LALLI, Giovanni Battista
Nacque il 1° luglio 1572 a Norcia da illustre famiglia. In quella città dovette svolgere i suoi studi, sembra con esiti lusinghieri, dimostrando una notevole precocità nell'esercizio poetico, tanto da comporre ancora giovanissimo una Vita di s. Eustachio "versu rithmico" (se ne ha notizia attraverso Jacobilli, 1658, p. 155).
Spostatosi a Parma, sotto la protezione dello zio Giovanni Desideri, consigliere del futuro duca Ranuccio Farnese, vi intraprese gli studi di diritto. Alcune sue poesie latine composte per la morte di Alessandro Farnese, avvenuta in Fiandra nel dicembre 1592, gli guadagnarono la protezione del figlio e successore, Ranuccio, con conseguente sostegno economico per la continuazione degli studi giuridici a Perugia, dove giunse nel novembre 1593.
Dopo cinque anni impiegati nello Studio (è il periodo della composizione del Viridarium practicabilium materiarum in utroque iure ordine alphabetico concinnatum, di cui fa menzione il figlio Giovanni nella biografia, in G.B. Lalli, Poesie nuove… volume postumo, Roma 1638, p. 191) conseguì il dottorato nel febbraio 1598 (Jacobilli, 1658, p. 155, assegna a questa data la pubblica discussione di "nonnullae conclusiones" e la loro stampa a Perugia, oggi irreperibile). La stima che si era conquistato gli ottenne nello stesso anno, sempre secondo il resoconto del figlio, la nomina a un non meglio specificato ruolo di governo a Tessennano, primo di una serie di incarichi che lo avrebbero condotto nei mesi successivi in vari feudi farnesiani dell'Italia centrale (tra l'altro Borbone, Roccaguglielma, Montereale, Castro, Ronciglione, Città di Castello).
A impedire una più significativa e rapida ascesa del L. giunse, nel 1603, la morte dello zio Giovanni Desideri, da poco nominato vescovo di Rieti: oltre a una secca diminuzione delle rendite, il L. sentì venire meno l'appoggio dei Farnese e cercò di inserirsi nell'amministrazione pontificia. Fu prima al governo di Montesanto, quindi a Trevi, a Foligno, a Osimo e a Città di Castello, in un percorso privo di svolte significative e reso più difficile dal sopravvenire di una precoce sordità. In una missiva (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 6467, cc. 45-46) del 15 ott. 1623, il L. chiedeva al neoeletto Urbano VIII la conferma nella carica di podestà di Trevi, ricordando un'antica devozione e i suoi meriti come amministratore.
L'avvio, in piena maturità, della sperimentazione letteraria fu costituito dalla Moscheide, overo Domiziano il moschicida, poema in ottave in cinque canti.
La dedica a Epifanio Rosa, "carissimo a Gregorio XV", è un elemento labile per la valutazione dell'incerta cronologia del poema, con dubbi tanto sulla stagione precisa della sua composizione quanto sulla data della princeps: mentre Brunet (III, col. 778) e Graesse (IV, p. 81) menzionano un'edizione vicentina del 1619, il Quadrio (IV, p. 722) assegna a Milano la princeps del 1619, e Jacobilli (1658, p. 155) la colloca a Roma nel 1622. La prima stampa ora reperibile (Roma, Biblioteca Casanatense) risulta però del 1623 a Jesi e appunto dedicata a Epifanio Rosa, sotto i cui auspici l'opera era stata letta al cardinale Francesco Boncompagni, di passaggio a Norcia. Da sottolineare, quanto alla cronologia, le espressioni riguardanti l'opera, non solo rimasta a lungo "fra la polvere sepolta" e diffusa esclusivamente per via manoscritta, ma composta, scrive il L. stesso, addirittura "già vinti anni sono" (dunque almeno ai primi del secolo) presso la città di Altamura, "mentre, già […] mi ritrovavo governatore della città d'Altamura nel Regno di Napoli, per la Sereniss. casa Farnese" (Moscheide, ed. 1623, p. 3). Certo è che l'uscita di Venezia, senza indicazione d'anno ma del 1624, venne presentata come una nuova edizione, intesa a sanare le mende di una stampa precedente (un'ulteriore edizione si ebbe a Milano nel 1626): dallo stampatore fu dedicata, in data 30 ag. 1624, a monsignor Marco Antonio Cuccini (referendario apostolico dell'una e dell'altra Segnatura, allora adibito alla prefettura di Norcia). Contestualmente Sarzina affermava di aver visto altre composizioni manoscritte del L. (p. 4), ma di non averle potute inserire nell'edizione. Da segnalare inoltre la presenza, nei testi liminari, di un epigramma latino di Gaspare Murtola, prima traccia delle relazioni del L. con il mondo letterario anche al di fuori di quel circuito locale che pure avrebbe sempre rappresentato il suo ambiente di riferimento.
