LASAGNA, Giovanni Battista (Lazagna, Cattaneo Lasagna)
Nacque a Genova probabilmente poco dopo il 1460. Benché A. Della Cella ipotizzi che la famiglia fosse originaria della Valfontanabuona e indichi un Lanfranco tra i sottoscrittori della pace pisana del 1188, solo nel 1450 un decreto di cittadinanza fu emanato a favore di un Bartolomeo Lasagna di Arquata, padre di Gerolamo (i cui tre figli Bartolomeo, Paolo e Vincenzo furono ascritti nel 1528 al Libro della nobiltà) e forse anche del Lasagna.
Conseguita la laurea in legge e fornito di una brillante eloquenza, il L. entrò nel Gran Consiglio nel 1500, insieme con altri cinque membri della famiglia, nella componente cosiddetta bianca o popolare, composta di mercanti e artigiani. Nella fazione dei popolari il L. si trovò anche nella congiuntura del 1506-07, durante la rivolta delle "cappette" che avrebbe portato al breve dogato di Paolo da Novi e alla repressione con l'intervento del re di Francia Luigi XII. In quel contesto il L. svolse una funzione diplomatica di primo piano e avviò quella serie di ambascerie che ne consacrarono l'importanza politica. Il 3 marzo 1506 egli fu nominato ambasciatore presso il papa Giulio II, il savonese Giuliano Della Rovere, per rassicurarlo sulla posizione della Repubblica dopo la pace di Salamanca (24 nov. 1505) tra Francia e Spagna, per informarlo sui primi contrasti intervenuti tra nobili e popolari e sulla questione di Pisa (la cui signoria era stata rifiutata da Genova nel 1504 per volontà dei nobili che, guidati da Gian Luigi Fieschi, intendevano assecondare la Francia), nonché su un'operazione speculativa tentata da un gruppo di ricchi esponenti del partito popolare per ottenere il ribasso dei titoli del Banco di S. Giorgio. Al ritorno da Roma, dove ricevette istruzioni ancora nei mesi di marzo e aprile, il L. si trovò direttamente coinvolto nei tumulti di Genova scoppiati tra il 18 e il 20 giugno 1506. A metà luglio si era giunti alla richiesta di modifica della distribuzione degli incarichi pubblici, in favore di una proporzione di un terzo ai nobili e due terzi a mercanti e artigiani: il L. risulta appunto "di fazione" nell'elenco di questi ultimi. Tuttavia egli mantenne una posizione moderata anche nell'acuirsi dei contrasti interni ed esteri.
Quando il 2 marzo 1507 il luogotenente francese Filippo di Roccabertino lasciò Genova diretto a Milano per raggiungere il luogotenente generale di Luigi XII in Italia, Charles (II) d'Amboise signore di Chaumont, che minacciava l'attacco alla città, accettò di condurre con sé alcuni ambasciatori popolari: il L., Giuseppe Dernixe (uno dei "tribuni" del Popolo) e Lazzaro Pichenotto. L'ambasceria, già decisa il 30 gennaio, aveva rinviato la partenza in attesa del benestare del papa e del consenso di Chaumont; quest'ultimo fu così poco rassicurante che il L. e gli altri, giunti con Roccabertino a Serravalle, non osarono proseguire, forse anche perché informati dei provvedimenti di Chaumont su beni e persone dei popolari genovesi in Lombardia, o perché congedati dallo stesso Roccabertino che li avrebbe solo utilizzati come lasciapassare fuori dei confini della Repubblica. Nonostante secondo l'accordo dovessero comunque attendere a Serravalle un salvacondotto per Milano, il 7 marzo il L. e i due compagni furono costretti a un fortunoso rientro a Genova per la via di Gavi, sotto le minacce dei nobili genovesi fuorusciti e del capitano francese di Novi. A Milano le rassicurazioni date e richieste a Chaumont da parte del governo popolare furono affidate al banchiere genovese Andrea Cicero.
