GRASSI, Giovanni Battista
Nacque a Rovellasca, nel Comasco, il 27 marzo 1854 da Luigi e Costanza Mazzucchelli. Compiuti gli studi elementari e ginnasiali nel collegio privato Bolchi-Stucchi di Saronno, e quelli liceali a Como nel liceo Volta, nel 1872 s'iscrisse alla facoltà di medicina a Pavia, ospite del collegio Ghislieri.
Lo Studio pavese annoverava nella propria storia L. Spallanzani, autore di fondamentali ricerche sulla generazione, A. Bassi, studioso delle cause dei contagi, e A. Scarpa, anatomico e fisiologo sperimentale. Dopo un periodo di scarso interesse per la fisiologia e l'anatomia microscopica da parte dei cattedratici di materie mediche, la gloriosa tradizione era ripresa con i lavori di B. Panizza, A. Corti, A. Dubini, C. Vittadini, E. Cornalia e G. Gasparrini, ma soprattutto di E. Oehl, pioniere e maestro dell'istologia, la nuova scienza che in Germania annoverava gli studi più avanzati e costituiva la nuova frontiera della biologia e della medicina. Allievi di Oehl erano stati E. Sertoli e G. Bizzozero, che il G. incontrò al termine della sua permanenza nell'ateneo pavese, insieme a G. Balsamo Crivelli, ormai giunto alla fine del suo insegnamento. Una cattedra di istologia era stata creata nel 1876 per C. Golgi, alla cui scuola di microscopia, affermatasi come la migliore italiana, il G. poté completare la propria formazione.
Laureatosi in medicina nel '78, consapevole che al progresso di questa scienza avrebbe potuto dare un sostanzioso contributo, più che attraverso la professione, con la ricerca in biologia e zoologia, il G. si propose di avvicinare le più prestigiose personalità europee. Vinta una borsa di studio, si trasferì a Messina per frequentare la stazione di biologia marina diretta da N. Kleinenberg, scienziato lettone di scuola tedesca, poi a Heidelberg per seguire le lezioni e il laboratorio di K. Gegenbaur e O. Bütschli e infine a Würzburg alla scuola di K. Semper. Nel biennio messinese il G. si dedicò allo studio istologico ed embriologico dei Chetognati, un gruppo animale di cui individuò quattordici nuove specie e del quale cercò, senza successo, le affinità biologiche; concluse che si trattava di un phylum isolato non collocabile in alcuno schema filogenetico (I Chetognati. Anatomia e sistematica con aggiunte embriologiche, in Memorie della R. Accademia dei Lincei, cl. di scienze fisiche, matematiche e naturali, s. 3, XIII [1881-82], pp. 565-700). A Heidelberg conobbe un illustre morfologo e maestro di anatomia comparata, K. Gegenbaur, la cui scuola partecipava in quegli anni al rinnovamento di idee collegato con la teoria darwiniana, nel tentativo di portare prove di affinità e parentela tra specie, sulla base di omologie e analogie.
Nel 1883 il G. s'impegnò nello studio morfologico comparativo della colonna vertebrale dei Teleostei e dei Selaci, in particolare della sua origine (Lo sviluppo della colonna vertebrale nei Pesci ossei, ibid., XV [1882-83], pp. 311-372). Il metodo della comparazione prese peraltro in lui un indirizzo diverso da quello gegenbaueriano, perché volto alla definizione della specificità biologica delle forme studiate piuttosto che all'individuazione di analogie e omologie.
Iniziata in quello stesso anno la carriera universitaria, con la nomina per concorso a professore di zoologia, anatomia e fisiologia comparata nell'Università di Catania, vi restò fino al '95, quando passò a Roma sulla cattedra di anatomia comparata, succedendo a F. Gasco. Dal 1903 svolse anche l'insegnamento di entomologia agraria, per la prima volta presente nell'università romana.
A Roma sarebbe restato fino alla morte, avvenuta il 4 maggio 1925. Fu seppellito a Fiumicino, nella terra che aveva beneficato con la lotta all'infezione malarica. Dal matrimonio con Maria Könen, tedesca, era nata una figlia, Isabella.
La personalità scientifica del G. s'impone per il coraggio intellettuale, le straordinarie doti intuitive, l'originalità e l'abnegazione della ricerca. Del medico avrebbe conservato sempre la vocazione ad alleviare la sofferenza dedicando gran parte degli studi a identificare la causa delle patologie. Nelle università il G. lamentava l'assenza di una fisiologia e di una patologia sperimentali, necessarie, insieme con l'istologia patologica, a un effettivo progresso della biologia: egli mirava quindi a una visione unitaria e reciprocamente feconda di patologia e biologia. La patologia poteva indicare i grandi temi da affrontare, la biologia, con la zoologia, avrebbe offerto le conoscenze necessarie a individuare gli agenti delle malattie contagiose e i loro cicli di sviluppo. Fu eccezionale e originale parassitologo perché provetto zoologo e sistematico, profondo conoscitore delle caratteristiche morfofisiologiche necessarie a distinguere le singole specie, utilizzando le somiglianze per tentare di applicare, almeno come ipotesi di lavoro, i risultati della sperimentazione dalle une alle altre. Dai dati dell'anatomia e fisiologia comparate e della faunistica sapeva trarre ipotesi illuminanti. A tutto questo affiancava il controllo microscopico appreso alla scuola del Golgi. Il G. rimase sempre fedele a tal metodo di ricerca e se ne valse per ottenere risultati fondamentali nelle scienze della vita.
