BERARDI, Giovanni
Discendente da una famiglia comitale, infeudata di Tagliacozzo fino al sec. XIII, che derivava le sue origini da un certo Berardo, conte dei Marsi nel sec. X, il B., che nelle fonti viene talvolta ricordato come Giovanni di Tagliacozzo, nacque, forse in questa città, nella seconda metà del sec. XIV.
Della sua giovinezza e degli inizi della sua carriera ecclesiastica non è tramandato niente di preciso, ma, a quanto pare, il B. si distinse presto per erudizione: il Biondo lo ricordò come "philosophiae litterarumque sacrarum doctrina clarissimus" (cfr. F. Biondo, Italia illustrata, Romae 1474, regio III, 8, f. 51v), e Enea Silvio Piccolomini lo definì "summa philosophia preditus sacrarumque litterarum peritissimus" (cfr. Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolomini, p. 539).
II B. doveva essere imparentato, forse per parte di madre, con il ramo della famiglia Orsini, titolare in questo periodo della contea di Tagliacozzo. Forse a questi rapporti di parentela con la potente famiglia si deve in parte la sua rapida e fortunata carriera ecclesiastica. Certo è comunque che il 20 ott. 1421 papa Martino V lo nominò "clericus marsicanus", ancora in possesso dei soli ordini minori, arcivescovo di Taranto, carica che mantenne fino al 1444, quando, ormai divenuto cardinale di Santa Romana Chiesa, fu trasferito alla diocesi di Palestrina. Sebbene il B. con tutta probabilità non mettesse mai piede nella sua diocesi - della sua attività come arcivescovo di Taranto non si ha alcuna notizia - gli restò tuttavia per sempre il nome di arcivescovo e poi di cardinale di Taranto, con il quale è ricordato in genere dalle fonti.
Solo il successore di Martino V, Eugenio IV, affidò al B. varie importanti missioni diplomatiche e lo adoperò dal 1432 in poi per difendere gli interessi della Curia presso il concilio di Basilea.
I rapporti fra Eugenio IV e il concilio, che Martino V aveva convocato sotto la pressione dell'opinione pubblica il 10 febbraio 1431, furono tesi sin dall'inizio. Il papa, già il 18 dic. 1431, sciolse il concilio appena iniziato, trasferendolo a Bologna, dove avrebbe dovuto riunirsi diciotto mesi dopo sotto la sua presidenza e il suo più diretto controllo. Il concilio però si oppose a tale sospensione, rinnovò il decreto di Costanza sulla sua superiorità sopra il papa e sollecitò questo a giustificarsi personalmente o attraverso suoi rappresentanti davanti al concilio stesso.
In questa situazione Eugenio IV decise di mandare un'ambasceria a Basilea, incaricandone il B., l'arcivescovo Andrea di Colossi (Rodi), il vescovo Bertrando di Maguelone e l'auditore del Sacro Palazzo Antonio di S. Vito.
L'ambasceria, composta già nel marzo, lasciò Roma solo il 6 giugno 1432. Gli ambasciatori arrivarono alla fine del mese a Costanza, donde entrarono in trattative con il concilio per ottenere il salvacondotto per Basilea, ove il 14 agosto fecero il loro ingresso, accolti con grandi onori. Il 21 Ottennero udienza dall'assemblea, alla quale il B. trasmise i saluti del papa e ne presentò le lettere, che suscitarono le prime proteste, perché l'indirizzo non accennava alla superiorità del concilio sul papa.
Comunque, due giorni dopo, il 23 agosto, il B. tenne davanti all'assemblea generale un lungo e dotto discorso (Mansi, XXIX, coll. 482-492), nella cui prima parte parlò a lungo della "suprema potestas" e "iurisdictio apostolica", esponendo poi le ragioni che avevano indotto il papa a decidere il trasferimento del concilio - lo scarso numero dei prelati presenti a Basilea, la pericolosa vicinanza degli hussiti, le cattive condizioni di salute che impedivano a Eugenio di fare un viaggio così lungo, finalmente la troppo grande distanza per i Greci - e concludendo con l'invito di accondiscendere al desiderio del pontefice di trasferire il concilio in una città italiana.
