ROERO, Giovanni Battista
– Nacque a Pralormo (Torino) il 28 novembre 1684, terzogenito di Carlo Oddone, conte di Pralormo, e Paola Curbis di San Michele.
Esponente di un’antica casata subalpina, fu avviato alla carriera ecclesiastica come il fratello Girolamo e la sorella Caterina. Entrato nel seminario di Torino, venne ordinato sacerdote il 21 marzo 1711. Dopo aver condotto gli studi universitari a Roma, si addottorò in utroque iure a Pisa nel 1716, anno nel quale entrò anche nell’Accademia degli Incolti di Torino, con il nome di Eccelso. In quello stesso anno Roero, che già dal 1714 aveva fatto il suo ingresso nel capitolo canonicale di Torino (dove nel 1725 avrebbe poi acquisito la dignità di arcidiacono), divenne consultore del S. Uffizio.
Nel 1727 arrivò la promozione episcopale: a Roero fu conferita la sede di Acqui, anche se inizialmente era stata presa in considerazione la possibilità di destinarlo alla cattedra di Alessandria, affidata invece – su pressioni del potente ministro Ferrero d’Ormea – al domenicano Carlo Vincenzo Ferrero. Le scelta di assegnare ad Acqui «un soggetto di nascimento, e ch’aveva tutte le parti di buon ecclesiastico, adattate ai bisogni spirituali della diocesi» (cit. in Milano, 1993-94, p. 5) era stata compiuta dalla corte anche per rafforzare, attraverso l’insediamento di vescovi espressione di un ceto dirigente di antica e provata fedeltà ai Savoia, il controllo su chiese – come quella acquese – entrate piuttosto tardi nell’orbita sabauda e sprovviste da tempo di un pastore.
La diocesi (rimasta vacante dal 1721 e non provvista di nuovo vescovo a causa delle tensioni fra Vittorio Amedeo II e la Curia romana, allentatesi solo dopo la stipula del concordato con Benedetto XIII) presentava diffusi problemi di carattere morale e disciplinare. Come la visita pastorale ebbe modo di evidenziare, la situazione più critica si annidava nel clero regolare, la cui condotta era spesso foriera di scandali e abusi. Il rigoroso programma di Roero (le cui direttive furono delineate nelle costituzioni sinodali del 1729) mirava, innanzitutto, a ristabilire una ferma disciplina ecclesiastica; per questo motivo, nel corso degli oltre sedici anni di governo della diocesi, diverse furono le censure nei confronti dei religiosi. Oltre ai provvedimenti restrittivi (fra cui rientrava anche una più selettiva procedura di ammissione dei chierici agli ordini sacri), Roero caratterizzò il suo episcopato con un marcato impulso all’azione pastorale, testimoniato dall’insistenza (soprattutto presso i parroci) sulla frequenza degli esercizi spirituali e dall’incentivazione delle pratiche di pietà, nonché dalla promozione dell’edilizia sacra.
Le spiccate doti di governo e lo zelo pastorale manifestati da Roero convinsero la corte a guardare ad Acqui quando, nel 1743, per la morte dell’arcivescovo Francesco Arborio di Gattinara, l’arcidiocesi di Torino venne a trovarsi vacante. Per la più importante chiesa del suo regno Carlo Emanuele III, che da poco aveva stipulato un nuovo concordato con Benedetto XIV, aveva infatti bisogno di un prelato «in cui alla chiarezza del sangue s’unisce pur lo splendore di quelle più insigni virtù che distinguer debbono un soggetto di simil grado» (cit. ibid., pp. 6 s.). A queste esigenze sembrava rispondere Roero che, trasferito il 3 febbraio 1744, il 17 marzo prese possesso della sua chiesa. Due giorni dopo il nuovo arcivescovo giunse a Torino, fastosamente accolto con grandi onori dalle autorità municipali.
Roero arrivava nella capitale alla vigilia di notevoli trasformazioni sul piano della geografia ecclesiastica. Il miglioramento delle relazioni diplomatiche con la Sede apostolica a seguito dei patti concordatari aveva spianato la strada al progetto, da tempo caldeggiato dal governo piemontese, di ridefinire i confini delle giurisdizioni ecclesiastiche al fine di armonizzarli con quelli delle circoscrizioni civili. In quella stessa direzione andava anche il piano che prevedeva la riduzione delle giurisdizioni abbaziali, da sostituire con le giurisdizioni episcopali di vescovadi già esistenti oppure di nuova fondazione. Il caso ritenuto più urgente era quello di Pinerolo, una città priva di cattedra episcopale (ma sede di un’antica abbazia nullius dioecesis) che, tanto per la posizione geografica (la quale ne faceva una fra le principali porte d’Italia) quanto per le peculiarità religiose del territorio (le vicine valli erano densamente abitate da valdesi), meritava ormai, a giudizio della corte, la salda guida di un vescovo. Dopo lunghe trattative, alla fine del 1748 Benedetto XIV eresse Pinerolo a sede di una diocesi che si estendeva su luoghi precedentemente soggetti a giurisdizione abbaziale (l’abbazia di S. Maria di Pinerolo, il priorato di S. Giusto di Susa e la prevostura di Oulx), ma anche su alcune terre (quindici loca della val Pellice) scorporate dall’arcidiocesi di Torino. La decisione di rendere la nuova diocesi suffraganea a Torino e le compensazioni territoriali ottenute (che avevano coinvolto anche le diocesi di Saluzzo e di Alba), mitigarono solo parzialmente lo scontento di Roero, per il quale «in un arcivescovato deve alla dignità corrispondere anche l’ampiezza della diocesi» (cit. in Cozzo, in Il Settecento..., 2001, pp. 356 s.).