Ancora studente e subito dopo la laurea aveva eseguito, presso l'istituto di anatomia comparata di L. Maggi, ricerche sulla parassitologia degli elminti, del cui ciclo biologico all'epoca ben poco era noto alla scienza. Fino alla metà del secolo XIX risultava non ancora chiarita la relazione esistente tra larve e adulti di molti "vermi". Nel '76, in occasione di una moría di gatti, il G. aveva dimostrato la presenza di vermi simili all'Anchylostoma duodenalis nell'intestino, e delle loro uova nelle feci di quegli animali. Causa di una grave anemia dell'uomo diffusa fin da tempi remoti in Egitto e nei paesi caldi, il parassita era rimasto sconosciuto per tutto il Settecento. Nel 1838 (ma la memoria è del '43) era stato rinvenuto da A. Dubini nell'intestino di un malato e identificato appunto come Anchylostoma duodenalis, senza tuttavia collegarlo con l'insorgenza della malattia. Nel '60 W. Griesinger aveva ipotizzato che vi fosse una relazione tra anemia o clorosi egiziana e Anchylostoma e O. Wücherer, medico in Brasile, ne aveva dato la dimostrazione nel '69 rinvenendolo nel corpo dei suoi pazienti. La scoperta delle uova nelle feci del gatto malato e la loro attribuzione all'Anchylostoma suggerirono al G. di cercare un analogo reperto nell'uomo affetto da anemia. La conferma dell'ipotesi rese possibile da allora la diagnosi di anchilostomiasi per mezzo dell'osservazione microscopica delle feci del malato. Insieme con C. Parona, il G. descrisse il nematode parassita del gatto, che considerò nuova specie, Dochmius Balsami, distinta dall'analogo ospite del cane, l'Anchylostoma caninum, e poi quello umano di cui chiarì le modalità di trasmissione all'ospite attraverso la mucosa orale dell'uomo, nonché le fasi dello sviluppo individuale, scoprendo che le uova possono iniziare la segmentazione solo all'esterno del corpo dell'ospite, infettato dall'ingestione delle larve.
Con ricerche iniziate nel '78 su un parassita importato dall'Oriente, segnalato in Francia, studiato da A. Bavay e distinto in due specie con diversa conformazione della proboscide, l'Anguillula intestinalis, presente nell'intestino, e l'Anguillula stercoralis nelle feci, il G. dimostrò trattarsi di una stessa specie di un genere nuovo, che chiamò Strongiloides, che alternava una forma libera, la presunta stercoralis, a una parassitica, intestinalis: da considerarsi fasi diverse di un unico ciclo di sviluppo eterogonico, con partenogenesi all'interno dell'ospite, e sessi separati con riproduzione sessuale all'esterno. Anche in questo caso il lavoro sul parassita umano era stato affiancato da osservazioni comparative con Anguillula nigrovenosa, specie eterogonica, con l'Anguillula del maiale e del coniglio, nelle quali è anche presente la forma stercoralis. Delle esperienze sulle specie di Anguillula il G. annotò un ulteriore risultato, osservando come dalla comparazione di queste particolari forme, presa ad esempio, si potesse ipotizzare una graduale trasformazione di un organismo libero in semiparassita e ulteriormente in parassita totale, fenomeno che suggerirebbe nuovi percorsi alle ricostruzioni filogenetiche. Con una nota del dicembre '82 informò la Società fisica di Würzburg della scoperta, che R. Leukart confermò con proprie successive sperimentazioni.
In collaborazione con i fratelli C. e E. Parona, e in seguito altri elmintologi, il G. si era applicato alla ricerca dei complessi cicli di sviluppo, allora del tutto sconosciuti, dei vermi parassiti, che tante vittime mietevano nei paesi caldi, ma anche in Europa e in Italia. Per fondarsi su una sperimentazione inconfutabile non esitò a ingerire uova e parassiti presenti nelle feci, con un'abnegazione che gli avrebbe permesso anche in seguito, nello studio sull'infezione malarica, di ottenere risultati certi.
Della maggior parte dei vermi parassiti più comuni in Europa e in Italia, Cestodi e Nematodi, fu il G. con la sua scuola a rintracciare il ciclo di sviluppo, spesso molto complesso, e a identificare gli ospiti intermedi, talora tanto lontani per ecologia e posizione sistematica da eludere i sospetti, come la pulce che ospita il cisticerco del Dypilidium caninum, o strettamente specifici, come il genere Perca, ospite del Botriocefalo. Ancora a Pavia nel 1881 dimostrò, contro il parere di Leukart, la specificità del parassitismo dell'Ascaris lumbricoides che infesta l'uomo, diverso dall'Ascaris mystax che vive nel gatto, e la non esistenza di un ospite intermedio. Il parassita citato si sviluppa direttamente dall'uovo ingerito, come avviene nel gatto e nel cane. Con un ingegnoso esperimento sulla Filaria recondita, parassita del cane, il G. riuscì a chiarire la trasmissione all'uomo delle filarie, dimostrando che gli embrioni non restano nell'acqua dopo il disfacimento del corpo della zanzara, secondo un'insoddisfacente e comunemente accettata ipotesi di P. Manson, ma sono direttamente inoculate nel sangue con il morso dell'anofele. Alcuni anni dopo, con G. Noè, ampliò le indagini e ne riassunse i risultati in Propagazione delle filarie del sangue esclusivamente per mezzo della puntura di peculiari zanzare (in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 5, IX [1900], 2, pp. 157-162, 357-362).
