BONIFACIO, Giovanni
Nato a Rovigo il 6 sett. 1547 dal nobile rodigino Sebastiano, notaio, cancelliere del vescovato di Adria e dell'Inquisizione, provveditore alle vettovaglie e alla sanità nella sua città, e da Imperatrice Mirana, gentildonna padovana, non deve esser confuso con il gesuita Giovanni Bonifacio, autore di una Christiani pueri institutio adolescentiaeque perfugium (apud Sinas in Portu Macaensi in domo Societatis Iesu 1588). Dopo essersi appassionato alle "humaniores litterae" sotto la competente guida del concittadino Antonio Riccoboni, il B. frequentò per cinque anni nello Studio padovano le lezioni di giurisprudenza, addottorandosi nel 1573.
Tornato nella città natale, vi esercitò l'avvocatura, forse senza grandi soddisfazioni, se più tardi la sconsiglierà al parente Baldassare Bonifacio come "pericolosa, piena di travagli". Assai più importante per lui era affermarsi come letterato. A Rovigo aveva esordito nel 1572 facendo rappresentare una favola comica in cinque atti, la Sopherotomania (stampata a Vicenza, nel 1622), che nulla faceva sperare di lui come autore teatrale. Né molto di più varrà la successiva produzione - pel Mazzuchelli meritava "poca considerazione" -, in cui s'intestardì a sperimentare i vari generi: la favola pastorale col Montano (Vicenza 1622), la tragicomica col Raimondo (Rovigo 1628), la tragica col Nicasio (Rovigo 1629). Genere al B. più congeniale fu l'orazione d'occasione, più propizia al suo gusto per la celebrazione, dalla quale si sentiva, di riflesso, a sua volta investito. Esaltò, nel 1573 e nel 1575, con discorsi pubblicati negli stessi anni, due capitani e podestà di Rovigo, nonché provveditori generali di tutto il Polesine, rispettivamente Girolamo Bragadin e Marcantonio Falier. E il 28 luglio 1574 parlò a nome della città a Enrico III di passaggio nel suo fastoso viaggio di ritorno in Francia: l'orazione fu pubblicata alla fine del primo volume - al quale peraltro non seguì il secondo progettato - Delle lettere familiari, Rovigo 1627.
Trasferitosi a Treviso, il B. sposò nel 1575 Isabella Martignacco, unica erede del nobile Marcantonio, e nel 1610, in seconde nozze, una vedova padovana, Paula Grompa, stabilendo a Padova la sua residenza sino al 1624.
Esercitata ancora per qualche tempo l'avvocatura e interessatosi alla revisione degli statuti delle giurisdizioni di spettanza dei conti di Collalto e San Salvatore, il B., che aveva rifiutato nel 1582 l'offerta della sua città di rappresentarla a Venezia, preferì dedicarsi, per lo "spacio di forse quaranta anni" sino al 1624, alla "professione dell'Assessore" in "varie giudicature in città della Terraferma.". Fu a Bergamo come giudice della ragione nel 1593-94, a Belluno come vicario nel giugno 1594-nov. 1595 e, con lo stesso titolo, a Feltre nel novembre 1595-aprile 1597, a Padova una volta come giudice del maleficio, due volte come vicario, a Verona come vicario, a Brescia come giudice del maleficio e come vicario, a Vicenza come vicario. Funzione quella dell'assessore che, anche se non redditizia ("il guadagno non è molto"), gli pareva "onorevole" ed "importante", nella quale "ricercasi probità e dottrina legale, giudicando nel Civile, o nel Criminale secondo le leggi ed i statuti di ciascuna città".
Ne illustrava i compiti in un breve scritto del 1604, L'Assessore (pubbl. Rovigo, 1627), non trascurabile, se non altro pei cenni dedicati alla tortura. Spesso "experimentum fallacissimum", tale da indurre ad ammissioni di fatti mai commessi gli innocenti e non sempre in grado di vincere sull'ostinata ferocità dei malvagi, il B. la ritiene tuttavia consigliabile in vari casi, "havendo però anco riguardo alla qualità del delitto, alla dignità, o viltà del Reo", nonché alla sua costituzione fisica. Mentre la "corda" è il mezzo più usuale, dubbio è per lui il ricorso all'arsione delle estremità inferiori: gli accusati prima per l'"eccesivo dolore" non possono confessare, poi "cessando il dolore, non sono violentati a confessare".