Più che il passo di Svetonio su Domiziano nemico delle mosche, contò per il poema del L. il precedente della Moscheide stesa in lingua macaronica (e sul modello della Batracomiomachia) da T. Folengo, autore importante per l'intera sperimentazione letteraria del Lalli. L'opera era poi accompagnata da una Allegoria (Moscheide, ed. 1623, pp. 7-11), che presentava Domiziano come uomo superbo e altero, le mosche come i vizi che tiranneggiano l'uomo, il delfino in aiuto di Olinda (entro uno degli episodi del poema) come il supporto divino offerto ai virtuosi. A caratterizzare la Moscheide, al di là di questo apparato sovraimposto, era però l'oscillazione, destinata a farsi costitutiva nel L., tra un abbassamento giocoso prodotto dal contrasto tra materia e stile, ora magniloquente ora elegiaco (come in molte ottave di genuina marca tassiana), e l'umile procurato da un effettivo indulgere a moduli comici, a partire dalle scelte linguistiche più prossime al precedente tassoniano.
Da un sonetto in morte scritto per l'amico Cirocco (in Condoglienza del sig. dottore Gio. Battista Lalli… al sig. Francesco Cirocco… nella morte della sig.ra Consolina de gli Onofri sua consorte, Foligno 1624) si apprende che il L. aveva da poco perso anch'egli la consorte ("Piansi la mia poc'anzi estinta anch'io"), sulla quale del resto mancano notizie. Sempre nel 1624 a Foligno il L. curò la stampa di Montani secessus perigraphi dicata a Io. Baptista Lallo… L'operetta, secondo la breve comunicazione liminare datata novembre di quell'anno, gli era stata consegnata dallo stesso M.A. Cuccini, "elegantissimo carmine contextam (suppresso auctoris nomine)" (ibid., c. A2r).
Era però sul registro giocoso e burlesco che il L. doveva proseguire. Nel 1629 apparve (a Venezia, presso Sarzina, e, "con aggiunta delle rime giocose", a Foligno, presso Alteri per il tramite di Francesco Cirocco) la Franceide, overo Del mal francese poema giocoso, poema in ottave su un tema che aveva conosciuto già larga fortuna nella poesia burlesca cinquecentesca.
L'edizione, dedicata al duca di Parma Odoardo Farnese, offre alcuni spunti: anzitutto la notizia di un poema composto nell'estate di "alcuni anni passati" (c. A3r) e, topicamente, pubblicato su richiesta di amici; nell'Introduttione, poi, strutturata come dialogo presso il Parnaso a giustificare l'opera (a riprendere, più che i Ragguagli di T. Boccalini, lo Scherno degli dei di F. Bracciolini), oltre l'immagine di un L. angustiato dalla pratica dei codici, si registrano la menzione onorevole tra i poeti di Norcia del solo Lodovico Verucci, responsabile dell'Eremita Antonio (poema sacro edito postumo a Foligno dal Cirocco).
Il racconto dell'arrivo del male sulla terra, procurato agli uomini da un comico livore degli dei pagani, è pretesto per un alternarsi di inserti epici, lingua petrarchesca (spesso nelle forme di calchi di interi versi) e di ottave parodiche. Mostrando una conoscenza del paradigma serio del tema (la Syphilis di G. Fracastoro), il L. vi accorpa il racconto della disfida di Barletta e ancora di una traversata oltreoceanica, di evidente memoria tassiana, volta al recupero del legno santo, il guaiaco, provvidenziale balsamo contro il male.
