NICCOLINI, Giovanni Battista
NICCOLINI, Giovanni Battista. – Quinto figlio di Ottobuono (detto Ottone) di Lapo e di Maria di Tommaso Corbinelli, nacque a Firenze, nel quartiere di S. Croce, il 20 febbraio 1451.
La famiglia, medicea della prima ora, era una delle più ricche e potenti della città.
Avviato alla carriera ecclesiastica, divenne canonico della cattedrale cittadina nel 1467 e suddiacono il 23 aprile 1473, per mano del vescovo di Cortona, Mariano Salvini. In quel momento poteva già contare su alcuni benefici, pensioni e commende ecclesiastiche: la chiesa di S. Margherita a Montici, la parrocchiale di S. Cristoforo del Corso a Firenze, la chiesa pievana di S. Giovanni d’Agliano, detta del Montale, nella diocesi di Pistoia.
Dopo aver compiuto gli studi primari presso la casa paterna con il precettore Cherubino Quarquagli, uomo di lettere legato a Marsilio Ficino e all’Accademia platonica, portò avanti l’impegno universitario presso lo Studio di Perugia fino al 1473, poi presso quello di Pisa, appena fondato, specializzandosi in diritto canonico. Nell’estate del 1469 scrisse due lettere al padre, ragguagliandolo sui progressi in questo campo. Nel lasciare Perugia, portò a compimento con successo il suo primo incarico di tipo diplomatico: convincere, su richiesta di Lorenzo de’ Medici, i celebri giuristi Baldo Bartolini, Pier Filippo della Corgna, Baglione Vibi (o da Monte Vibione) e forse Alberto di Lorenzo Betto, a lasciare lo Studio perugino e a trasferirsi presso quello pisano. A Pisa, dove nel 1474 acquistò un pezzo di terra con una casa e costruiva relazioni d’affari, si addottorò al principio del 1475.
Nel 1475 la sua carriera ecclesiastica conobbe un’improvvisa accelerazione: se nel giugno di quell’anno, nonostante l’intervento della Signoria e l’appoggio del cardinale Giuliano della Rovere, dell’arcivescovo di Firenze Raimondo Orsini e di Girolamo Riario, signore di Imola e nipote di Sisto IV, non riuscì a ottenere un posto di chierico della Camera apostolica, il 2 ottobre, anche grazie alla benevola interecessione del re di Napoli Ferdinando (Ferrante I) d’Aragona, fu eletto arcivescovo di Amalfi. Nella città soggiornò però pochissimo, preferendo mantenere la residenza a Roma, dove gravitava nel seguito del potente cardinale Raffaele Riario e dove, dal 1479, come ‘familiare’ del papa, svolse il suo incarico principale: il referendario pontificio, ovvero membro del collegio di alti prelati cui era demandato il delicato compito di vagliare le suppliche che, numerosissime, quotidianamente giungevano in Curia. Mantenne comunque la carica pastorale, assicurata attraverso il proprio vicario (anch’egli toscano: Giovanni de Tizi, figlio di ser Agapito da Castiglione), fino al 26 aprile 1482, allorché fu nominato contemporaneamente arcivescovo di Atene e di Verdun.
Nella città lorenese, che costituiva un appannaggio di notevole valore e di grande prestigio, il precedente pastore, Guglielmo de Harancour, era stato imprigionato per intervento regio e dietro sollecitazione del cardinale Giuliano della Rovere. Era stato poi liberato, a patto che lasciasse il paese e si recasse a reggere la diocesi di Ventimiglia. Al vescovo di Ventimiglia, Giovani Battista de’ Giudici, sarebbe stata affidata la diocesi amalfitana. Niccolini lasciò Roma subito dopo la nomina; si trattenne qualche mese a Firenze, da dove il 16 agosto, munito di un lasciapassare della Signoria, iniziò il viaggio verso la Francia per prendere possesso della sede. Le cose non si svolsero però secondo i voti della Curia romana, del re di Francia e di Firenze: non riuscì a entrare in Verdun, rimanendone vescovo solo formalmente. I cittadini, infatti, che parteggiavano tutti per Harancour, si sollevarono, e a nulla valsero i tentativi di farli recedere. Dopo essere rimasto alcuni mesi in Francia, tra Parigi e Tours, al principio del 1483 fu costretto a tornare a Roma, contentandosi, dopo almeno un altro anno di inutili tentativi di entrare in possesso del vescovado, di un’annua pensione di 300 ducati sulle rendite viridunensi. Non era certamente il denaro, comunque, che gli mancava, giacché in quegli anni aveva provveduto a regolare con i fratelli tutte le questioni relative all’eredità paterna, che comprendeva case in Firenze, nel quartiere d’origine, e altri immobili in molte località toscane.