Direttamente collegabili con questa sua lunga esperienza di magistrato sono le opere giuridiche del Bonifacio. Il ponderoso Liber de furtis...,in quo universa materia contrectationum diligenter examinatur,complures venetae leges commemorantur,quid in praxi sit observandum demonstratur (edito, secondo il Mazzuchelli, 6 volte, a partire dal 1591; edizione reperibile quella vicentina dal 1599), in latino, era "opus - a detta dell'autore - iudicibus, et advocatis utilissimum, omnibusque legum studiosis iucundissimum". In italiano invece, perché fosse ben compreso da quelli cui si rivolgeva ("principi, capitani, feudatarj e soldati italiani"), era steso l'ampio Commentario (uscito a Rovigo nel 1624, a Venezia nel 1694, e, sempre a Venezia, nel 1844 per suggerimento di un consigliere di Corte d'appello, Carlo Trolli, arricchito delle deliberazioni più importanti della legislazione posteriore al B. e da un catalogo, in ordine alfabetico, di quanti scrissero sullo stesso argomento "sino all'epoca" del B.), nel quale, avendo come punto di riferimento la legge senatoria sui feudi del 15 dic. 1586, il B. ne allargava l'interpretazione sino a "trattare la materia feudale, non solo secondo le leggi ed osservanze della Repubblica, ma eziandio secondo le consuetudini feudali, che sono state alle romane leggi unite, e secondo quello che è stato da' dottori scritto". Col Metodo delle leggi della Serenissima Repubblica di Venezia (Rovigo 1625), raggruppava infine in una specie di prospetto, sulla base di quattordici "materie", la complessa e folta vegetazione della legislazione veneta.
Non giuridica comunque l'opera fondamentale del B., la "longhissima" Historia Trivigiana dalle origini sino al 1591, alla "compositione" della quale dedicava dodici anni di intenso lavoro; divenuta assai rara la prima edizione (Treviso 1591), era pubblicata una seconda volta a Venezia nel 1744, per diretto interessamento del Consiglio di Rovigo, con, in più, le correzioni e le aggiunte - la narrazione arrivava, assai brevemente, al 1623 - arrecate posteriormente dal B., e premessa la sua vita e l'elenco completo dei suoi scritti. Assai vasto l'assunto volto a ricostruire "dal principio" le vicende della "onoratissima regione", includente anche Altino, Oderzo, Ceneda, Feltre, Belluno, Treviso.
Aduggiata da una forzata pretesa di eleganza formale e da un'estrinseca sostenutezza stilistica e, nella parte concernente i tempi più antichi, dalla genericità divagante di una ostentata erudizione (le citazioni vanno da Omero a Columella, da Procopio a Venanzio Fortunato), infelice velo alla mancanza di sicure notizie, l'esposizione via via si irrobustisce, a partire dal periodo comunale; sia pel ricorso diretto ai documenti - e la richiesta del B. del 1587 al Maggior Consiglio di Belluno di notizie sulle fonti di quell'archivio, cui si incaricò di provvedere lo storico bellunese Giorgio Piloni, attesta in lui un certo scrupolo di documentazione -, sia per l'utilizzazione, senza alcun cenno di citazione, di cronache rimaste inedite, che diviene saccheggio sistematico nei confronti della pregevole Cronaca di Treviso di Bartolomeo Zuccato. Incline ad accettare le leggende, insofferente di un vaglio rigoroso dei dati, troppo ampollosamente letterato per evitare un pretesto descrittivo, un'amplificazione esorbitante, il B. storico piacque, forse per questi suoi difetti, ai contemporanei. Ricchi doni ebbe il B. da Alfonso II duca di Ferrara per la favorevole menzione della casa d'Este, e pure da Feltre e Ceneda per le pagine ad esse dedicate; Treviso e Padova lo aggregarono al loro Consiglio. Ma i difetti dell'opera saranno già del tutto evidenti nel '700: addirittura sprezzante sarà il veronese Verci, accennando al B. e a "storici di simil pasta" (Storia della Marca Trivigiana, I, Venezia 1786, p. 101 n.).
L'Historia rafforzava definitivamente il prestigio di dotto del B., ben lungi tuttavia dall'esaurirne la smania di esibirsi su qualsiasi argomento. Ingenuamente vanesio, poteva appagare questa innocua tendenza nelle varie associazioni culturali di cui era membro, quali l'Accademia dei Solleciti a Treviso (dal 1588), l'Accademia Veneziana a Venezia (dal 1592), quella dei Fecondi a Padova (dal 1604) e dei Filarmonici a Verona (dal 1614).
