PIAZZETTA, Giovanni Battista
Pittore, nato a Venezia il 13 febbraio 1682, morto ivi il 28 aprile 1754. Giovanissimo, stette nella bottega di suo padre, Giacomo, intagliatore di legno e scultore; poi, affermatasi la sua vocazione per la pittura, fu posto alla scuola di Antonio Molinari, presso il quale rimase fino ai venti anni. Da quest'epoca (1703) fin verso il 1711 mancano notizie sicure di lui: tutto porta a supporre però che, allontanatosi da Venezia, il giovane pittore abbia soggiornato per qualche tempo a Bologna. Nel '27, anno in cui gli si termina di pagare la pala di san Filippo Neri per la chiesa dei Filippini a Venezia, egli vien fatto socio dell'Accademia Clementina di Bologna; di quest'anno inoltre è un documento che ricorda i quattro ovati a chiaroscuro da lui dipinti, probabilmente due anni innanzi, per il soffitto dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia. Del '32 è la tela con l'Estasi di San Francesco alla Pinacoteca di Vicenza, d'un anno dopo sono il Martirio nel duomo di Chioggia e le tele di S. Stae e di S. Vitale. L'Assunzione della Vergine nel Museo di Lilla e l'autoritratto dell'Albertina di Vienna (disegno) sono del 1735; e fu dipinto anche prima il ritratto di Giulia Lama (Dr. Planiscig, Vienna). Verso il 1730 il pittore eseguì la pala dei Gesuati e nel '40 la famosa Indovina; nel'43 gli si paga il S. Domenico dei Gesuati e gli si comprano l'Alfiere e il David (Galleria di Dresda). Seguono ('44) la pala per Arrigo a Zbraslav (Praga), la Decollazione del Battista al Santo di Padova, il San Gaetano dell'Accademia dei Concordi a Rovigo, e, forse, l'Adorazione dei Pastori del duomo di Würzburg (1745). Nel 1750, mentre lavora a dipinti, ma specialmente a mirabili disegni, il P. viene nominato direttore dell'Accademia di Venezia.
Malgrado questo pubblico riconoscimento del suo lavoro, gli ultimi anni della vita del pittore furono tristi e dolorosissimi. Li trascorse nella miseria, e in una dignitosa ma amara solitudine, assai poco producendo.
Non risulta che il P. abbia appreso nulla di sostanziale per l'arte sua dal giovanile soggiorno nella bottega paterna, sebbene altri abbia visto nel suo vivo interesse formale quasi un inconscio residuo di quella primitiva educazione al modellare in legno. Neppure dal suo primo vero maestro, il Molinari, il pittore dovette trarre insegnamenti che andassero più in là della tecnica: ma da quello forse imparò la preferenza per il colore arrossato e per una certa nettezza di segno, subito da lui trasformata in reale forza plastica, non escludente una dolcezza elastica di sfumato: ma forse la maggiore importanza del Molinari nei suoi riguardi consistette nell'indirizzarne l'attenzione verso la pittura di Antonio Zanchi: il quale, dei manieristi veneti, fu il più gagliardo e colui che sentì più fortemente il rinnovato problema della forma investita dalla luce. In seguito, durante il soggiorno del P. a Bologna, che gli offerse la diretta visione delle opere del Crespi e quella assai più feconda, del sano luminismo del Guercino giovanile, egli rafforzò quella solidità formale di lontana origine caravaggesca, che fu la sua dote tecnica più importante, dal lato storico; così che poi, ritornato a Venezia, si trovò in grado di cogliere subito, dal fondo della pittura secentesca più vitale, da uno Strozzi, da un Liss, prevalentemente quegli accenti in cui più si risentiva il sostegno della riforma del Merisi, traslata in colore.
Così il P., guidato dalla sua istintiva assolutezza di sentire che, attraverso l'avvicendarsi delle esperienze, lo rimetteva sempre sulla via maestra della chiara affermazione dimensionale, venne formandosi una base, per un Veneziano singolarmente plastica, allo stile: tal che la sua importanza per la storia della pittura veneta del Settecento è della stessa natura, se non della stessa ampiezza, di quella del Mantegna due secoli innanzi. Codesto carattere è più chiaro nelle sue opere giovanili, tra cui basterà nominare la pala con la Vergine e San Filippo Neri nella chiesa della Fava, il soffitto in tela (il P. non fu mai affrescante) con la Gloria di San Domenico ai Santi Giovanni e Paolo a Venezia, e l'Estasi di San Francesco al Museo di Vicenza. Nella maturità il pittore rischiara le tinte e varia i colori, diviene insomma più veneziano, senza menomare però la saldezza dello scheletro chiaroscurale alle figure: sono di questo periodo le tele di Parma (Assunta, alle Gallerie) e di Stoccolma (Estasi di Santa Teresa, al Museo), la Cena in Emaus del Museo di Cleveland, la Rebecca di Brera, l'Indovina dell'Accademia di Venezia, ecc.
La vecchiaia riporta il pittore a un incupimento del chiaroscuro, che diviene anche piuttosto sordo per un prevalere dell'interesse luministico su quello propriamente coloristico: vi sono però, anche in quest'ultimo tempo, stanco, solitario e spiritualmente oscuro del P., opere che si elevano alla suprema altezza della liberazione: citiamo per tutte la Decollazione del Battista nel Museo antoniano di Padova, oltre ai disegni bellissimi.
L'espressione artistica del P. fu frutto di straordinaria intensità di sentimento, non diluita, ma volutamente concentrata in dense e brevi sintesi pittoriche. Infatti il P., sebbene venezianissimo di nascita, d'educazione e d'arte, sembra voglia tormentosamente inseguire un miraggio di assolutezza plastica: sicché la sua opera oscilla, per questa sua intima estrema difficoltà, tra i più alti culmini dell'arte e la delusione del non raggiunto. Tecnicamente il pittore si distingue dai Veneti del suo tempo per una forza disegnativa inconsueta, benché il suo sia un disegno pittorico, senza nulla di lineare in sé: e basti, a conferma, ricordare com'egli sia stato il maggior disegnatore del Settecento.
La scuola veneziana e forse anche il Crespi maturo - quando non lo travisò in accademie - trovarono nei suoi esempî quel solido scheletro formale che loro mancava, e che era necessario per dar vita agli aerei ma evidentissimi sogni del Tiepolo.
Bibl.: Fiocco, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXVI, Lipsia 1926; R. Pallucchini, L'arte di B. P., Bologna 1934.