È sull'onda di questa vena "precipitosa e ratta" e di una pratica che si dava piuttosto delle connessioni di cornice, senza poi procedere a una sorvegliata gradazione degli esiti e accentuando gli scarti stilistici (secondo quanto dichiarato in Franceide, I, 3) che nacque la trasformazione delle Rime di F. Petrarca.
Una prima serie (diciannove sonetti, una canzone, una ballata, una sestina) apparve in appendice alla stampa folignate della Franceide e poi sarebbe stata ripresa nelle Opere poetiche del L. pubblicate a Milano nel 1630. L'edizione postuma delle Poesie nuove aggiunse nuove riscritture petrarchesche, tra esse quella della canzone R.v.f. 23 mutata in un capitolo sulle carote per un totale di ventinove sonetti, due ballate, una canzone, una sestina (quest'ultima rielaborava A qualunque animal alberga in terra discutendo delle cipolle e menzionando anche Silvia e Aminta dalla pastorale tassiana). L'operazione, ora funzionalizzata a un labile didascalismo, più sovente ad abbassamenti comico-narrativi (un furto di capponi per R.v.f. 2) o a denunce della poco remunerativa pratica della poesia, si fondava sull'accantonamento del dilemma etico petrarchesco e piuttosto su una pratica di libera combinazione, ove la parodia e il centone potevano essere offerti come esempi di modestia di fronte alla perfezione inarrivabile del modello.
Complementare a questo esercizio va inteso il tentativo del L. nell'ambito dell'epica regolare, con un poema sull'imperatore Tito e sulla distruzione di Gerusalemme: il Tito Vespasiano overo Gerusalemme disolata (Venezia 1629; poi "con gli Argomenti del Sig. Bartolomeo Tortoletti", Foligno 1635). Nel dedicare (da Norcia, il 1° nov. 1628) i primi quattro canti a Odoardo Farnese, il L. alludeva ai precedenti tentativi sullo stesso soggetto (p. 7), avendo in mente probabilmente anche il Marino del frammento della Gerusalemme distrutta (edita nel 1626), a conferma di una pratica di scrittura che nel L. si specchiava, con tensione ora agonistica ora parodica, nella letteratura coeva. Mentre, sul versante pubblico, è attestata la sua elezione alla pretura di Foligno nel luglio del 1629, nel 1630 la citata antologia milanese delle Opere poetiche (con accorpamento del Tito, dei poemi giocosi e delle riscritture petrarchesche), oltre a sancire la notorietà ormai ampia del L., riportava una sua lettera a Giacinto Rosa, nipote di Epifanio e di Giovan Carlo Alessi (prevosto di S. Carlo a Roma), scritta in difesa della Moscheide (Opere poetiche, pp. 236-245).
Si tratta di una difesa dal taglio non ironico e condotta piuttosto con le argomentazioni proprie delle poetiche alte, dalla verosimiglianza alla convenienza di una limitata deroga al vero storico, e che di passaggio forniva anche informazioni sulla stesura della Franceide, data come conclusa nel giugno 1628, e su una locale Accademia dei Torbidi (con ogni probabilità da distinguere dall'omonimo e coevo consesso bolognese: ibid., p. 244).
Il L. continuava intanto a richiedere, a ottenere ed esercitare cariche amministrative, come attestano diverse epistole in versi (Poesie nuove, pp. 67-105): prima a Trevi, poi a Spello, più avanti presso la podesteria di Foligno. Fu in quest'ultimo soggiorno, come pausa e sollievo all'impegnativo compimento del Tito, che il L. realizzò l'Eneide travestita. La scrittura, al solito rapidissima, fu confortata dall'approvazione di una cerchia di amici, tra essi Carlo Bosso, Antonio Querenghi e quel Giovan Carlo Alessi, che guadagnò all'Eneide travestita l'approvazione del cardinale Bernardino Spada, legato a Bologna. L'opera fu affidata ad Antonio Bruni e vide la luce a Venezia nel 1632, presentata non come un volgarizzamento puntuale - uno dei tanti registratisi a partire dalla metà del Cinquecento -, ma come intesa a "descrivere, con modo parafrastico, la sostanza dell'original sentimento dell'Autore" (un paradigma volutamente, forse ironicamente, calcato sul Marino difensore della pratica di libera imitazione nella celebre lettera all'Achillini del gennaio 1620).