Alla partecipazione alla vita di queste si devono anzitutto due lettioni (edite a Rovigo nel 1624 e 1625), di per sé insipide divagazioni più che puntuali commenti, a due sonetti ("Cercato ho sempre solitaria vita" e "Passa la nave mia colma d'oblio") del Petrarca che pel B. (assai diffidente di chi ponendo la "bellezza nell'oscurità" tormenta "il cervello" del lettore "con soggetti inusitati, metafore stravolte, et elocutioni") era modello di "purità" e "chiarezza" (per Dante, invece, faceva proprio il giudizio di Quintiliano su Ennio: "sacra selva, le cui antiche piante hanno più di religione che di bellezza"). Quindi, editi separatamente a Padova nel 1624, il Discorso... sopra la sua impresa (entrato a far parte dei Filarmonici col nome di "Opportuno", aveva scelto per impresa un "Horologio" a "forma d'una torre" sormontata da una campana), il Discorso... del modo di ben formare a questo tempo una tragedia (di pedissequa derivazione aristotelica anche se, incoerentemente, il B. ostenta una certa sufficienza verso la Poetica)e IlFrachetta (riportante le divergenti opinioni attribuite a Girolamo Frachetta, diplomatico e letterato autore di una Ragion di Stato, e al primo maestro del B., il Riccoboni, "intorno alle dedicationi dell'opere letterarie").
Affini a tali scritti per la peregrinità dell'argomento, anche se non provocate da manifestazioni accademiche, sono altre due operette: L'Hercole. Dialogo delli nomi,che alli figliuoli si devono imponere (Rovigo 1624) e, in latino, il De epitaphiis componendis (Rhodigii 1629, ma iniziato ancora nel 1596), ove considera "quae in honore defunctorum agerent antiqui", e prospetta "quo modo hoc tempore recte formari possint".
Del tutto trascurabile, qualitativamente e quantitativamente, la saltuaria attività di verseggiatore del B.: due sonetti in lode di Antonio Collalto si leggono nelle Poesie di diversi eccellentissimi ingegni trivigiani (Trivigi 1590, p. 35), raccolte da Giovanni Della Torre, e altri due sono inseriti nelle Lettere. Con tutta probabilità erra il Mazzuchelli attribuendo al B. una raccolta di Componimenti poetici che sarebbe uscita a Rovigo nel 1625, confondendo con gli Academici componimenti, titolo con cui il B., a Rovigo appunto nel 1625, fece legare insieme tre suoi scritti già usciti separati (IlDiscorso sulla sua impresa, Il Frachetta, ilcommento a "Passa la nave mia..."); né li nomina il catalogo delle opere del B. premesso all'edizione veneziana dell'Historia.
Grossa e assai curiosa fatica del B. - e, come tale, non sfuggì a Benedetto Croce - tanto nuova nel contenuto quanto monotona nella furia citatoria che la contraddistingue - l'Arte de' Cenni (Vicenza 1616), in cui esamina tutti i possibili aspetti e modi di quella che il Tasso chiamava "muta eloquenza". Stanco degli "strepiti forensi", teatri di "ogni odioso cianciume e garralità", il B. vagheggia una sorta di "virtuoso silentio", il solo che si addica ai personaggi di precipua autorità e nobile lignaggio. Amplissime, oltre seicento, per lui le possibilità comunicative ed espressive insite nel gestire col capo, con la zazzera e via via con l'ombelico e (perché no?) coi genitali (il B. scusa l'accenno ai "gesti obsceni" col fine di rendere più convincente l'invito ad evitarli), con le ginocchia, ecc. Né v'è attività umana, scienza o tecnica che sia, la quale possa prescindere dai cenni.
Assai breve, La repubblica delle api... con la quale si dimostra il modo di ben formare un nuovo governo democratico (Rovigo 1627) è un semplice scherzo, scritto senza impegno; perdura, nel contempo, la pedanteria del B., incapace di un sia pur momentaneo vivace ed estroso moto fantastico. L'operetta non a caso è dedicata ad Urbano VIII, nella cui antica arma di famiglia è scolpita l'ape; l'alveare, che già ispirò Virgilio, è da tener presente, ora che "si tratta di convertir nova gente", come modello di libero ed armonioso assetto, naturalmente aggiungendo, obbligatorio, "il rito Cattolico".