Riprese quindi le ricerche, iniziate nel '79, sulla morfologia, embriologia e biologia dei Cestodi: sull'echinococco - con S. Calandruccio - e sui cicli evolutivi di Tenia. Dallo studio del ciclo vitale della tenia nana (Hymenolepsis nana), reso possibile dal confronto con quello della vicina specie, la tenia murina dei topi (Hymenolepsis fraterna), ottenne la dimostrazione, inattesa, della possibilità di un ciclo diretto, senza ospite intermedio, in alcuni Cestodi. Aveva aperto in tal modo un nuovo campo di studio e introdotto il concetto di "iperparassitosi", che si realizza quando i parassiti si moltiplicano nell'intestino di uno stesso individuo senza ospite intermedio.
Dal 1887 al '92 eseguì con G. Rovelli uno studio minuzioso sulla Bilharzia, rilevandone la presenza in Sicilia e il pericolo di una sua diffusione, studio quasi contemporaneo a quello sullo sviluppo del botriocefalo (Intorno allo sviluppo dei Cestodi, ibid., s. 4, IV [1888], 1, pp. 700-702; e La Bilharzia in Sicilia, ibid., p. 799).
Ebbero inizio negli anni giovanili di Pavia con L. Maggi, ma si protrassero per tutta la vita, i lavori del G. sui Protozoi. Già nel '79 aveva annotato quanto più tardi, nel 1882, poté affermare con prove sperimentali, che l'Amoeba coli, ritenuta patogena da molti protistologi, vive invece da commensale nell'intestino umano, al pari di numerose altre specie dei generi Entamoeba, Retortamonas, Hexamita e Giardia. Con un lavoro sistematico che si valse anche di esperimenti d'infezione incrociata per distinguere tra loro specie simili, e che contribuì ad allargare la conoscenza dei Protozoi a specie e generi nuovi, il G. pose le premesse per le ricerche successive. Fornì sicuri dati sperimentali per distinguere i Protozoi patogeni, soprattutto Coccidi e Megastomi, dagli altri. Ritenne improbabile che i Protozoi, senza la possibilità di un periodo di vita libero o veicolati da un ospite intermedio, potessero produrre malattie infettive, considerandoli patogeni solo per infezioni locali (Significato patologico dei Protozoi parassiti dell'uomo, ibid., s. 4, IV [1888], 1, pp. 5-12); nel 1885, inoltre, con la memoria Intorno ad alcuni Protozoi parassiti delle Termiti (in Atti dell'Accademia Gioenia di scienze nat. in Catania, s. 3, XVIII [1885], pp. 229-240; ripresa e ampliata successivamente, in collaborazione con A. Sandias, in Costituzione e sviluppo della società dei Termitidi… Osservazioni sui loro costumi. Con un'appendice sui Protozoi parassiti dei Termitidi e sulla famiglia delle Embidine, ibid., s. 4, VI-VII [1893]), tentò di chiarire il significato della presenza di Flagellati, come Joenia annectens, nell'intestino di questi insetti, in particolare nel Calotermes flavicollis, alla cui sopravvivenza si rivelavano indispensabili. Il G. sospettò che i Protozoi promuovessero la digestione del legno, di cui sembravano alimentarsi le Termiti, un'ipotesi confermata da successivi lavori di L. Buscalioni e O. Comes. In particolare, le ricerche del 1935 di U. Pierantoni mostrarono che tra le Termiti e i Protozoi Flagellati Ipermastigini, a loro volta ospitanti batteri in grado di attaccare la cellulosa, s'istituisce una mutua simbiosi che permette all'insetto di alimentarsi con i prodotti della digestione del legno e della sostanza dello stesso protozoo.
La ricerca sui Flagellati viventi nei Termitidi era di grande interesse sia perché il genere Joenia (già studiato nella specie annectens) presenta una gran varietà di specie nell'ambito dello stesso ospite, sia perché le sue cospicue dimensioni permettono di osservarne con esattezza la complessa organizzazione morfologica. Il G. dunque giunse a identificarne e descriverne cinque nuove specie con tre nuovi generi che attribuì all'ordine degli Ipermastigini. Nel 1904 infine, con il lavoro in collaborazione con A. Foà, il G. precisò le caratteristiche della struttura dei Flagellati e del loro processo riproduttivo (Ricerche sulla riproduzione dei Flagellati I. Processo di divisione delle Joenie e forme affini. Nota preliminare, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 5, XIII [1904], 2, pp. 241-253).