Il concilio gli rispose solennemente il 3 settembre, rifiutando decisamente di trasferirsi in Italia. Ulteriori trattative non portarono a nessun risultato. Il 6 settembre il concilio rinnovò l'accusa contro il papa e i cardinali riluttanti, respingendo anche le proteste degli ambasciatori papali che non godevano dei pieni poteri necessari per trattare col concilio. Non riuscendo a ottenere neanche la proroga del loro salvacondotto, gli ambasciatori papali lasciarono Basilea il 10 sett. 1432.
La seconda missione del B. in Germania, svoltasi nel luglio dell'anno seguente, si concluse ugualmente senza alcun successo. Anche se all'inizio del 1433, per intervento di Sigismondo, re dei Romani, che desiderava mantenersi in buoni rapporti con la Curia in vista dell'incoronazione imperiale, si era giunti a una breve distensione, la situazione si riaggravò tuttavia presto, perché il papa, pur consentendo che il concilio restasse a Basilea, continuò a rivendicare la sua superiorità sopra di esso, alla qual cosa l'assemblea replicò con la ripresa del processo per contumacia, imbastito contro di lui e contro i cardinali che non si erano presentati a Basilea.
Il 9 luglio il B. giunse per la seconda volta a Basilea, insieme all'arcivescovo di Spalato; si presentarono davanti al concilio il giorno dopo, chiedendo invano di rimandare fino all'arrivo degli ambasciatori imperiali tutte le decisioni e in particolare quelle concernenti il processo contro Eugenio. Il 13 luglio, nonostante le violente proteste degli ambasciatori papali, il concilio pronunciò la minaccia della sospensione del papa, se questi entro due mesi non avesse revocato tutte le sue misure contro il concilio. Dopo questa seduta tumultuosa il B. ritornò subito a Roma.
Già allinizio dell'anno seguente, quando papa Eugenio IV, per la sempre crescente autorità del concilio e certe opposizioni sorte contro di lui nella stessa Curia, si era visto costretto a ritirare le sue misure contro il concilio e a riconoscerne la legittimità, il B. fu mandato ancora una volta in Germania.
Giunse a Basilea, insieme col vescovo di Cervia, il 31 genn. 1434. Il 4 febbraio presentò all'assemblea generale la bolla credenziale e quella dell'adesione del papa al concilio. Ma quando, il 15 febbraio, il B. insieme con il vescovo di Padova, Pietro Donato, e l'abate Ludovico di S. Giustina di Padova, trasmise al concilio tre bolle del dicembre precedente, contenenti l'autorizzazione a presiedere in nome di Eugenio l'assemblea, sorsero nuovi contrasti, perché il concilio non volle ammettere altri presidenti che i quattro cardinali nominati già nel 1433. Per intervento imperiale si raggiunse finalmente un accordo, e il 24 aprile il B., dopo aver giurato di osservare il decreto di Costanza sulla superiorità del concilio sul papa, fu incorporato nel concilio insieme con il vescovo e l'abate di Padova, e cominciò ad esercitare la sua presidenza, che secondo gli accordi non gli concedeva però alcuna giurisdizione sopra il concilio.
Nel corso degli anni seguenti il B. si mostrò un inflessibile e spesso intrattabile rappresentante dell'estrema fazione curiale che sosteneva ad oltranza le posizioni dei papa contro il concilio. Protestò - senza successo - nel dicembre 1434 contro l'istituzione di una cancelleria conciliare che potesse concedere benefici, e nel febbraio 1435 contro la decisione delle deputazioni che attribuiva al concilio il diritto di concedere indulgenze.
Ma il primo violento scontro avvenne il 9 giugno seguente, quando il concilio rilasciò il cosiddetto decreto delle annate, che proibiva tutti i pagamenti richiesti fino ad allora in occasione delle concessioni di benefici, delle ordinazioni e confermazioni e costituiva un duro colpo contro la potenza finanziaria della S. Sede. Il B. lanciò subito l'accusa di eresia e abbandonò per protesta l'assemblea generale, nella quale, nonostante diverse ammonizioni di osservare secondo il suo giuramento i decreti del concilio, non ritornò fino all'ottobre.