Non solo limitatamente alle api e al piano della struttura associativa l'uomo ha imparato dal mondo animale, ma ogni sua attività ne ha preso spunto. Tale è la tesi, col solito monotono corredo d'esempi e citazioni, de L'arti liberali et mecaniche,come siano state da gli animali irrationali a gli huomini dimostrate (Rovigo 1628); si passa dall'ovvio (la musica è nata dall'imitazione del canto degli uccelli) al grottesco involontario (il "sottrarre" s'osserva nell'aquila "che partorendo tre figliuoli, due ne scaccia... uno ne sotrahe et alleva", e la moltiplicazione "si può considerare nella fecondità della gallina", ecc.), conseguenza della mancata distinzione tra gli stimoli che le bestie offrono, ammaestrandolo, all'uomo e le operazioni che questi può fare prendendo gli animali ad oggetto passivo delle proprie meditazioni e dei propri slanci poetici.
Un solo episodio turbò la altrimenti tranquilla esistenza del B., rischiando di incrinare la sua solida reputazione. E fu quando, incautamente, propose, con un'Oratione data alle stampe a Padova nel 1609 (e ripubblicata a Rovigo nel 1624 senza un cenno di premessa sulla contesa cui diede origine), il trasporto a Rovigo del "miracoloso corpo" di S. Bellino, "dalla negletta, et fangosa villa... deserta et paludosa", abitata da "uomini vili", ov'era venerato, in una modesta chiesetta.
Per sua disgrazia in quella località possedeva un podere Battista Guarini che insorse pubblicando le proprie mordaci Ragioni (Ferrara 1609) in contrario. Osservava come mancasse, da parte del B. "ch'è pur dottore", ogni seria motivazione alla propugnata traslazione e lo accusava, in in modo tutt'altro che velato, di volontà di speculazione. Ché, incalzava il Guarini, se trasportati a Rovigo, i resti del santo sarebbero finiti "nella Chiesa di Monsignor Vicario [l'arciprete Girolamo Bonifacio] fratello suo"; e con essi le elemosine. "Guardiamo" - ironizzava sempre più sarcastico l'autore del Pastor fido - il santo "pur dal Dottore, che del resto non v'è pericolo". Il B. non replicò; basata sulla ridicola premessa che egli "per le occupationi sue a quello [il Guarini], rispondere non poteva", la Difesa (Parigi 1609, ma, in realtà, Padova) della sua proposta scritta da "Pietr'Antonio Salmone, Professor di Retorica", ch'altri non era che Baldassare Bonifacio, il futuro vescovo di Capodistria, risultò sfocata e priva di efficacia. Senza appello inoltre la lettera dogale, del 9 marzo 1609, intimante al vescovo di lasciare dov'erano i resti di S. Bellino.
Ritiratosi da ogni attività nel 1624, il B. trascorse gli anni sino al 1632 a Rovigo, quindi a Padova. La sicura agiatezza - aveva "in Padova e nel territorio Padovano case e terreni", cui si aggiungevano i frutti dell'eredità della prima moglie - e la predisposizione ad un loquace autocompiacimento gli permisero una vecchiaia serena.
Morì a Padova il 23 giugno 1635
Fonti e Bibl.: Venezia, Civico Museo Correr, cod. Cicogna 1775/x e 3414/15; B. Bonifacio, Musarum libri X, Venetiis 1646, pp. 280, 471; N. C. Papadopoli, Historia gymnasii patavini, II, Venetiis 1726, pp. 129 s.; G. M. Mazzuchelli, GliScritt. d'Italia, II, Brescia 1762, pp. 1652-57; L. Bailo, Di alcune fonti per la storia di Treviso, in Atti d. R. Dep. ven. di st. patria, IV (1879), pp. 4-32; G. B. Ferracina, Le relaz. di G. B. storico trevig. colle città di Belluno e Feltre, in Antologia veneta, II (1901), pp. 210-223; B. Croce, Il "linguaggio dei gesti", in La Critica, XXIX (1931), pp. 224 s., e in Varietà di storia letteraria e civile, s. 1, Bari 1935, pp. 273-275; G. Benzoni, G.B.,erudito uomo di legge e... devoto, in Studi veneziani, IX (1967), pp. 247-312.