Il L. sembra uscire provvisoriamente di scena sia nel successivo precipitare degli eventi, conclusi nel giugno 1507 con la cattura e la morte del doge popolare Paolo da Novi, sia nella ripresa normalità, con l'arrivo in ottobre del nuovo governatore francese, François de Rochechouard. Un episodio particolare lo vide invece protagonista tra la fine del 1507 e l'inizio del 1508.
L'8 dic. 1507 dalla chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni furono trafugati il Sacro Sudario con impresso il volto ritenuto di Cristo - il cosiddetto Mandilio - e il piede dell'apostolo, reliquie care alla città, in particolare la prima. Il Sacro Mandilio era giunto alla chiesa nel 1374 per testamento dal doge Leonardo Montaldo, al quale era stato donato dall'imperatore greco Giovanni Paleologo, che l'aveva conservato nella chiesa del palazzo imperiale di Costantinopoli, dove si trovava dal 944, dopo essere stato tolto agli Arabi di Edessa (perciò era definito anche Immagine di Edessa). La reazione al furto fu enorme e coinvolse non solo il Consiglio degli anziani, ma lo stesso governatore francese, Rodolfo di Lannoy, che provvide a istituire subito una commissione con autorità illimitata per il recupero del Mandilio e a emanare, il 12 dicembre, un proclama che prevedeva la pena di morte anche per silenzi complici, e ricompense fino a 400 ducati d'oro per gli informatori. Individuati prontamente i responsabili in due frati che avevano preso la via di Francia, il governo incaricò due influenti mercanti genovesi a Lione, Giano Grillo e Anfreone Sauli, ad attivarsi per la cattura dei rei e, il 14 dicembre, nominò un'altra commissione, composta dal L. come giureconsulto, da Paolo Negrone, Ambrogio Negro e Antonio Trucco. Il L. e i colleghi scrissero a Luigi XII per chiederne l'intervento, anche perché si sospettava, come fu poi acclarato, che dietro il furto vi fossero complicità del precedente castellano francese. Mentre al L. fu accordata, con delibera del 29 genn. 1508, la sospensione di tutte le cause in cui era impegnato affinché potesse dedicarsi interamente all'inchiesta, gli altri commissari garantivano in solido le indagini in Francia. Cattura dei responsabili e rientro delle reliquie - ottenuti grazie alla collaborazione di Luigi XII, che non aveva sottovalutato la ricaduta politica del suo intervento su una cittadinanza genovese che sentiva di essere stata da lui frustrata e umiliata l'anno precedente -, avvennero tra l'aprile e il giugno 1508. In previsione del rientro sorse il problema della conservazione delle reliquie; il trasferimento nella cattedrale o in una sede più sicura sembrava una scelta irrispettosa della disposizione testamentaria di Montaldo, ma la necessità di garantire un controllo più accurato di quello dimostrato dai frati, innocenti ma negligenti, portò alla delibera del 19 genn. 1509 per la costruzione di un sacrario nella stessa chiesa, con sei chiavi - oltre a quella affidata al priore - da darsi in consegna a sei cittadini designati dal governo. Condotti rapidamente a termine i lavori, il 2 aprile le reliquie furono collocate nell'antica sede, con processione solenne, e il sacrario fu chiuso con sette chiavi, destinate al priore della chiesa, a Biagio Maurelli vicario regio, al L., a Battista Vivaldi, a Giuliano Grimaldi, a Simone Giustiniani (che la riceveva a nome di Raffaele Montaldo) e a Gianotto Soprani di Rivarolo.
