GRIMALDI, Giovanni Battista
Secondogenito di Girolamo, creato cardinale nel 1527 dopo la morte della moglie Francesca Cattaneo, il G. nacque a Genova intorno al 1524.
Girolamo nacque a Genova nella seconda metà del XV secolo. Mercante e titolare di cariche pubbliche di rilievo, svolse importanti missioni diplomatiche, in particolare presso il re di Francia. Il 21 nov. 1527 fu inserito da Clemente VII, prigioniero in Castel Sant'Angelo, nella promozione cardinalizia effettuata per procurarsi le somme da pagare ai comandanti dell'esercito imperiale che occupavano Roma. Il 27 apr. 1528 ebbe il titolo diaconale di S. Giorgio al Velabro, il 25 settembre fu nominato amministratore della diocesi di Brugnato e il 9 ottobre divenne amministratore perpetuo della diocesi di Venafro, nella Terra di Lavoro. Nel 1530 fu incaricato della legazione presso la Repubblica di Genova e il 2 settembre dello stesso anno fu nominato amministratore della diocesi di Bari.
Dall'11 al 13 ott. 1534 partecipò al conclave tenutosi dopo la morte di Clemente VII, e sostenne Alessandro Farnese (Paolo III). Sotto il nuovo papa egli aggiunse anche l'amministrazione della diocesi di Strongoli, alla quale rinunciò il 15 nov. 1535, riservandosi una pensione annua di 300 ducati sui frutti della mensa episcopale, dopo aver lasciato, il 6 giugno precedente, anche l'amministrazione della diocesi di Brugnato. Dall'amministrazione della diocesi di Venafro si dimise nel 1536, riservandosi una pensione di 250 ducati. Il 15 nov. 1538 gli furono affidate la legazione pontificia della Liguria e l'amministrazione della diocesi di Albenga, suffraganea di quella di Genova. Morì a Genova il 27 nov. 1543.
All'indomani della morte del padre compare il primo atto pubblico a nome del G.: il 31 dicembre dello stesso anno firmò un pagamento di 500 scudi d'oro a Roma per riscattare i diritti di spoglio e l'anello vescovile paterni. Fin dai primi anni della giovinezza il G. venne coinvolto nell'attività finanziaria familiare, seguendo il prestigioso esempio del prozio Ansaldo Grimaldi, banchiere dell'imperatore Carlo V. Morto Ansaldo, una parte dei suoi beni - per un ammontare complessivo di 500.000 scudi - passarono al G. e ai fratelli il 30 sett. 1539; il G. ereditò la casa genovese, al numero 10 di via S. Luca, dove risiedette stabilmente. Più tardi, nel maggio 1553, il G. ebbe l'occasione di trattare un prestito per l'imperatore: ai primi 100.000 scudi, somma cui contribuì anche il concittadino Silvestro Cattaneo, aggiunse personalmente, otto mesi più tardi, un anticipo di altri 44.000.
Nella primavera del 1543 il G. si recò a Roma, dove fece un incontro destinato a indirizzare il corso della sua vita verso interessi culturali: conobbe l'umanista senese Claudio Tolomei che, negli anni Trenta, sotto il patronato del cardinale Ippolito de' Medici, aveva fondato l'Accademia della Virtù.
Dell'attività che vi veniva svolta sappiamo poco o nulla: gli incontri erano a tema e ognuno dei convitati veniva chiamato a esporre la propria opinione. Vi si coltivava l'ideale della virtù, come recita il nome, sebbene la supposta identificazione con l'Accademia dei Vignaiuoli, tra i cui esponenti figurava Annibal Caro, porti ad attribuire al cenacolo una matrice bernesca, non di rado incline a oscenità di maniera.
Con il Caro il G., durante un soggiorno a Milano tra il 1557 e il 1559, intrattenne uno scambio epistolare, di cui ci sono giunte le sole risposte del corrispondente, costretto a respingere per loro tramite l'invito a scrivere versi, reiterato dal G. con eccessiva insistenza. Già a partire dal 1543 il più assiduo corrispondente del G. fu però il Tolomei: dalle sue lettere emergono devozione e affetto sinceri - spesso testimoniati da doni reciproci e premure di ogni sorta -, sui quali si andarono progressivamente innestando interessi intellettuali, come la passione per la filosofia pitagorica. In occasione del matrimonio del G. con Marietta Negroni - dal quale sarebbero nati cinque figlie e tre figli - il Tolomei dipinse una medaglia nuziale: l'effigie degli sposi compariva incastonata in una ricca cornice di simboli, per lo più numerologici, il cui significato dovette apparire così oscuro al G. da costringere l'autore a renderne conto in un'epistola datata 7 sett. 1543, in seguito smarrita e rispedita una seconda volta. Nell'estate o al più tardi nell'autunno del 1544, durante un secondo soggiorno romano, il G. incontrò Tolomei per l'ultima volta, ma l'amicizia non andò affievolendosi.