È del 1883 la ricerca, che costituì titolo per la cattedra di Catania, sullo sviluppo dell'uovo dell'ape, dalla segmentazione fino alla formazione del blastoderma, dei foglietti e dei singoli organi, una primizia in embriologia entomologica (Intorno allo sviluppo delle Api nell'uovo, in Atti della Società italiana di scienze naturali, XXVI [1883], 4, pp. 355-370). Il G. chiarì anche la genesi dell'entoderma, che embriologi quali F.M. Balfour, A. Dohrn e gli stessi H. e O. Hertwig, localizzavano nelle cellule vitelline residue, e che il G. individuò nelle piastre cellulari poste ai due poli dell'uovo.
Negli anni Ottanta e Novanta, periodo di massimo interesse per la teoria dell'evoluzione, nel G. entomologo vediamo prevalere il punto di vista del morfologo nel proposito di ricostruire gli alberi genealogici per delineare le leggi della discendenza e spiegare l'organizzazione dei singoli organismi viventi. Diventava a tal fine essenziale lo studio dei sistemi organici nel loro insieme, quali si presentano nelle forme viventi più semplici e primitive, che meglio ne rivelano lo schema strutturale: era l'ingresso in un campo quasi inesplorato - solo J. Lubbok vi si era addentrato nel '73 - che richiese quasi quattro anni di lavoro. L'esame della morfologia e dell'organizzazione strutturale di forme primitive attere quali i Tisanuri e i Sinfili, permise di indicare questi ordini di Insetti quali progenitori delle forme alate e dei Miriapodi. Il G. descrisse tutti gli apparati e gli organi dei generi Campodea, Japix, Machilis, Lepisma. Quanto a Scolopendrella, un genere la cui primitività è dimostrata dalla vasta diffusione geografica e dalla scarsità di specie, era già stato registrato dagli studiosi dei Miriapodi, e compreso nel subordine dei Symphyla insieme con i Pauropodi, ma la ricognizione anatomica poté dimostrarne l'affinità con gli Atteri e con i Miriapodi. Durante la raccolta di questi piccolissimi Insetti, il G. rinvenne nel terreno un aracnide, che battezzò Koenenia mirabilis, i cui caratteri morfologici, confrontati con quelli dei gruppi fino allora noti, ne suggerirono l'attribuzione a un ordine nuovo appositamente creato: una scoperta d'alto interesse per l'aracnidologia, secondo il giudizio che ne diede T.T. Thorell, il maggiore esperto in materia (in collab. con S. Calandruccio, Intorno ad un nuovo aracnide Artrogastro (Koenenia mirabilis) che crediamo rappresentare un nuovo ordine (Microtelephonida), in Il Naturalista siciliano, IV [1885], 6, pp. 127-133; 7, pp. 162-169). Thorell poi ribattezzò l'ordine in Palpigradi.
Uno dei maggiori interrogativi sollevati dalla teoria dell'evoluzione concerne l'origine del polimorfismo e quindi della formazione delle caste negli Insetti sociali con la trasmissione, da parte delle coppie reali sessuate, di caratteri in loro assenti agli individui neutri, soldati e operai. Si affacciavano poi altri problemi, come quello legato alle coppie reali di sostituzione, sul quale si erano affrontate opinioni discordi di biologi quali F. Müller, W. Jhering e H.A. Hagen. Per dare una risposta definitiva al quesito si rendevano necessarie osservazioni protratte, che il G. iniziò nel periodo catanese e concluse nel successivo settennio. La citata, fondamentale memoria, tradotta anche in inglese, poté tra l'altro confermare le ipotesi del Müller contro quelle di Ch. Lespès e di Jhering (Re e regine di sostituzione nel regno delle Termiti, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 4, III [1887], 2, pp. 388-396).
In piccoli numeri ed entro nidi artificiali, a partire dall'uovo, il G. allevò individui di Calotermes flavicollis e Termes lucifugus, le due specie presenti in Italia, e indusse larve di differenti età a produrre soldati od operai o individui neotenici; sottraendo la coppia feconda dei reali provò sperimentalmente la possibilità di una loro sostituzione da parte di neotenici, allevati in modo da differenziare organi sessuali maturi. Da questi e da analoghi sperimenti suoi e d'altri autori, il G. trasse la dimostrazione che tutte le uova deposte sono equivalenti, non inizialmente predeterminate, e ritenne che nella composizione del cibo somministrato alle larve fossero presenti sostanze determinanti un certo tipo di sviluppo. Continuando la ricerca, notò che individui giovani, con organi sessuali immaturi, quando erano nutriti dagli operai con lo speciale alimento necessario per creare reali di sostituzione, perdevano i Protozoi prima presenti nel loro intestino. Tali risultati con le loro implicazioni, furono discussi e in parte corretti da esperienze d'altri autori su altre specie di Termiti, ma non furono smentiti quelli eseguiti sulle due specie citate.