Le correnti sempre più radicali del concilio da una parte, e la durezza del papa e dei suoi rappresentanti dall'altra col passare del tempo avevano reso inevitabile una definitiva rottura, occasionata dalla questione secondaria della sede da scegliere per celebrare il futuro concilio d'unione con i Greci. Il 7 maggio 1437, in una seduta che si svolse tumultuosamente, la maggioranza decise per Basilea, Avignone o una città savoiarda, mentre una minoranza, la fazione curiale con alla testa il B., votò per Udine, Forlì o Firenze. Ognuna delle due parti emanò il suo decreto, ma fu sigillato solo quello della maggioranza. In questa situazione il B., corrompendo i guardasigilli, si impadroni del sigillo del concilio, lo appose al decreto della minoranza, che, insieme con lettere, mandò immediatamente al papa e all'imperatore bizantino. L'imbroglio fu però scoperto: il B. fu arrestato e impedito di lasciare Basilea senza il consenso del concilio. Ma prima ancora che la commissione inquirente, subito riunita, avesse finito le sue indagini, egli riuscì a fuggire. Tornò in Italia, e Eugenio IV confermò il decreto della minoranza il 18 sett. 1437 e inaugurò il concilio d'unione l'8 genn. 1438 a Ferrara. Il processo iniziato a Basilea contro il B. si protrasse ancora fino al 1439La sentenza, pronunciata il 27 febbr. 1439, lo giudicò colpevole di falsificazione, di falso giuramento e di infamia, e lo privò quindi - tuttavia senza nessuna efficacia - dell'arcivescovato di Taranto e degli altri benefici ecclesiastici.
Malgrado questo processo, Eugenio IV chiamò il B., nel sett. 1438, a far parte della legazione pontificia, che, sotto la direzione del cardinale Niccolò Albergati, si doveva recare alla dieta di Norimberga, indetta per l'ottobre, per avviare trattative con i principi elettori tedeschi, che in occasione dell'elezione del nuovo re dei Romani, Alberto II, il 17 marzo 1438, si erano dichiarati neutrali nella lotta tra papa e concilio.
Al B. fu affidato inoltre, con bolla dell'11 sett. 1438, il compito speciale di adoperarsi in favore di Alberto II per un accomodamento dei contrasti sorti tra lui e Ladislao re di Polonia per l'eredìtà del regno di Boemia. Il 4 ottobre gli furono conferiti i pieni poteri per le trattative.
I legati chiesero alla dieta l'approvazione della politica pontificia nei confronti del concilio e dei principi tedeschi, e il riconoscimento della buona disponibilità del papa ad ulteriori trattative. La dieta, nella quale non mancava una forte animosità anticuriale, che il B. tentò invano di placare, rifiutò però nettamente di fare tale dichiarazione, rinviando i legati alla prossima assemblea, convocata per il marzo1439 a Francoforte. Il cardinale Albergati, dopo questo insuccesso, tornò subito in Italia, lasciando alla testa dell'ambasceria pontificia il Berardi.
Il B. però - a quanto pare - si interessò poco della faccenda dell'eredità boema, e stava ancora a Norimberga, quando nel marzo del 1439 la nuova dieta, che per la partecipazione di ambasciatori francesi, castigliani, portoghesi e milanesi aveva assunto un carattere internazionale, si riunì a Magonza. Il 27 febbraio il concilio di Basilea aveva pronunciato la sentenza contro di lui, e probabilmente il B. per tale motivo non osò lasciare Norimberga, pensando forse inoltre di non avere a Magonza alcuna concreta possibilità di successo. Il 12 marzo tuttavia chiese agli arcivescovi di Magonza e di Colonia il salvacondotto per recarsi a Magonza: gli fu concesso il 18 marzo.
Ma solo quando gli giunse l'allarmante notizia che il 26 marzo la maggior parte dei principi e vescovi tedeschi, nella cosiddetta "accettazione di Magonza", avevano riconosciuto una gran parte dei decreti riformatori di Basilea, con l'intenzione di rendere così il concilio più disposto ad accettare la loro proposta di mediazione, intesa a trasferire l'assemblea in un terzo luogo da destinare, il B. partì da Norimberga. Arrivò a Magonza il 14 aprile, quando la maggior parte dei principi e dei delegati avevano già lasciato la dieta. Ne riparti perciò il 25 apr. 1439.