Nel 1547 il Tolomei dedicò al G. le Due orazioni in lingua toscana (Parma, Viotti) mentre veniva compiendosi l'iniziativa più importante che avrebbe legato i loro nomi: la creazione di una biblioteca, ospitata nella casa del G., che raccogliesse tutte le opere degne di un gentiluomo.
La scelta era stata quasi certamente concordata tra i due amici; il reperimento dei volumi spettava al solo Tolomei, il quale il 19 apr. 1544 spedì al G. una traduzione toscana del Convivio platonico, corredata di dedica. Il primo contingente significativo, di circa duecento volumi, venne annunciato quasi un anno dopo, in una lettera del 3 genn. 1545, e già il 9 maggio se ne poteva vantare un considerevole incremento.
La collezione dei testi, di per sé, non appare significativa: dall'attenta ricognizione di A. Hobson non emergono né opere estranee al canone umanistico e neppure esemplari di particolare pregio (i manoscritti sono soltanto due). Erano presenti opere classiche latine e greche, ma tradotte in latino, accanto a testi di autori italiani (gran parte dell'opera petrarchesca e il De claris mulieribus di Boccaccio nell'edizione Berna, M. Apiarius, 1539). Non furono solo volumi di letteratura e filosofia a essere selezionati dal gusto e dall'estro dei due amici, ma anche manuali riguardanti i principali interessi di un gentiluomo, come la cura dei cavalli, l'arte del duello e della guerra, l'alchimia ecc., mentre sono del tutto assenti opere di carattere religioso e teologico. La collezione riveste un ruolo di primo piano nella bibliofilia cinquecentesca, grazie alla elegante rilegatura dei volumi, che, passata alla storia con il nome di legatura "Canevari" per errata attribuzione alla committenza di Demetrio Canevari, è opera di legatori della corte pontificia degli anni Quaranta, la cui effettiva committenza deve essere ascritta al Grimaldi. Il riquadro centrale è decorato con un Apollo che guida il carro del Sole in direzione di una montagna sulla cui sommità compare Pegaso, il cavallo alato; intorno si legge il motto "òrthos kaì me loxìos", traduzione del latino "recte et non oblique", che suona come un'esortazione ad affrontare gli studi seguendo la via più diretta, ancorché più faticosa. Tanto il motivo iconologico, quanto il motto sono probabilmente ideazione dell'Accademia della Virtù.
Nell'autunno del 1544 tra le frequentazioni intellettuali del G. fa la sua comparsa Iacopo Bonfadio che, già precettore di Torquato Bembo, il figlio di Pietro, fu chiamato a Genova come lettore di retorica. Il Bonfadio, esponente del gruppo valdesiano di Napoli, assunse il ruolo di consigliere del giovane e discreto mecenate, che dovette più volte affidarsi al suo giudizio. Negli Annalium Genuensium… libri quinque (Pavia, G. Bartoli, 1586) il Bonfadio annotò alcuni episodi della vita pubblica del G.: la missione presso Cesare Fregoso a Savona, nel 1536; l'incarico come uno degli otto responsabili del nutrimento dei poveri durante la drammatica carestia del 1539 e, infine, la sua presenza a palazzo ducale durante la notte della congiura dei Fieschi (tra il 2 e il 3 genn. 1547). Il sodalizio, a partire dal 1548, si manifestò attraverso lo scambio epistolare che conserva, fra l'altro, il racconto degli ultimi tragici momenti dell'esistenza del Bonfadio: l'improvvisa condanna a essere arso vivo, comminata dal S. Uffizio nel 1550, sconvolse il G. che si adoperò, insieme con altri influenti concittadini, per far commutare l'atroce pena in decapitazione e rogo del cadavere. In punto di morte, il 19 luglio, il Bonfadio trovò la forza di ringraziarlo e di raccomandare il nipote Fadino alle cure della moglie del Grimaldi.