Anche nel campo dell'entomologia italiana ed europea, il G. fu dunque una figura di primo piano. Nel periodo in cui procedeva alla determinazione delle specie di zanzare vettrici del parassita malarico, estese la ricerca dai Culicidi ai Phlebotomini, assai poco conosciuti e, con un lavoro durato dal 1889 al 1907, giunse a delineare precisamente la morfologia e l'ecologia delle larve, delle crisalidi e degli Insetti perfetti di specie anch'esse coinvolte nella trasmissione di malattie contagiose come la febbre da pappataci: uno studio che si rivelò particolarmente utile nell'impostazione delle cure profilattiche contro le leishmaniosi (Ricerche sui flebotomi, in Mem. di matematica e di fisica della Società italiana delle scienze (detta dei XL), s. 3, XIV [1907], pp. 353-394).
Un capitolo di grande rilievo scientifico e sociale, che fu fonte per il G. di profonda soddisfazione ma anche di amare delusioni per il mancato riconoscimento del suo primato in sede internazionale, riguarda il decisivo contributo dato allo studio della trasmissione del parassita della malaria umana.
La ricerca della patogenesi di una delle più antiche, diffuse e gravi malattie endemiche dell'uomo, propria delle aree paludose e dei paesi caldi, ha una lunga storia che comincia dall'antichità, quando Ippocrate e altri autori antichi annotarono la correlazione tra le febbri intermittenti e l'ambiente palustre, e prosegue in età moderna con G.M. Lancisi che attribuì alla puntura delle zanzare il potere di veicolare l'infezione e raccolse osservazioni e supposizioni di varia consistenza e utilità (De noxiis paludum effluviis eorumque remediis, Romae 1717). Poi le osservazioni subirono un arresto fino agli anni Ottanta del secolo XIX.
Quanto ai sintomi del morbo, era noto che la pelle degli ammalati di malaria assume un colore bruno che le ricerche anatomiche mostravano anche in alcuni organi quali il fegato, la milza e il cervello; J.F. Meckel, nel 1847, aveva messo in relazione questo aspetto con l'accumulo di pigmento ematico.
L'attribuzione alle zanzare della trasmissione della malattia fu sostenuta, con una serie di fatti da lui osservati, dal medico americano A.F.A. King nel 1883, ma non ottenne il giusto rilievo negli ambienti scientifici. Nel '78 il medico militare francese A. Laveran, in missione in Algeria, ebbe occasione di esaminare il sangue di malarici ricoverati in ospedale, trovando quei corpi estranei che studi successivi gli permisero di riferire ad organismi viventi parassiti, di una specie che chiamò Oscillaria malariae: scoperta fondamentale del 1880, che fu pienamente accettata dal mondo scientifico solo dieci anni dopo. A Roma, ove Laveran si recò nel 1882, i casi di febbre malarica erano numerosi, ma l'ambiente medico riferiva la malattia a un Bacillus malariae, secondo un'ipotesi formulata nel '79 da E. Klebs, clinico praghese, e da C. Tommasi Crudeli, anatomopatologo dell'Università di Roma. Negli anni Ottanta, infatti, gli studi sulle malattie infettive avevano compiuto decisivi progressi riconducendole a cause batteriche, e si tendeva perciò ad attribuire a questi microrganismi la patogenesi non ancora chiarita di molte malattie endemiche. Sull'interpretazione dei risultati che dovevano provare la natura parassitaria dei corpi osservati dal Laveran erano ancora scettici insigni medici della scuola romana come E. Marchiafava, anatomopatologo dell'ospedale S. Spirito e poi successore di Tommasi Crudeli, A. Celli e A. Bignami, che in seguito se ne convinsero e dal 1885 lavorarono in quella direzione, riconoscendo nell'agente patogeno un protozoo cui dettero il nome di Plasmodium, corrispondente all'Oscillaria di Laveran.
A sua volta C. Golgi, tra il 1885 e il 1886, si dedicava allo studio del Plasmodium di cui distingueva due specie, il Plasmodium malariae e il Plasmodium vivax che causano rispettivamente la quartana e la terzana, e metteva in relazione le punte massime della febbre con lo scoppio dei globuli rossi e l'uscita nel circolo sanguigno dei "merozoiti" formatisi dalla moltiplicazione dello sporozoo. Un terzo plasmodio, il falciparum, causa della febbre terzana maligna, presente nei periodi estivi-autunnali, fu distinto da Bignami e Marchiafava.
Intanto il G. e R. Feletti, nel '90, conducevano una serie di esperimenti in cui utilizzavano la colorazione con blu di metilene, per accertare l'esistenza di un nucleo in quelle cellule che, solo a condizione di possederlo, potevano con certezza essere considerate organismi viventi ed eventualmente Protozoi. In precedenza alcuni ricercatori avevano, infatti, sostenuto che le figure rilevate al microscopio dovessero essere interpretate come prodotti della disgregazione dei globuli rossi del sangue (cfr., del G., Sui parassiti della malaria, Catania 1889, e Di alcuni metodi di colorazione di parassiti della malaria, Napoli 1891). Su questo punto sorsero malintesi e disaccordi tra Golgi, che riteneva di aver già fornito la prova cercata illustrando i cicli evolutivi dei parassiti, e il G. secondo il quale potevano ancora sussistere dubbi.
Fino al '94 rimase sconosciuto il modo in cui il plasmodio passava dal corpo della zanzara al sangue umano. Come suggeriva Laveran, molti ritenevano che nell'acqua o nell'aria fossero dispersi germi del parassita liberatisi dal corpo di zanzare morte e in disfacimento, e dall'aria o dall'acqua s'infettasse l'uomo.
