MODIO, Giovanni Battista
– Originario di Santa Severina, nell’omonima contea della Calabria Ulteriore acquistata dai Carafa nel 1496, la sua data di nascita è sconosciuta, ma collocabile agli inizi del XVI secolo.
Del cursus studiorum del M., letterato erudito «etiam in lingua graeca» (Zavarrone) e medico di professione, nulla si sa, salvo che seguì i corsi di filosofia presso l’archiginnasio di Napoli. Ignota è anche la cronologia del suo trasferimento a Roma, da stimarsi tuttavia anteriore al 1553, anno di morte del valente archiatra di Adriano VI, Clemente VII e Paolo III, Francesco Fusconi, nel quale il M. indica il proprio «maestro» nell’esercizio della professione medica (G.B. Modio, Il Tevere …, Roma, V. Luchino, 1556, c. 45r).
A Roma il M. entrò in contatto con i cenacoli accademici, che a metà del Cinquecento avevano in F.M. Molza e in C. Tolomei degli esponenti di spicco. Il M., forse partecipando allo sperimentalismo in materia poetica e linguistica propria di quei cenacoli, nel 1554 pubblicò Il convito […] overo Del peso della moglie. Dove ragionando si conchiude, che non può la donna dishonesta far vergogna a l’huomo (Roma, L. Dorico - V. Dorico).
Dialogo diegetico ambientato a Roma durante il carnevale del 1554, l’opera presenta un avvio realistico e colloquiale. La conversazione funge da cornice a un incontro conviviale, durante il quale si discute dell’argomento delle «corna» secondo le regole fissate dal «re del banchetto», il giovane vescovo di Piacenza, Catalano Trivulzi. «I precedenti del testo sono in primo luogo i numerosi dialoghi cinquecenteschi dedicati all’amore, alle donne, all’opportunità o meno del matrimonio», il tutto combinato con la tradizione «satirica e burlesca sulle corna» (Bolzoni, p. 183). Gli interlocutori del dialogo e del convito, oltre al M. e a Trivulzi, sono L. Gambara, G. Marmitta, T. Benci, G. Selvago, A.F. Raineri, G. Cesario, letterati legati al cardinale Alessandro Farnese e protagonisti del dinamismo culturale romano. Gli ospiti di monsignor Trivulzi si misurano a turno con il tema prescelto; in particolare si chiedono se l’adulterio della moglie possa rappresentare motivo di disonore per il marito e renda sconsigliabile il matrimonio. Risulta esibito un largo patrimonio di erudizione che spazia dalla letteratura orfica ed ermetica alla poesia greco-latina, dalle storie degli antichi alla mitologia. Il «re del banchetto» tira poi le conclusioni passando in rassegna gli argomenti trattati. A questo punto, il dialogo conosce uno scarto: viene introdotto un personaggio non invitato, Alessandro Piccolomini. Si tratta di una situazione simile a quella degli Asolani di Bembo: l’ultimo interlocutore, esterno alla cerchia di quanti hanno partecipato al dialogo, si qualifica come colui che è in grado di addurre un punto di vista «superiore e risolutivo». Nel suo discorso, Piccolomini da un lato scarica il marito tradito dal peso morale e dal disonore delle corna, dall’altro ribadisce il valore del matrimonio e «indica la strada da percorrere per una sua felice riuscita» (ibid., p. 185). L’opera, che mediante l’intervento di Piccolomini pare destinata a chiudersi in chiave seria, conosce un ultimo colpo di scena: mentre il filosofo tace per prendere fiato, dieci buontemponi mascherati da satiri irrompono sulla scena, cominciano a ballare in cerchio, a urtarsi e a percuotersi a vicenda, suscitando la generale ilarità. Il tempo ludico trova così il modo di prendersi la sua rivincita, riducendo il sobrio discorso di Piccolomini «a una variabile topica, o addirittura contribuendo a far rinascere nella mente del lettore pericolose memorie»; i più accorti potevano infatti rammentare che Piccolomini, prossimo ad assumere gli ordini sacerdotali, era stato un tempo l’estensore, sotto lo pseudonimo accademico di Stordito Intronato, del Dialogo della bella creanza delle donne (1539), più noto con il nome di una delle due interlocutrici, Raffaella, in cui veniva profilata una spregiudicata visione dei rapporti tra uomo e donna (ibid., p. 187).