L'uscita e il successo del poema (con altre due edizioni a ridosso della princeps: Roma 1634; Venetia 1635) dovettero suscitare un dibattito sulla liceità della versione e sul peccato di lesa maestà rispetto al modello latino. Il L. aveva posto l'opera sotto l'ombra protettiva di un canone burlesco che da Berni a Folengo, al Caporali delle Rime piacevoli giungeva al binomio, assai eterogeneo, Bracciolini-Tassoni (segnale di una pratica una volta ancora irriducibile a un unico meditato vettore e con un occhio ai precedenti seri di Tasso e della versione di A. Caro), ma altri argomenti furono offerti dalla riflessione critica. Più che la lettera di Giovan Tomaso Giglioli indirizzata all'Alessi (in data 7 maggio 1633) e posta in appendice all'edizione Facciotto del poema del 1634 (gli argomenti a sostegno erano la pregevole mistione di gravità e piacevolezza; la forma dell'hilarotragoedia teorizzata da G. Mazzoni; il modello del Baldus folenghiano; la funzione parenetica della trattazione irriverente degli dei pagani), conta l'intervento di Niccolò Villani che, prendendo le mosse dall'esigenza di difendere l'Eneida travestita, scrisse una trattazione ampia e ambiziosa della poesia giocosa al termine della prima e più rilevante stagione eroicomica: il Ragionamento dello accademico Aldeano sopra la poesia giocosa de' Greci, de' Latini e de' Toscani (Venezia 1634). Villani difendeva la "modestia della […] Musa" del L., che aveva reso "piacevoli e urbani" (p. 70; cfr. pure pp. 70-77, 99-101) i sentimenti di Virgilio, e menzionava anche, a testimonianza di una familiarità indubbia, versi burleschi del L. in dialetto di Norcia (p. 77).
Accanto al travestimento del poema maggiore, va poi segnalata un'altra avviata riscrittura virgiliana in chiave comica: si tratta delle prime tre Bucoliche, pubblicate postume (in un disegno completato entro le Poesie nuove dalle versioni delle altre egloghe dovute a Bartolomeo Tortoletti e al figlio del L. Giovanni, responsabile dell'intera edizione del 1638).
Nell'ottobre 1634 apparve a Foligno una raccolta di Rime giocose, dedicate al cardinale Guido Bentivoglio: capitoli in terza rima, ora di omaggio scherzoso, ora di scherzoso ammaestramento, sempre di respiro assai breve, indirizzati in quantità al Cirocco, poi anche all'Alessi, al Verospi, ancora al Cuccini, scambi di versi con il Tortoletti. Annunciato già nelle Rime giocose (p. 150) l'anno successivo apparve infine il Tito, nella misura canonica per l'epica dei venti canti.
La prefazione valeva da un lato come bilancio di un'intera esistenza spesa tra la professione delle leggi e quella dei versi, d'altra parte a mettere in luce le fonti bibliche, storiche (gli Annales ecclesiastici di C. Baronio), letterarie e di poetica (la Vita di Apollonio di Filostrato, i Discorsi del "dottissimo" Tasso in materia di meraviglioso e verosimile, c. *4v), che avevano guidato la composizione del poema.
Fonti d'archivio attestano la carica di podestà ricoperta dal L. a Foligno a partire dall'ottobre 1632; il 5 genn. 1633 richiese una conferma della carica per un altro semestre e vi si trovava ancora nell'aprile 1633 (Jacobilli, 1646, p. 82). Nel maggio 1634 fece ritorno a Norcia, trascorrendo quindi un breve intervallo al governo di Trevi. Poco dopo, secondo il racconto del figlio, fu menomato da un colpo di apoplessia che lo lasciò assai infermo (Poesie nuove, p. 200). Tornato definitivamente a Norcia, il L. vi morì il 6 febbr. 1637.