Oltre a significative modifiche della geografia ecclesiastica, l’arrivo di Roero a Torino era stato segnato da un importante cambiamento negli organigrammi del clero di corte. Rompendo una solida tradizione che voleva l’arcivescovo di Torino assumere anche la carica di grand’elemosiniere, nel 1747 Carlo Emanuele III assegnò quest’ultima al cugino, il cardinale Carlo Vittorio delle Lanze. La differenziazione istituzionale fra le massime autorità ecclesiastiche (e i relativi spazi sacri) della corte e della città comportò una permanente tensione destinata a risolversi solo dopo la morte di Roero, quando il suo successore, Francesco Luserna Rorengo di Rorà, tornò ad assumere anche la carica di grand’elemosiniere. Venendosi a trovare inibito nell’esercizio delle tradizionali competenze sulla vita religiosa di corte (significativa, a tal proposito, è la marginalità mostrata dall’arcivescovo in occasione dell’ostensione pubblica della Sindone del 1750, le cui cerimonie furono presiedute dal cardinale delle Lanze), Roero concentrò l’attenzione sulla sua diocesi, nella quale intraprese una zelante azione pastorale i cui strumenti principali furono la visita (compiuta fra il 1750 e il 1753) e il sinodo (celebrato nel 1755).
In vista di queste iniziative, nel 1749 l’arcivescovo aveva inviato ai parroci una lettera pastorale con un minuzioso questionario tramite il quale venivano raccolti dati utili e informazioni propedeutiche allo svolgimento della visita. Tale procedura (che sarebbe stata seguita anche dai successori di Roero) consentiva all’ordinario di avere un dettagliato quadro d’insieme sullo stato delle chiese della diocesi. Particolare attenzione venne poi riservata dall’arcivescovo alla condizione delle cappelle campestri, oggetto di una specifica indagine parallela alla visita, affidata ai suoi delegati.
Gli anni centrali dell’episcopato coincisero con l’acuirsi delle tensioni fra la S. Sede e la corte sarda. La mancata promozione cardinalizia del nunzio apostolico Ludovico Merlini nel Concistoro del 1753 venne considerata lesiva del prestigio sabaudo. La conseguente decisione di Carlo Emanuele III di chiudere la nunziatura, se da un lato manifestava platealmente lo sdegno di un monarca che pretendeva di godere delle stesse prerogative riservate alle altre teste coronate, dall’altro offriva al governo un’inattesa opportunità per liberarsi di un’istituzione – il tribunale della nunziatura – che, stante i continui conflitti in materia giurisdizionale, appariva sempre più ingombrante e ormai anacronistica. L’espulsione di monsignor Merlini, a cui subentrò un semplice incaricato d’affari, impegnò le due corti in un complesso gioco diplomatico in cui la tensione nei rapporti veniva talora allentata da gesti e iniziative di reciproca apertura. A una fase di momentanea distensione nelle relazioni fra la Curia romana e il governo sardo va ricondotta l’elevazione alla porpora dell’arcivescovo di Torino, la cui nomina prima a cancelliere (23 giugno 1750), poi a cavaliere dell’Ordine dell’Annunziata (3 aprile 1756), insieme a quella di abate commendatario della pingue abbazia di S. Maria di Casanova, ne aveva già palesato la stima e la fiducia godute presso il re.