Incoraggiati dalla scoperta fatta nel '93 dagli americani T. Smith e F.L. Kilbourne, della trasmissione ai bovini di un parassita simile al plasmodio, causa della "febbre del Texas", da parte di una zecca, Bignami e A. Dionisi, della scuola romana, supponendo per analogia che l'inoculazione diretta dell'agente malarico potesse essere effettuata dalla zanzara, negli anni successivi ne cercarono la conferma sperimentale senza tuttavia raggiungere un risultato positivo.
In quegli anni un medico militare inglese, R. Ross, prestava servizio in paesi tropicali, dove aveva in cura malati di malaria nel cui sangue aveva riscontrato la presenza dei corpi di Laveran che, usciti dal sangue e in vitro, si modificavano emettendo dei flagelli. Sarebbero stati in seguito riconosciuti da W.G. MacCallum come i gameti del plasmodio. Da quel momento Ross, per suggerimento di P. Manson, convinto sostenitore della tesi che la malaria fosse trasmessa da una zanzara analogamente a quanto egli stesso aveva dimostrato per la Filaria Bancrofti, tentò con tutti i mezzi di cogliere l'ulteriore sviluppo di questi "corpi" nel corpo dell'insetto. Per delineare l'andamento dell'epidemiologia malarica era, infatti, necessario conoscere non i soli primi stadi ma l'intero ciclo evolutivo del protozoo. Soltanto in un caso singolo, nell'agosto 1897, Ross riuscì a seguire l'evoluzione dei parassiti fino alla loro penetrazione nella parete dello stomaco della zanzara.
Questa era probabilmente una specie di Anopheles ma, secondo il giudizio di G., tale riconoscimento non era sicuro in base alla descrizione che il Ross ne faceva basandosi sull'aspetto delle ali, macchiate o grigie, carattere insufficiente a distinguere con certezza l'uno dall'altro i generi Culex e Anopheles, dato che entrambi possono presentare ali dei due tipi. A questo punto Ross, per vari motivi, interruppe le sue ricerche sul parassita umano, mentre ebbe occasione di studiare nel '98 l'agente della malaria degli Uccelli, anch'esso descritto come Haemamoeba dal G. e da R. Feletti nel 1890, e riuscì a delinearne l'intero ciclo di sviluppo nel corpo della zanzara Culex pipiens e dell'uccello. Alla fine di luglio Ross annunciò di aver dimostrato che un parassita simile a quello della malaria umana, il Proteosoma, si sviluppa nel corpo della zanzara ed è trasmesso con il suo morso agli Uccelli. Aggiunse che dopo questo risultato era stata ormai trovata la chiave per tracciare il decorso del parassita malarico dell'uomo, che quasi certamente segue il modello di sviluppo del Proteosoma, anche negli stadi ulteriori che egli non aveva potuto precisare. Ma, come ebbe a rilevare il G. nelle polemiche sul merito di Ross e sul proprio contributo, egli rinunciò a continuare su quella strada poiché "ogni caso speciale deve essere oggetto di studio speciale, e dall'uno non è permesso di passare all'altro quando si vuole avere la certezza del fenomeno che si studia". Per lunga esperienza egli sapeva che le inferenze per analogia sono prive di valore.
Tra il 1887 e il '91 il G. con Feletti aveva eseguito a Catania qualche osservazione su zanzare del genere Culex senza esito, tanto da abbandonare l'ipotesi stessa della trasmissione da parte di quegli insetti. Ma poi, nel luglio '98, aveva ripreso la ricerca con uno studio sistematico per isolare la specie di zanzara responsabile della diffusione del plasmodio umano. Muovendo dalla convinzione che non poteva essere lo stesso trasmettitore della malaria degli Uccelli, perché esistevano luoghi in cui era presente la malaria umana e non quella aviaria, e luoghi con malaria aviaria e non umana, il G. rilevò come non si verificasse mai malaria umana in assenza di zanzare, ma esistessero località indenni pur in presenza di esse. Cercò dunque di circoscrivere le specie presenti solo nelle zone malariche per poi procedere ai confronti.
Le memorie di E. Ficalbi sulla sistematica e sulla biologia delle specie italiane di zanzara, uscite nel '96, permisero al G. di identificare le specie nelle quali s'imbatteva, mentre il metodo d'isolamento delle specie sospette e della comparazione gli apriva la via al risultato definitivo. Risultavano particolarmente indiziate le specie del genere Anopheles, pur essendovi zone malariche anche là dove queste zanzare erano scarse. La specificità di trasmissione derivava dalla specificità del parassitismo e fu questo principio, cui fedelmente si atteneva il G. nella sua straordinaria competenza di zoologo, a permettergli di arrivare dove i confusi tentativi empirici del Ross non avevano potuto approdare. Soltanto nell'ambiente biologico costituito da un determinato genere di zanzare le specie malarigene di plasmodio potevano chiudere il proprio ciclo vitale.