Oltre alla segnalazione di un volume di Rime sacre edito a Foligno in quello stesso 1637 (Jacobilli, 1658, p. 155), si ha notizia di un intervento del L. Sopra le vite de' santi descritte da Ludovico Jacobilli, Foligno 1630 (l'opera di Jacobilli era del 1628) e ancora di una Invetiva al suo onore edita nello stesso anno. La raccolta delle Poesie nuove… volume postumo, apparsa nel 1638 con dedica al cardinale P.M. Borghese, comprendeva una decina di epistole giocose indirizzate ad amici e protettori nelle occasioni più diverse: dalla richiesta di una nomina ai ringraziamenti inviati al Villani per la difesa dell'Eneide travestita. Postume apparvero anche le rime gravi, per larga parte di tono encomiastico (con oggetto i Barberini da un lato, i notabili umbri dall'altro), entro le quali vanno tuttavia segnalati i componimenti indirizzati, oltre che a G.B. Massucci e P.F. Paoli, al Preti cantore di Salmace, o la risposta all'Achillini di Sudate, o fochi, a preparar metalli; inoltre madrigali e sonetti intessuti su argomenti come "A donna bella ma poverissima", "A donna malata", "A bella donna sposata con un cieco" e, in conclusione, un componimento in lode del cappuccino Girolamo da Narni, costituito integralmente con lacerti tassiani, a siglare nel segno del centone e sotto l'effigie del poeta prediletto il cammino poetico del Lalli.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Foligno, Arch. comunale, Polizze, 126, c. 15v; Priorale, Riformanze, 91, c. 55r; Relatione del ricevimento fatto in Genazzano dalla santità di n.s. papa Urbano VIII… Descritta dal sig. Francesco Cirocchi e data alle stampe dal sig. Gio. Battista Lalli, Foligno 1633; G.V. Rossi, Pinacotheca virorum illustrium, I, Coloniae 1643, pp. 130-134; L. Jacobilli, Discorso delle città di Foligno, Foligno 1646, pp. 57, 82; Id., Bibliotheca Umbriae, Fulginiae 1658, pp. 154 s.; G.M. Crescimbeni, Dell'istoria della volgar poesia, III, 3, Venezia 1730, p. 177; F.S. Quadrio, Della storia e della ragion d'ogni poesia, Bologna 1739-52, I, p. 213; II, pp. 309, 561, 624; IV, pp. 176, 686, 722 s., 730; J.C. Brunet, Manuel du libraire, III, Paris 1862, col. 778; J.T. Graesse, Trésor de livres rares, IV, Dresde 1863, p. 81; U. Micocci, Vita e scritti di G.B. L., Norcia 1887; G. Rua, Introduzione a G.B. L., "La Moscheide" e "La Franceide", Torino 1927, pp. VII-XXVIII; A. Chastel, Musca depicta con testi di Luciano Samosata…, Milano 1984, pp. 59-124 (edizione della Moscheide); P. Lai, Un poema giocoso sul mal francese stampato a Foligno nel 1629: la "Franceide" di G.B. L. da Norcia, in Boll. Stor. della città di Foligno, IX (1985), pp. 423-439; T. Stauder, G. L. und seine "Eneide travestita", in Id., Die literarische Travestie, Frankfurt 1993, pp. 41-94; M.C. Cabani, Gli amici amanti. Coppie eroiche e sortite notturne nell'epica italiana, Napoli 1995, pp. 111-116; L. Borsetto, Virgilio "in dilettevole stile giocoso". Sull'"Eneide travestita" di G.B. L., in Id., Tradurre Orazio, tradurre Virgilio. "Eneide" e "Arte poetica" nel Cinque e Seicento, Padova 1996, pp. 125-166; U. Motta, Antonio Querenghi (1546-1633). Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinascimento, Milano 1997, pp. 309, 317; M.C. Cabani, La "Franceide" di G.B. L., in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del barocco, Roma 2002, pp. 693-716; Id., La "Franceide" di G.B. L. e la tradizione poetica sul malfrancese, in Il contagio e i suoi simboli, a cura di G. Manetti - C. Barcellona - C. Rampoldi, II, Letteratura, psicologia e comunicazione, Pisa 2004.