Creato cardinale presbitero il 5 aprile 1756, Roero indossò il cappello rosso due anni dopo. Nell’estate del 1758 l’arcivescovo si portò infatti a Roma non solo per prendere possesso del suo titolo (la chiesa di S. Crisogono) e intervenire nelle quattro congregazioni (Vescovi e regolari, Riti, Immunità, Indulgenze) alle quali era stato assegnato, ma soprattutto per partecipare al conclave indetto dopo la morte di Benedetto XIV. Fra i papabili figurava anche un suddito sabaudo, il cardinale Carlo Alberto Guidobono Cavalchini, sul cui nome, sgradito a Luigi XV, cadde tuttavia il veto dei porporati francesi. L’elezione del veneziano Carlo Rezzonico, che Roero reputava accettabile in quanto portava al soglio un pontefice «di nazione indifferente» (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie politiche per rapporto all’interno, Lettere diverse Real Casa, Lettere cardinali, m. 41, lettera del 1° luglio 1758) e non apertamente ostile ai Savoia, non attenuò, almeno in un primo momento, l’astiosità verso Guidobono Cavalchini, di cui i francesi tentarono invano di ostacolare anche la nomina a protodatario. Nelle settimane di permanenza a Roma («dove, se dovessi continuare, consumarei sino alle ossa», affermava Roero impaziente di tornare a Torino: ibid., lettera del 26 agosto 1758), il cardinale ebbe modo di trattare con il papa e la Curia diverse questioni rimaste aperte.
A Torino la sfera politica e quella religiosa stavano infatti entrando in quegli anni in una fase di crescente conflittualità le cui ragioni andavano ben oltre le periodiche tensioni fra la corte sabauda e quella romana, e i cui riflessi coinvolgevano ampi settori della vita pubblica. È il caso dell’Università dove, sullo sfondo di una sempre più marcata insofferenza nei confronti dei gesuiti, che continuavano tuttavia a godere della fiducia e del pieno appoggio dell’arcivescovo (il cui teologo e più stretto consigliere era un padre della Compagnia, Giovanni Battista Piovano), si consumò un duro scontro fra la corrente filocurialista (strettamente legata all’ordine ignaziano) e quella giurisdizionalista (segnata da timide aperture al giansenismo). Al filogesuitismo di Roero (che nonostante indizi significativi, come l’affidamento della predicazione e della direzione spirituale nel seminario ai padri della Compagnia, le più recenti ricostruzioni storiografiche hanno consigliato «se non di rivedere, almeno di problematizzare» con maggior cautela: Silvestrini, in Storia di Torino, 2002, p. 413) sono riconducibili le pressioni sul governo per ottenere la condanna e l’espulsione dall’ateneo torinese dell’abate Francesco Antonio Chionio, accusato nel 1754 di diffondere dalla sua cattedra di diritto canonico teorie regaliste, gallicane e richeriste lesive dei diritti della Chiesa. Nella stessa prospettiva vanno letti gli sforzi di Roero per contrastare la diffusione del catechismo giansenisteggiante di François-Philippe Mésenguy (a cui egli opponeva fermamente quello bellarminiano), e il suo impegno per incentivare le devozioni al Ss. Sacramento (nel 1753 partecipò attivamente alle celebrazioni per il terzo centenario del miracolo eucaristico di Torino) e al Sacro Cuore (che trovò tuttavia nel vescovo della neonata diocesi di Pinerolo, Jean-Baptiste d’Orlié de Saint-Innocent, uno strenuo detrattore).
Morto a Torino il 9 ottobre 1766, quattro giorni dopo fu tumulato nella chiesa di S. Teresa. Il rapporto privilegiato con la Compagnia di Gesù in chiave antigiansenista non aveva infatti impedito a Roero di guardare con particolare generosità all’Ordine dei carmelitani scalzi, la cui chiesa torinese nel 1764 era stata rinnovata nella facciata a spese del cardinale e in cui egli aveva stabilito, per disposizione testamentaria, di trovare la sua ultima dimora.
Fonti e Bibl.: Acqui Terme, Archivio arcivescovile, Fondo vescovi, Atti del vescovo Roero; Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie politiche per rapporto all’interno, Lettere diverse Real Casa, Lettere cardinali, m. 41, f. Roero di Pralormo; Lettere vescovi, mm. 1, 103; Riunite, Fondo della Chiesa di Roddi, m. 140; Torino, Biblioteca Reale, ms. Storia Patria 757, II, p. 847; ibid., Archivio arcivescovile, Visite Pastorali, 7.1.29-39; Relazioni sullo stato delle chiese, 8.2.1-6; Corrispondenze, 11.3.1; Archivi Privati, 14.3, Provvisioni semplici e beneficiarie, 1744-1766; Constitutiones editae in dioecesana Synodo Aquis habita ab illustrissimo [...] Joanne Baptista Rotario episc., et comite aquensi [...] Die duodecima junii millesimo septingentesimo vigesimo nono, Astae 1729; Raccolta di componimenti poetici nel solenne ingresso dell’ill.mo e rev.mo monsignore Gio. Battista Rovero arcivescovo di Torino, Torino 1744; Prima dioecesana synodus taurinensis celebrata 12. et 11. Kal. Majas 1755. Ab excellentissimo, & reverendissimo domino D. Joanne Baptista Rotario archiepiscopo taurinensi, Augustae Taurinorum 1755; I. Milano, La visita pastorale dell’arcivescovo G.B. R. nella diocesi di Torino (1750-1753), tesi di laurea, Università di Torino, Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 1993-94.
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