma abbastanza ampia; inoltre se, come sembra ormai sicuro, il LibroImperiale è da attribuirsi al B., l'intento encomiastico dell'opera suggerirebbe un suo soggiorno a Roma e un suo rapporto di clientela con le nobili famiglie romane dei Colonna e soprattutto dei Prefetti di Vico.
Il Libro Imperiale (stampato per la prima volta col titolo Comenciase el primo libro imperiale ove tratterimo de le conditione e modo de Iulio Cesaro nel 1484, senza luogo né nome di tipografo) ebbe nel Medioevo larga diffusione per il suo carattere favoloso e romanzesco: narra infatti le vicende di Cesare e dei suoi discendenti, da cui, secondo l'autore, avrebbero tratto origine i Colonna ed i Prefetti di Vico; in gran parte dei manoscritti la narrazione è seguita da una sintetica cronologia degli imperatori da Cesare fino ad Enrico VII di Lussemburgo. I codici attribuiscono variamente l'opera a Can da Castello, Camillo da Castello, Cambio da Castello canonico di San Fiordo, o al B.: per quanto il Tommasini-Mattiucci abbia dimostrato che esistette un Cambio di Stefano da Città di Castello, canonico di San Florido, vivente nel 1391 (il quale potrebbe esser stato semplicemente il possessore di un codice del Libro Imperiale), e sebbene l'interrompersi ad Enrico VII(m. 1313) della lista imperiale suggerirebbe per l'opera una data di composizione che ben difficilmente potrebbe conciliarsi con le notizie biografiche che del B. possediamo, certo è che il confronto col volgarizzamento ovidiano, sicuramente suo, obbliga ad attribuirgli anche il Libro Imperiale:oltre alla parentela stilistica, tra l'un'opera e l'altra vi sono evidenti imprestiti d'intere pagine (sono identici, ad esempio, i proemi); in entrambe l'autore dimostra discreta conoscenza di Ovidio e della Divina Commedia, entrambe sono pervase da un diffuso moralismo, che nel volgarizzamento è appena velato dalla stretta dipendenza dell'opera con le Allegorie di Giovanni del Virgilio; ambedue infine sono assai scarsamente originali e mostrano nell'autore - notava il Marchesi - la stessa attitudine a copiare sfacciatamente opere altrui. Ben poco, infatti, è del B. nei quattro libri del Libro Imperiale: i primidue, narranti in modo favoloso gli ultimi anni della vita di Cesare e la sua uccisione, seguono in genere da vicino, e talora addirittura testualmente, la cosiddetta "redazione S" dei Fatti di Cesare; i rimanenti, che accennano a come da Cesare e Godina siano stati originati i Colonna e narrano poi diffusamente le avventure di Selvaggio, discendente di Cesarione e progenitore dei Prefetti di Vico, rappresentano una delle tante versioni della notissima leggenda costantiniana, con varie modifiche e trasformazioni tratte dalle fonti più diverse, che vanno dalla storia romana alla medioevale leggenda di Maometto fino al Cantare del Bel Gherardino. Questa seconda parte dell'opera ha una certa parentela con l'Urbano, che fu attribuito prima al Boccaccio e poi, per tutta una serie di equivoci che furono facilmente spiegati dal Coen, al B.: ma in realtà le somiglianze, peraltro assai tenui, tra le due opere, sono date dalla comunanza delle fonti e dalla patina vagamente boccaccesca che i loro autori, con risultati non molto felici, tentarono di dare ad entrambe. In quanto alla data di composizione del Libro Imperiale, la mancanza nell'opera di accenni ad eventi contemporanei rende impossibile determinarla: né sembra accettabile l'ipotesi del Coen, che la voleva posteriore al volgarizzamento ovidiano (1375-77) unicamente perché l'autore del Libro Imperiale dimostra una buona conoscenza delle Metamorfosi.
L'altra opera cui il B. affidò la sua fama fu una traduzione "in breve sermone", in compendio, cioè, delle Metamorfosi ovidiane, accompagnata da esposizioni allegoriche, che l'Accademia della Crusca pose tra i testi di buona lingua. L'opera, col titolo Ovidiometamorphoseos vulgare, fustampata per la prima volta a Venezia nel 1497"per Zoane Rosso vercellese ad instantia del nobile homo miser Lucantonio Zonta [Giunti] fiorentino", arricchita da numerose silografie, ed ebbe poi numerose riedizioni cinquecentine. Nella stampa, che si presenta piuttosto riassunta rispetto ai manoscritti, il proemio è datato 20 marzo 1370 ab incarnatione; ma sono forse da preferire, per la loro maggior precisione, le due date che sono indicate dal cod. Magliab. II 1 19della Biblioteca Nazionale di Firenze, che a c. 159pone il 20 marzo 1375come data dell'inizio e il 30 nov. 1377come data della conclusione dell'opera. In essa, ad un breve riassunto di ogni episodio delle Metamorfosi segue, secondo la consuetudine dell'epoca, la spiegazione delle pretese allegorie morali celate nella favola. Ma l'Ovidio vulgare del B. è poco più di un traduzione, qua e là ampliata o ridotta, delle allegorie ovidiane che Giovanni del Virgilio aveva scritto in latino: di suo il B. mette, talvolta, delle citazioni dantesche, un maggior gusto dottrinale per le scienze naturali, un più chiuso moralismo che lo spinge ad ammorbidire o a tralasciare talune di quelle spiegazioni allegoriche in chiave sessuale cui propendeva la sua fonte. Eppure stranamente, forse per esser state scritte in volgare, le allegorie ovidiane del B. ebbero assai maggior successo di diffusione e di stampe di quelle di Giovanni del Virgilio, che rimasero a lungo pressoché ignorate.
Bibl.: A. Coen, Di una leggenda relativa alla nascita e alla gioventù di Costantino Magno, in Archivio della R. Società romana di storia patria, IV (1880), pp. 544-46; V(1882), pp. 33-63; A. Graf, Roma nelle memorie e nell'imaginazione del Medio Evo, I, Torino 1882, pp. 236 s.; F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, Bologna 1884, coll. 607 s.; A. Graf, Spigolature per la leggenda di Maometto, in Giornale storico della letteratura italiana, XIV (1889), p. 209 nota; E. G. Parodi, Le storie di Cesare nella letteratura italiana dei primi secoli, in Studi di filologia romanza, XI (1889), pp. 392-424; G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, X, Forlì 1900, pp. 197-99; P. Tommasini-Mattiucci, Fatti e figure di storia letteraria di Città di Castello, Perugia 1901, pp. 15-24 (estratto dal Bollettino della R. Deputazione di storia patria per l'Umbria, VII [1901], pp. 24-33); A. Parducci, La leggenda della nascita e della gioventù di Costantino Magno in una nuova redazione, in Studi romanzi, I (1903), pp. 57-96; C. Marchesi, Le allegorie ovidiane di Giovanni del Virgilio,ibid., VI (1909), pp. 119-27, 132-35; D. Fava, I libri italiani a stampa del secolo XV con figure della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Milano 1936, pp. 125 s.; H. Baron, Manuscript acquisitions in1955, in Newberry Library Bulletin, IV (1956), p. 78; P. O. Kristeller, Iter Italicum, II, pp. 51; 117, 278, 519.