Nel 1559, con la promulgazione dell'Indice romano, fu posta sotto esame l'intera biblioteca del G., principalmente a causa di alcune dediche eterodosse contenute nei volumi. Nel giro di tre anni le acquisizioni vennero perciò definitivamente interrotte. Poco dopo tre sonetti del G. comparvero nella raccolta Il tempio alla divina s. donna Giovanna d'Aragona… (Venezia, F. Rocca, 1565, pp. 38 s.): il nome del G. vi appare accompagnato dall'appellativo "Riccio". Intanto l'attività di riservato mecenatismo si stava indirizzando lontano dalle lettere, fino a trovare coronamento nella realizzazione di una villa fuori città, sulle rive del fiume Bisagno, divenuta famosa con il nome di Fortezza, forse in ragione delle proporzioni maestose, che dovettero colpire l'immaginazione di P.P. Rubens, se la riprodusse nella rassegna dei Palazzi di Genova.
La costruzione venne inizialmente affidata a Bernardo Spazio, cui subentrò dapprima Giambattista Castello e poi, dal 1567, Giovanni Ponzello. Villa Grimaldi può ascriversi pertanto alla scuola di Galeazzo Alessi, l'autore del rifacimento della cupola del duomo di Genova, che è indicato dal Vasari come l'architetto della Fortezza. Nel giardino dominava l'imponente vasca: decantata dal Vasari come una delle meraviglie d'Italia, essa era impreziosita da mostri marini e animali acquatici, da cui uscivano acque di differenti temperature; grazie a una gradevole e sapiente illuminazione, vi si potevano bagnare fino a dieci persone anche di notte. Nelle stanze spiccavano, fino alla seconda guerra mondiale, gli affreschi con soggetti storici e mitologici, opera di Luca Cambiaso, il pittore dei notturni di palazzo Bianco a Genova.
Per quanto riguarda gli incarichi politici, nel 1559 il G., in ottemperanza al trattato di Cateau-Cambrésis, fu uno fra i due principali artefici della riacquisizione da parte dei Genovesi delle roccaforti occupate dai Francesi in Corsica. Nel 1591 venne eletto senatore.
Il G. morì presumibilmente intorno al 1612; fu sepolto nel convento di S. Niccolò del Boschetto, accanto al padre, nella tomba di famiglia.
Un ritratto, opera di Pietro Paolo Galeotti, ci è conservato in una medaglia, databile tra il 1552 e il 1570, il cui rovescio raffigura Prometeo incatenato mentre un'aquila gli divora il fegato, sotto il motto "Cor exest nunquam excordis regina volantum". Al G. vennero dedicate L'antichità di Roma di Bartolomeo Marliano volgarizzate da Ercole Barbarasa (Roma, A. Blado, 1548), e nel 1563 un'ode latina di Publio Francesco Spinola.
Fonti e Bibl.: P.F. Spinola, Opera, Venetiis 1563, p. 45; Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni, scritte in diverse materie, nuovamente ristampate, et in più luoghi corrette, II, Venezia 1564, pp. 13 s.; I. Bonfadio, Gli annali di Genova. Dall'1528 che ricuperò la libertà, fino al 1550, Genova 1597, ad indicem; C. Tolomei, Delle lettere, Napoli 1829, ad indicem; A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, II, Firenze 1959, pp. 232, 313 s.; I. Bonfadio, Le lettere e una scrittura burlesca, a cura di A. Greco, Roma 1978, pp. 16, 18, 36, 42, 49, 51-55, 140-145, 147, 154 s., 179 s., 182; G. Vasari, Le vite… [1568], a cura di G. Milanesi, VII, Firenze 1906, p. 554; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, Roma 1667, p. 331; M. Labò, La villa di B. G., in L'Arte, XXVIII (1925), pp. 271-280; A. Hobson, Apollo and Pegasus. An enquiry into the formation and dispersal of a Renaissance library, Amsterdam 1975, pp. 49-63; F. Barberi (rec. a Hobson), in La Bibliofilia, LXXVII (1975), pp. 257-260; M. Cavanna Ciappina, Cattaneo, Silvestro, in Diz. biogr. degli Italiani, XXII, Roma 1979, pp. 484 s.; Legature antiche e di pregio, sec. XIV-XVIII, a cura di P. Quilici, Roma 1995, I, p. 148 n. 173; A. Pacini, La Genova di Andrea Doria nell'Impero di Carlo V, Firenze 1999, p. 410.