Il 20 aprile Eugenio IV aveva conferito nuovamente al B. e al vescovo di Zengg i pieni poteri per trattare al congresso di Lublau, progettato per il 14 maggio, la pace fra Alberto II e Ladislao di Polonia. Gli ambasciatori papali vi riuscirono a negoziare un armistizio fino al settembre, con la riserva che i due re dovessero incontrarsi personalmente di lì a poco per ulteriori trattative.
Subito dopo il B. si recò alla corte reale di Vienna col proposito di sfruttare il successo della diplomazia pontificia a Lublau con richieste di concessioni nella questione conciliare. A quanto pare però Alberto non volle fare concessioni, cosicché il B. lasciò Vienna il 30 maggio e proseguì per Budapest, dove sperava di poter ottenere presso la regina e la corte ungherese quelle concessioni che non aveva avuto a Vienna.
La cosa stava quasi per riuscirgli: la regina, figlia dell'imperatore Sigismondo e moglie di Alberto II, e la nobiltà ungherese avevano già promesso di restare dalla parte del papa, ma l'arrivo di re Alberto e di un ambasciatore del concilio di Basilea compromise le trattative. Malgrado le reiterate promesse del B. di adoperarsi per la fine della guerra boema e di procurare al re l'aiuto di Venezia, se questi riusciva ad indurre il clero e i cittadini di Basilea ad espellere il concilio dalla città, Alberto II si attenne alle decisioni prese a Magonza. Così il B., irritatissimo per gli insuccessi subiti, il 20 giugno 1439 riparti da Budapest.
Restò ancora in Germania fino all'inizio dell'anno seguente e tornò a Firenze, nuova sede del concilio d'unione, il 26 marzo 1440, dove, promosso già il 18 dic. 1439 alla dignità di cardinale con il titolo presbiteriale dei SS. Nereo e Achilleo, fu accolto con grandi onori.
Due mesi dopo, il 20 maggio 1440, Eugenio nominò il B. legato a latere per trattare la pace fra Renato d'Angiò e Alfonso V d'Aragona, da più di cinque anni in lotta per l'eredità del Regno di Sicilia. La Curia aveva favorito fino ad allora la candidatura dell'Angiò, cosicché Alfonso aveva assunto negli ultimi tempi un atteggiamento sempre più ostile verso Roma, impedendo persino al legato l'ingresso nel Regno. Il B., il 7 dicembre, con un potente esercito al comando dei conte di Tagliacozzo, Antonio Orsini, si mise in marcia verso il Regno. Alfonso V gli venne incontro con le sue truppe, minacciando di invadere lo Stato della Chiesa. Ma contro ogni previsione il re d'Aragona concluse col B. un accordo, che secondo il giudizio dei Diurnali del duca di Monteleone segnò il "principio della perdenza del stato de Rè Ranato" (Rer. italic. Script., 2 ediz., XXI, s, p. 173). Stipulato l'accordo con Alfonso, il B. ritirò le sue truppe dal Regno e tornò a Firenze il 23 dic. 1441.
D'allora in poi l'attività del B., della quale conosciamo però solo pochi particolari, si svolse esclusivamente nell'ambito della Curia.
Tornò a Roma con Eugenio IV il 28sett. 1443 e fu nominato poco dopo camerario del Sacro Collegio, carica che mantenne fino all'ottobre del 1444. Già il 7 marzo dello stesso anno era stato promosso cardinale vescovo di Palestrina e poco dopo all'alta carica di penitenziere maggiore di Santa Romana Chiesa. Fu nominato protettore dell'Ordine dei frati minori il 27 apr. 1445 e ricevette in commenda, il 31 maggio seguente, il monastero cisterciense di S. Stefano presso Sermoneta. Nel 1446 amministrò per breve tempo le diocesi spagnole di León e di Orense e fu incaricato, il 17 giugno dell'anno seguente, di far parte della commissione inquirente per la canonizzazione di Bemardino da Siena.
Quando il 23 febbr. 1447 papa Eugenio IV morì a Firenze, il B. fu menzionato fra i papabili, ma non avendo la sua candidatura serie possibilità di successo, egli stesso promosse l'elezione di Tommaso Parentucelli, che fu consacrato papa il 19 marzo 1447 col nome di Niccolò V.
Dopo una vita interamente spesa nella lotta per la potenza e la grandezza del papato, più che mai minacciato in questo periodo, il B. morì a Roma il 21 genn. 1449 e fu sepolto nella chiesa degli eremitani di S. Agostino.
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