Alla fine di aprile, quando Luigi XII, dopo la firma del trattato di Cambrai giunse in Italia, il L. fu nominato capo della legazione genovese che doveva incontrarlo a Milano. Con lui erano Anfreone Usodimare, Angelo Pallavicino e Battista Botto, con incarichi molteplici e delicati: non solo portargli l'omaggio della città e guadagnarlo alla causa genovese contro le aspirazioni autonomistiche di Savona, ma anche adoperarsi sulla questione del cosiddetto drictus Sabaudiae - che gravava sulle merci genovesi transitanti per il territorio sabaudo e danneggiava particolarmente il mercato lionese della seta - e ottenere la revoca dell'interdizione dei salvacondotti per "rappresaglia". Sul tema si invocò, in istruzioni riservate, la competenza giuridica del L., specifica sulla natura di debito privato della rappresaglia, non compromettente quindi i privilegi generali del commercio genovese. L'ambasceria tornò a Genova il 12 maggio; ma l'8 agosto, sullo stesso tema del drictus Sabaudiae e altre pendenze economico-giuridiche, il L., questa volta insieme con Domenico Lercari, fu inviato di nuovo come oratore a Luigi XII con l'incarico di seguirlo in Francia, dove già si trovava Stefano Vivaldi come ambasciatore residente. In previsione della discussione presso il Consiglio del re, il 30 genn. 1510 gli furono inviati 100 scudi, perché portasse l'affare a buon fine; quindi, da Genova, la magistratura preposta alla questione, l'Officium Sabaudiae, gli segnalò ripetuti casi di abuso nell'applicazione del tributo, con i nomi dei grandi mercanti genovesi della seta sulla piazza di Lione (dove Benedetto Spinola e Agostino Cattaneo, partecipi di quel diritto, erano pronti a far fede al L. per 25.000 scudi). Da marzo il L., sempre alla corte di Francia, fu investito di incarichi anche da parte dell'Ufficio delle cose di Spagna: restando ancora non eseguito l'accordo tra i due sovrani circa la sospensione delle rappresaglie, il L. doveva accelerare la restituzione di navi genovesi da parte di entrambi. Sembra che egli non abbia lasciato la corte neanche dopo la cacciata dei Francesi da Genova, a opera di Giano Fregoso nel giugno 1512: di certo scriveva da Blois il 7 febbraio segnalando questioni monetarie nel cambio franco-genovese e, ancora il 3 ag. 1512, sui colloqui con il re per la ripresa del commercio genovese in Francia, compromesso dall'azione di Fregoso. A Genova il L. dovette tornare poco dopo, o comunque dopo la cacciata di Giano e l'elezione di Antoniotto Adorno a governatore regio nel maggio 1513.
Il L. sembra non risentisse dei cambiamenti politici della Repubblica in rapporto alla mutata situazione internazionale e nel maggio 1514 fu parte della solenne ambasceria a Leone X. Dopo una faticosissima gestazione, essa fu composta da Battista Lomellini, Battista Botto, Giovanni Battista Torriglia, Babilano Pallavicino, Stefano Rebuffo e Giovanni Battista Doria e ricevette le istruzioni da Ottaviano Fregoso (il Doria, doge nel 1537, aveva già avuto contatti con il L. in Francia). Gli ambasciatori, oltre a rinnovare l'obbedienza al pontefice, dovevano ottenerne nuovi aiuti contro l'assedio dei Francesi a Genova. Ricevuti il 2 giugno, durante l'udienza furono violentemente attaccati dall'ambasciatore francese che, rivendicando la sudditanza di Genova al suo re, denunciò l'illegittimità dell'autonoma dichiarazione di obbedienza. A energica difesa del loro diritto di ambasciatori di una città libera, il L. pronunciò un'orazione latina data alle stampe con il titolo Oratio Ioannis Baptistae Lazanie iurisconsultis oratoris Genuens. coram s.d.n. Leone papa X in Sacro Concistorio… (Biblioteca apost. Vaticana), che R. Soprani (p. 149) definisce bellissima.