La battuta d’arresto alla sua carriera ecclesiastica fu decisiva battuta d’arresto e rimase per sempre un semplice prelato di Curia. In questa veste risulta aver partecipato, sino ai primi anni del Cinquecento, a cerimonie pubbliche, come il conferimento di ordini chiericali, accoglienza di ambasciatori stranieri, celebrazioni di messe particolarmente solenni. Dopo il rientro a Roma la sua attività si divise tra la cura del proprio patrimonio (nella quale si dimostrò molto attento e oculato), la gestione dei benefici ecclesiastici e delle prebende, in relazione alla quale rimase sempre uno dei più fidati uomini dei Medici a Roma, e alcuni incarichi diplomatici, in qualche caso anche delicati. Tentò ancora, con l’appoggio del Magnifico, di ottenere, nella primavera-estate del 1487, la carica di castellano di Narni, ma il papa Innocenzo VIII non lo appoggiò pienamente, facendo balenare piuttosto la possibilità di conferirgli il medesimo incarico ma per la rocca di Assisi, di assai minor rendita e prestigio.
L’amministrazione dei suoi affari in Francia fu demandata prima a Carlo Mannelli, membro dell’omonima compagnia che curava anche gli interessi pontifici, poi a Cosimo di Francesco Sassetti, socio del banco Medici. Alle prime commende, inoltre, Niccolini aveva aggiunto altri benefici di notevole peso: in particolare, il priorato fiorentino dei Ss. Apostoli e l’abbazia camaldolese di S. Maria di Antignano, in diocesi di Arezzo, amministrata, come gli altri suoi beni toscani, attraverso il fidato intendente, il bolognese Giasone Mattusolani, del quale sopravvivono decine di lettere per dar conto dello stato dei raccolti e dell’andamento delle vendite. Questa carica abbaziale, inoltre, rende ragione del fitto epistolario con il generale dell’Ordine, il veneziano Pietro Dolfin. E non sono poche le lettere o i contratti notarili in cui definisce con i fratelli il quadro delle proprietà pervenute con l’eredità paterna, talora acquistando beni e talora cedendone, a Firenze e altrove in Toscana, come a Ponsacco, dove la famiglia aveva accumulato vasti appezzamenti terrieri. Significativo, per ragioni simboliche, appare l’acquisto, nel 1477, dal fratello Francesco, per 350 ducati, di metà di una delle case avite in S. Croce. Il catasto del 1480 accredita Niccolini di un non disprezzabile imponibile di 1539 fiorini.
Nel gennaio 1482 la Repubblica di Firenze gli chiese di intervenire per far attribuire al canonico fiorentino Manente Buondelmonti la pieve di S. Maria Impruneta, che era nelle mire del prelato lombardo e cubiculario pontificio Gian Giacomo Schiaffenati. Nel giugno 1485, Lorenzo de’ Medici gli chiese di difendere in Curia la causa del figlio Giovanni, che tentava di ottenere in commenda l’abbazia vallombrasana di S. Michele di Passignano. Nel dicembre 1478 si recò in missione a Firenze per conto del papa con il gravoso compito di comporre il dissidio tra Sisto IV e Firenze sulla successione alla carica arcivescovile dopo la morte di Rinaldo Orsini e alla delicata questione della tassazione dei beni ecclesiastici, deliberata dalla Repubblica per far fronte allo stato di guerra successivo alla congiura dei Pazzi (26 aprile 1478).