Nel 1558 Il convito fu ripubblicato a Milano (G.A. degli Antoni) e a Torino (M. Cravotto) con la giunta della novella Origine del proverbio che si suol dire Anzi corna che croci, la quale, sebbene l’autore non sia nominato, è di paternità di Antonio Cornazzano. Di un plagio dell’opera del M. consiste invece, in larga misura, la prima parte de Le Monde des cornuz ou sont specifees diversees manieres de cornes, breve componimento di G. Chappuys pubblicato a Lione nel 1580 in margine alla riedizione della sua traduzione dei Mondi di A.F. Doni. L’edizione più recente de Il convito è in Trattati del Cinquecento sulla donna, a cura di G. Zonta (Bari 1913, pp. 309-370, 396 s.).
Seppure la lettera dedicatoria de Il convito all’indirizzo del cardinale nipote Innocenzo Del Monte offre indizio della rete di relazioni curiali goduta dal M., non si hanno notizie puntuali circa l’identità dei suoi patroni e neppure diffusi ragguagli sui rapporti di clientela e di servizio garanti della sua stabile residenza romana.
Intorno al 1555, il M. conobbe Filippo Neri e, conquistato dalla sua carismatica personalità, decise di imprimere nuovo, rigoroso indirizzo di pietà al proprio stile di vita. In simmetria cronologica con l’uguale scelta maturata da Marmitta, il M. entrò con zelo tra le file dei primi discepoli di padre Filippo diventandone in breve uno degli allievi «più intrisechi» (G.F. Bordini, giugno 1596; Il primo processo, III, p. 389) e segnalandosi tra i più assidui alle assemblee che dietro impulso di letture devote si tenevano già da qualche anno a S. Girolamo della Carità.
Dedito all’assistenza spirituale dei degenti ricoverati negli ospedali cittadini, costante nell’assunzione dei sacramenti, sovente confessato a domicilio da Filippo Neri, il M. – che aveva «uno stomaco di tela di ragno» (Il Tevere …, c. 57r) e soffriva di calcolosi – nel 1556 cadde gravemente ammalato e fu due volte in punto di morte. In entrambi i casi, secondo più testi del processo di canonizzazione di Filippo Neri, sembra che il M., «huomo di molta doctrina, et religione» (G.F. Bordini, giugno 1596; Il primo processo, III, p. 389), sia tornato miracolosamente in salute in grazia dell’orazione del servo di Dio. Quest’ultimo, infatti, in occasione della seconda degenza del M., raccolto in preghiera, avrebbe avuto un’estatica levitazione poi diventata soggetto iconografico di una tela di Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio oggi custodita nelle stanze del santo in S. Maria in Vallicella.
Dagli atti del processo di canonizzazione di Filippo Neri risulta che tra il 1556 e il 1560 il M. ebbe domicilio in via Giulia presso A. Corvini, letterato in rapporti con Molza e A. Caro, e maestro di casa del cardinale Giovanni Ricci. Se ne deduce che, almeno per un quinquennio, il M. godette di un alloggio a palazzo Ricci (oggi Sacchetti). Alla famiglia del cardinale erano ascritti, oltre a Corvini, Marmitta, l’accademico dello Sdegno in relazioni con il Caro G.T. Arena, il comasco B. Gallio, il parmense G. Tana, tutti esponenti della nutrita serie di cortigiani di eccellente levatura culturale che, nella seconda metà degli anni Cinquanta, accostatisi «al confessionale di Padre Filippo», vennero da lui «distolti da vita mondana» (Cistellini, p. 57).
Delle predilezioni librarie del M. si ha una sola notizia attraverso la nota di possesso («I. Bapt. Modii Severini») presente sulla terza carta di guardia del manoscritto Vita Iesu Christi cum orationario. Codex scriptus ab auctore anonimo, in Monasterio S. Laurentii extra Muros Urbis, Ord. S. Benedicti anno Domini 1463 (Roma, Bibl. Vallicelliana, Mss., F 50), successivamente appartenuto, come dimostrano due bolli ovali a c. 1r, all’umanista portoghese Aquiles Estaço (Achille Stazio), il quale nel proprio testamento (25 maggio 1581) nominò Filippo Neri erede della sua prestigiosa raccolta libraria.
Nel 1556, con dedica a Ranuccio Farnese, il M. – cui sono altresì attribuite le Annotationes criticas in libros Macrobii de Somnio Scipionis, et Saturnal[ia] rimaste manoscritte e, già nel XVIII secolo, considerate perdute (Zavarrone) – affidò all’editore in Roma V. Luchino il trattato intitolato Il Tevere … Dove si ragiona in generale della natura di tutte le acque, et in particolare di quella del fiume di Roma.
Il testo trae argomento dalla rovinosa piena del Tevere del 1555 e dalla successiva crisi sanitaria che colpì Roma. L’intento dell’opera, in cui risalta larga erudizione classica coniugata a «qualche criterio sperimentale» (Vian, p. 105), era dimostrare la non potabilità dell’acqua del fiume contro gli argomenti di opposto segno sostenuti da A.T. Petronio nel De aqua tiberina … (Roma 1552). In conclusione dell’opera del M. un appello al cardinale R. Farnese affinché caldeggiasse presso Paolo III il restauro degli antichi acquedotti per «far ridurre, et rimpatriare, le già smarrite, et esuli acque dentro di Roma» (Il Tevere …, c. 60r).