In questo momento della vita del L. sembra esservi uno spostamento a favore della Spagna (precoce mutamento di posizione rispetto a quello di Andrea Doria nel 1528); il passaggio fu favorito dalla ripresa delle relazioni diplomatiche proprio con l'invio del L. in Spagna nel 1518-19. Nominato oratore con Tedisio di Camilla, che sarebbe morto in Spagna durante la missione, il L. arrivò a Barcellona il 3 ag. 1518 e il 21 a Saragozza, dove fu ricevuto il giorno dopo in udienza reale (e dove comunica di avere incontrato anche il figlio di Cristoforo Colombo). Quindi partì da Barcellona, il 9 febbr. 1519, lasciando personalmente, come richiesto dal governo di Genova, le istruzioni a Martino Centurione, arrivato come ambasciatore ufficiale. Al ritorno a Genova, come "sapiente" dell'Ufficio di Spagna (Ufficio che si riuniva in casa di Ansaldo Grimaldi, grande banchiere di Carlo V) fu ancora indicato dal governo - in base a quanto risulta dalle istruzioni inviate tra il 1520 e il 1523 a M. Centurione - come l'esperto a cui chiedere consulenza nonché finanziamenti straordinari (Istruzioni… ambasciatori genovesi, I, pp. 69, 77; nell'indice il curatore cita "Lavagna", mentre riporta correttamente "Lasania" nella trascrizione dei documenti). Dopo il "sacco di Genova", compiuto a fine maggio dai soldati spagnoli (e dai loro alleati italiani e tedeschi), il L. sembra rientrare comprensibilmente in ombra per riemergere tra il 1527-28, quando, mediatore tra filofrancesi e filospagnoli, divenne, secondo O. Foglietta e A. Della Cella, il consulente giuridico più ascoltato dai Dodici riformatori del 1528.
È documentata la sua funzione nella riorganizzazione dell'amministrazione della giustizia. Il decreto istitutivo della nuova Ruota civile, emanato in data 8 genn. 1530, reca infatti la precisazione che, per valutare in ogni loro aspetto i problemi connessi all'introduzione del nuovo tribunale, era stata formata una commissione di quattro membri, due nobili antichi (Giovanni Battista Di Negro e Giacomo Cattaneo) e due ex popolari ascritti: il L., unico definito giurisperito, e Giovanni Imperiale Galliano. È questo anche il documento in cui, per la prima volta, il L., ascritto con la riforma del 1528 all'"albergo" nobiliare Cattaneo, appare con il doppio cognome. La piena integrazione del L. nel nuovo ordine politico instaurato da Andrea Doria era già stata confermata dalla consegna della riconquistata Savona, fatta nell'autunno del 1528 dallo stesso Doria al L. e a Battista Lomellini, come commissari della città, perché procedessero alle distruzioni punitive e alla costruzione di una nuova fortezza sul Priamar.
Nei Savonesi il L. aveva già provocato un duraturo risentimento quando, durante un'ambasceria a Luigi XII, secondo O. Foglietta, sarebbe riuscito proprio con le sue argomentazioni a convincere il re a mantenere Savona sotto il dominio di Genova, frustrandone le aspirazioni autonomistiche. Affidabilissimo nel suo ruolo di mediatore, il L. fu utilizzato dalla nuova Repubblica dogale in due ambascerie, nell'ottobre 1536 e nel giugno 1538: la prima per incontrare solennemente l'imperatore Carlo V, proprio nella ricorrente Savona, insieme con G.B. Di Negro, Bernardo Giustiniani, Agostino Doria, G.B. Grimaldi, Pietro Fornari e Simone Cibo Recco; la seconda, più delicata, a Nizza, per il convegno voluto da Paolo III per prolungare il breve armistizio di Monzon, siglato nell'ottobre precedente.