Nel '98 era giunto a Roma R. Koch che riteneva di essere molto vicino alla soluzione, così che il G. si affrettò a concludere il proprio lavoro e, dopo aver pubblicato in settembre una nota con i primi risultati per i quali si rendevano sospette tre specie di zanzare, l'Anopheles claviger, il Culex penicillarium e il Culex malariae, si associò a Bignami e G. Bastianelli, attivi nell'ospedale di S. Spirito, per verificare sui pazienti quale zanzara con la sua puntura provocasse la malaria. Koch, tornato a Roma nell'agosto, si era espresso apertamente sul genere da lui ritenuto sospetto, ed escludeva l'Anopheles claviger perché presente nel Grünewald, presso Berlino, dove non erano mai stati segnalati casi di malaria. La categorica affermazione del Koch scosse le certezze del G., riconfermate però quando, il 1° novembre di quell'anno, ottenne il primo caso di infezione malarica con la puntura di Anophelesclaviger su un uomo sano e, un mese dopo, insieme con i suoi collaboratori, rinvenne parte del ciclo del plasmodio nell'anofele. Nei mesi seguenti con esperimenti clinici e di laboratorio, molto precisi e controllati, il gruppo del G. riuscì a trasmettere per mezzo di zanzare Anopheles (claviger e bifurcatus) il parassita e la malaria da malato a sano (La malaria propagata per mezzo di peculiari insetti, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 5, VII [1898], pp. 234-240; Coltivazione delle semilune malariche dell'uomo in Anopheles claviger Fabr., ibid., pp. 313 s., in collab. con A. Bignami e G. Bastianelli).
A questa ricerca medica, nello stesso periodo, il G. affiancò un lavoro impegnativo per l'identificazione di tutte le specie di Anopheles, di cui studiò morfologia, costumi e condizioni ambientali di sviluppo, completando la descrizione del ciclo del plasmodio e localizzando nel corpo dell'Anopheles l'evento della fecondazione. Stabilì che la malaria umana in Italia è dovuta esclusivamente a tutte le specie di Anopheles presenti sul territorio e nel giugno 1899 concluse con successo un lungo e difficile cammino di ricerca.
Fin da allora in alcuni ambienti scientifici stranieri si diffuse un clima di sospetto e di dubbio sull'autenticità e verità dei risultati della scuola italiana. Dal 1900 R. Ross dette inizio alla polemica e giunse ad accusare di malafede il G. che rispose citando le date di pubblicazione dei risultati e contestando all'avversario l'insufficienza delle sue conoscenze zoologiche. Al Koch aveva invece fatto notare la sua incompetenza in campo entomologico. Il gruppo degli oppositori del G. annoverava coloro che in seguito furono insigniti del premio Nobel: oltre a Ross nel 1902, Koch nel 1905 e Laveran nel 1907. Certamente le ricerche di Ross giovarono alle successive del G., al quale indubbiamente spetta il merito di aver per primo individuato negli Anofeli il ciclo del parassita malarico.
Un insetto parassita della vite, conosciuto generalmente come Planchon (dal nome dell'ampelografo che per primo lo aveva osservato) ma con molti sinonimi, si era diffuso dall'America in Europa, Germania e Francia, in due riprese, la prima tra il 1858 e il 1862, ma circa venti anni dopo in Italia, e la seconda dal '75 all'87, causando una grave malattia che distrusse gran parte dei vigneti. Per fronteggiare l'evenienza, il ministero dell'Agricoltura istituì un Osservatorio antifillosserico a Fauglia, vicino Pisa, affidando ai botanici L. Petri e G. Cuboni lo studio istologico e batteriologico delle viti attaccate, e le ricerche zoologiche al G. che, con la sua collaboratrice Anna Foà, cercò di precisare il ciclo di sviluppo dell'insetto. Come di consueto, il G. ricorse a una ricerca faunistica comparata su specie vicine, quali il parassita della quercia, la Phylloxera Italica e la Phylloxera confusa, del leccio, la Phylloxera ilicis, specie poi intestate al suo nome, e la Phylloxera populi del pioppo. Proseguiva così e portava a termine i lavori che F. Franceschini aveva intrapreso in Italia settentrionale, mentre altri zoologi europei, come C. Börner, conducevano analoghi approfondimenti. Proseguì il lavoro in Sicilia: a Messina, con R. Grandori e M. Topi, e a Palermo da solo.
Lo straordinario polimorfismo, morfologico ed etologico, infraspecifico della fillossera, con individui anomali intermedi e differenze nello stesso biotopo, poneva molti problemi che il G. e i suoi collaboratori affrontarono con esperienze di laboratorio e in aperta campagna, fino a delineare uno schema generale del ciclo di sviluppo, nelle sue numerose variazioni. Furono rilevate tutte le differenze che distinguono i parassiti della vite europea da quelli della vite americana, fu dimostrato che la vite europea ospita solo generazioni di femmine radicicole, cioè ipogee, e mai aeree, produttrici di galle sulle foglie. La sopravvivenza della fillossera europea sarebbe affidata alle sole riproduzioni partenogenetiche, con disseminazione delle neonate sul terreno dei vigneti: mancherebbe quasi del tutto l'uovo d'inverno derivato da gamia, e ciò senza mostrare affievolimento nella prolificità, come invece sostenevano altri autori che ritenevano biologicamente negativa tale condizione. Si rese in tal modo possibile distinguere, fin dalla schiusa dell'uovo, le forme aeree dalle ipogee sulla base di caratteri esterni, mentre fu riconosciuto che le forme alate si modificano per effetto di fattori esterni. Osservazioni, quelle citate, di decisiva importanza teorica e pratica, dato che la diffusione del parassita avviene in dipendenza delle sue capacità di spostamento. Queste conoscenze servirono a chiarire le relazioni esistenti tra modalità del ciclo della Phylloxera e resistenza della vite americana ai suoi attacchi e portarono a definire il miglior modo di condurre la lotta con l'innesto delle viti europee, dalle foglie inospiti per le larve gallecole, su quelle americane, resistenti all'infezione ipogea.