Tra il 1555 e il 1556, in comunione di intenti con Filippo Neri e con gli altri letterati che costituivano il nucleo originario dell’istituto oratoriano, il M. aderì a un progetto di apostolato Oltreoceano, rimasto vitale in seno al cenacolo filippino sino al 1557.
Quel programma – riferisce F.M. Tarugi, il 5 maggio 1596 – dovette la sua maturazione allo stimolo della quotidiana lettura corale di «qualche lettera delle Indie» (Il primo processo, III, p. 381). Questa perifrasi è solitamente interpretata come allusiva all’edificante epistolografia dei padri gesuiti impegnati nell’evangelizzazione dei nativi americani, sebbene non sia da escludere che sottendesse altresì un accostamento alla Brevissima relazione della distruzione delle Indie (Siviglia 1552) del domenicano B. de Las Casas. Anche questa opera configurava, nei termini di una vigorosa denuncia del genocidio degli Indios, una «lettera delle Indie» fondata sulla diretta esperienza dei fatti da parte dell’estensore. Non è infatti trascurabile che la biblioteca privata di Filippo Neri conteggiasse un testimone oggi perduto della editio princeps dell'informativa lascasiana (Cassiani, pp. 56 s.).
Insieme con Tarugi, il M. fu designato da Filippo Neri a tenere i sermoni agiografici dell’Oratorio a partire dal 1558. In quell’anno pubblicò a Roma, presso I. Salviani, I Cantici del beato Iacopone da Todi, con diligenza ristampati, con la gionta di alcuni discorsi sopra di essi. Et con la vita sua nuovamente posta in luce.
L’allestimento critico è da ricondurre con molta probabilità a un preciso indirizzo di Fillippo Neri, la cui predilezione per le laudi iacoponiche è largamente attestata negli atti del suo processo di canonizzazione; alla «commessione di chi può in me molto» l’ascrive del resto il M., indirizzando la Vita del beato Iacopone da Todi, alla molto reverenda madre in Christo chiarissima suor Caterina de’ Ricci fiorentina, nel monastero di S. Vincenzo in Prato (I Cantici …). «Il volume riproponeva l’edizione riveduta, con discorsi di commento e Tavola delle voci più oscure, del primo incunabolo delle Laudi, l’edizione Bonaccorsi del 1490» (Jori, 1998, pp. 507 s.). La biografia di Iacopone, che occupa i primi tre fascicoli dell’edizione del 1558, conobbe, in data imprecisata, una ristampa romana autonoma dal titolo La miracolosa vita del beato Iacopone da Todi. Con la morte della religiosissima consorte sua, et di che morte essa consorte, passò dalla presente vita. Una riedizione dei Cantici commentati dal M. fu pubblicata a Napoli nel 1615 con l’aggiunta di Alcuni cantici di esso beato, cavati da un manoscritto antico, non più stampati.
L’edizione delle Laudi di Iacopone segna in modo esemplare l’adesione del M. all’Oratorio e alla spiritualità filippina. Tuttavia, non tutto ciò che faceva spicco alla produzione del M. anteriore all’allestimento critico delle liriche di Iacopone, specie a Il convito - che la storiografia oratoriana, calcando l’accento sulla conquista del M. da parte di Filippo Neri, ha definito «libro di facezie poco raccomandabile» (Ponnelle-Bordet, pp. 147 s.), «elegante e malizioso ragionamento» di letterato con «il gusto per il godereccio» (Vian, p. 104) e prodotto scrittorio di un autore «di opere lascive» (Cistellini, p. 59) -, appare rimosso dal lavoro del 1558. Ivi «resta il gusto per il rovesciamento paradossale […], il tema della libertà cristiana, la lingua volutamente bassa e vile ripiena di contenuto altissimo e l’immagine stessa del testo/convito, usata in riferimento alla varietà dei cibi che, come un re che celebra le sue nozze, Dio offre a chi si vuole accostare a lui» (Bolzoni, p. 176).
Colpito da una «febbre acutissima» mentre, tornato alla produzione di ambito profano, era intento nella stesura in lingua volgare di «un’operetta de’ Sogni», il M. morì a Roma il 12 sett. 1560, nel palazzo del cardinale Ricci (Bottonio).
Il 13 sett. 1560, il domenicano e ardente savonaroliano Timoteo Bottonio dedicò al M. un sonetto commemorativo edito solamente nel 1779 (ibid.).
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