Nel febbraio 1538 la Repubblica, ritenendo infruttuose le trattative, aveva richiamato il grande giurista Ansaldo Giustiniani che, in qualità di oratore presso Carlo V, aveva seguito i negoziati tra quest'ultimo e il re di Francia Francesco I di Valois; dopo la sostituzione di Giustiniani con Nicola Neurone e Battista Cigala Zoagli, fu affiancato loro il L. come giurista. Nel trattato uscito il 18 giugno dal convegno di Nizza, la Repubblica fu coinvolta nella forma a suo tempo richiesta, cioè come aderente e confederata all'Impero. Da parte sua la Francia, in una progressiva schiarita di rapporti in cui sembra di intuire la mediazione del L., arrivò a decretare, nel settembre 1541, la rimozione dei divieti che da un decennio colpivano mercanti e merci liguri. L'inizio del 1541 aveva visto il L. impegnato come oratore ufficiale in occasione dell'elezione a doge di Leonardo Cattaneo: l'orazione fu subito data alle stampe con il titolo Oratio Ioannis Baptiste Lazanie iurisconsultis per eum pronunciata in aula magna palatii ducalis Genuensis die Domenica 16 Ianuarii 1541.
Il L. chiuse la sua carriera ai vertici della Repubblica, le cui istituzioni aveva contribuito a riformare: fu tra gli Otto governatori dal luglio 1542 al giugno 1544, ma morì nel gennaio 1545, prima di entrare, come di diritto, tra gli Undici procuratori.
Del 1544 è una lapide su un arco adiacente alla sua casa, posta in piazza delle Scuole pie, vicino al duomo di S. Lorenzo, sulla quale si legge la clausola con cui il L. devolse una rendita di 4 luoghi annui di S. Giorgio per una luce perpetua da mantenere sul posto. Sopra questa, una seconda lapide, datata 1648, in cui il nipote Giovanni Bernardo ricorda i meriti del L., che fece costruire la casa nel 1490, e la ristrutturazione apportata appunto nel 1648. Il L. aveva avuto tre figli: Giovanni Ambrogio, Giovanni Pietro, Giovanni Giorgio; il primo sarà padre del citato Giovanni Bernardo - anch'egli insigne giurista e diplomatico - e di Giulio. L'altro ramo della famiglia, peraltro poco numerosa, discendeva da Gerolamo, fratello del L., e annoverava un altro giureconsulto, Stefano. La chiave con privilegio di accedere al Sacro Mandilio conservato nella chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni è rimasta privilegio della famiglia fino al 1988.
Fonti e Bibl.: Genova, Civica Biblioteca Berio, Mss., m.r.X.2.168: A. Della Cella, Famiglie di Genova, 1782, cc. 690-692; B. Senarega, De rebus Genuensibus commentaria, a cura di E. Pandiani, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XXIV, 8, ad ind.; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, I, Spagna, Roma 1951, pp. 67, 69 s., 77, 83 s.; R. Soprani, Gli scrittori della Liguria, Genova 1667, p. 149; J. Bonfadio, Annalium Genuensium…, Brescia 1759, pp. 75, 249; Il "Liber nobilitatis Genuensis"…, a cura di G. Guelfi Camajani, Firenze 1965, p. 312; E. Vincens, Histoire de la République de Gênes, II, Paris 1842, pp. 373 s.; O. Foglietta, Elogi degli uomini chiari della Liguria (1572), a cura di M. Staglieno, Genova 1860, pp. 297-302; E. Pandiani, Un anno di storia genovese (1506-1507), in Atti della Società ligure di storia patria, XXXVII (1905), pp. 213, 366, 375-377, 552; C. Bornate, Il furto del "Santo Sudario", Genova 1915, pp. 5, 14, 19, 31, 37; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in Atti della Società ligure di storia patria, LXIII (1934), pp. 4 s., 136, 159; D. Gioffré, Gênes et les foires d'échange, Paris 1960, ad ind.; A. Pacini, I presupposti politici del "Secolo dei Genovesi". La riforma del 1528, in Atti della Società ligure di storia patria, n.s., XXX (1990), p. 143; Id., La Genova di Andrea Doria nell'Impero di Carlo V, Firenze 1999, pp. 39, 108, 314, 568.