Al principio di settembre 1485 Firenze era in uno stato di aperta ostilità con la Repubblica di Genova per il controllo di Sarzana e della fortezza di Sarzanello, oltre che della cittadina di Pietrasanta. Il pontefice, per tentare di comporre il dissidio, inviò a Firenze Niccolini, il quale, il 5 settembre, dopo aver visitato il Magnifico a Passignano, giunse in città. Non riuscì però a condurre a termine il compito, giacché la questione locale venne presto a inserirsi nel più ampio confronto tra Napoli e l’alleata Firenze contro il papa, che aveva in Venezia un valido alleato ma che presto strinse anche alleanza con Genova in funzione antifiorentina. Il 21 settembre Niccolini, che il 18 aveva già iniziato il viaggio di ritorno verso Roma e in quel momento era a Siena, ricevette da Firenze, tramite il fratello Angelo, una risposta ufficiale interlocutoria. Tornato nella città natale in novembre, sempre con il medesimo incarico, ebbe la soddisfazione di veder intavolarsi positivamente le trattative, che nel gennaio dell’anno successivo sfociarono nella stipula di un formale trattato di pace.
Il suo impegno politico fu probabilmente anche alla base di una brutta avventura occorsagli nel dicembre 1485, allorché, nel corso di questi spostamenti tra Roma e Firenze, fu di fatto imprigionato nella pontificia città di Viterbo, insieme a molti altri suoi concittadini, dietro ordine del signore di Bracciano, Virginio Orsini. Le ragioni del malcontento della popolazione locale contro i fiorentini erano probabilmente da individuare nella politica medicea, che non nascondeva le proprie mire di espansione verso il Patrimonium Sancti Petri. Non a caso è a Lorenzo che l’arcivescovo si rivolse, con una missiva del 12 dicembre, pregandolo di operare affinché i prigionieri fossero al più presto rimessi in libertà.
Queste incombenze gli lasciarono spazio e tempo per occuparsi anche di cultura, specialmente letteraria e filosofica. Fin dall’adolescenza era in contatto con l’ambiente neoplatonico fiorentino. Un suo cugino e professore di teologia, Sebastiano Salvini, che dell’Accademia platonica era influente membro, gli indirizzò una lettera filosofica, in cui gli sottoponeva un quesito inerente il tema della libertà individuale; il fondatore e ispiratore dell’Accademia, Marsilio Ficino, non solo lo menzionò spesso e affettuosamente nel suo epistolario e gli inviò in dono una copia della sua Theologia platonica appena ultimata accompagnata da una cordiale epistola, ma soprattutto, nella difficilissima situazione politica venutasi a creare a Firenze con la congiura dei Pazzi, lo utilizzò come ambasciatore informato e competente per recapitare, il giorno di Natale del 1478, a Sisto IV, in quel momento nemico capitale di Firenze, un’epistola tesa a comporre il conflitto. Analogamente, due mesi più tardi, consegnò a Niccolini una sorta di vaticinio astrologico, intitolato Oraculum Alfonsi regis ad regem Ferdinandum, da presentare al figlio di Ferrante I, il cardinale Giovanni d’Aragona, al fine di tentare di blandire il re, che pareva iniziasse a palesare anch’egli atteggiamenti ostili nei confronti dei fiorentini.
Forte fu in lui anche l’interesse e la competenza antiquaria. Attorno al 1490 fece dono a Lorenzo de’ Medici, che ne era appassionato collezionista, di un’antica medaglia; e nel febbraio dello stesso anno accompagnò, in qualità di esperto, Niccolò Michelozzi, segretario del Magnifico, in una gita a Ostia, il cui scopo era soprattutto quello di reperire qualche oggetto antico e di valore per Lorenzo.
La data della morte resta ignota: il 1504 indicato nell’epitaffio che orna il monumento sepolcrale nella basilica romana di S. Gregorio Magno al Celio, ripristinato nel Settecento, è certamente errato. Il suo epistolario si protrae infatti abbastanza fittamente sino a tutto il 1507, con una breve propaggine del gennaio 1508.
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