Nel corso della ricerca il G. mise in luce, momentaneamente accantonandoli, per l'urgente necessità di dedicarsi alla soluzione pratica del problema, anche quegli aspetti teorici che andavano presentandosi. Le indagini sulla fillossera comunque non si conclusero con il volume monografico, frutto di sette anni di lavoro (in collab. con A. Foà, R. Grandori, B. Bonfigli, M. Topi, Contributo alla conoscenza delle fillosserine ed in particolare della fillossera della vite, Roma 1912), ma continuarono fino al 1924 per chiarire se e quante fossero le specie, oppure le razze di un'unica specie, all'interno del genere. La scuola italiana del G., come quella francese di P. Maillet, alla fine ritenne di non dover riconoscere, a differenza della scuola russa e di quella tedesca di C. Börner, più di una razza all'interno della specie Phylloxera vastatrix.
Costituito per iniziativa della Società per il progresso delle scienze con legge del 1910 un Comitato talassografico per lo studio dei mari italiani, progetto vagheggiato da numerosi zoologi tra i quali il valente talassobiologo E. Giglioli, il G. ne assunse la presidenza con l'intento di incrementare gli studi di biologia e di contribuire al progresso dell'industria ittica nel Mediterraneo. Unica istituzione presente in Italia per studiare morfologia, fisiologia ed ecologia della flora e della fauna marine era la stazione zoologica di Napoli. Già da alcuni anni, fra il 1891 e il '98, aveva studiato un gruppo di Pesci il cui ciclo di sviluppo era sconosciuto, sebbene oggetto di ricerca e di congetture da parte di molti. In particolare era difficile scoprire dove e come avvenisse la riproduzione delle anguille, di cui non si conoscevano le uova mature, gli individui maschi con testicoli maturi, e gli stadi giovanili, o avanotti. Lo scienziato danese G.C. Petersen metteva a punto, nel '93, alcuni dati circa l'aspetto delle anguille che, usualmente di colore giallo, diventano nere con il ventre argenteo quando sono in procinto di calare al mare e cessano di nutrirsi. Il G. intendeva anche verificare se a quegli organismi che taluni consideravano Pesci, chiamati leptocefali, potesse attribuirsi la caratteristica del cosiddetto sviluppo "paranomale", quando il corpo trasparente si rigonfia notevolmente, senza aumento e sviluppo dei visceri, e successivamente degenera e muore. Il fatto veniva addotto dagli evoluzionisti a prova delle loro tesi. Il G. sempre impegnato a provare sperimentalmente le teorie circolanti nel mondo scientifico, riuscì ad allevare alcuni leptocefali seguendone la trasformazione in murenoidi, gronghi o serpi marine, e dimostrando così l'inconsistenza di questa eventuale prova a favore dell'evoluzione. Del Leptocephalus brevirostris, scoperto nel '56 da J.J. Kaup e ritenuto una specie distinta di pesce, seguì, nell'acquario del suo laboratorio di Catania, nel '96, la trasformazione in anguilla (Anguilla vulgaris) dapprima di piccole dimensioni e non ancora dotata di vista, la cosiddetta cieca, poi adulta, da identificare con l'anguilla comunemente nota. La prova dal vivo era stata preceduta da riscontri anatomici tra il Leptocephalus e la cieca. La sua indagine sui Murenoidi non si fermò e si estese a tutte le specie di Murenoidi del Mediterraneo, dei quali identificò le larve e scoprì la singolare metamorfosi. Lo studio delle cieche - le dimensioni, le epoche di trasformazione e di risalita dei fiumi da parte degli individui adulti - gli permise di suggerire alcune modifiche dei divieti di pesca, basati sulle misure delle piccole anguille.
Il tema delle anguille doveva poi ampliarsi con la ricerca di un altro zoologo danese, col quale il G. ebbe scambio proficuo di corrispondenza, J. Schmidt che cercò nell'Atlantico, in profondità e in superficie, le larve di anguille, trovandole sempre più piccole quanto più i territori di pesca erano vicini all'area delle Bermude e traendone l'ipotesi che tutte le anguille viventi nelle acque dolci dei paesi europei e americani vadano a copulare nel lontano mare dei Sargassi, donde poi le neonate tornerebbero ai luoghi d'origine delle coppie genitrici.
Anche su questo argomento il G. cercò di dare una apporto risolutivo, ma i tentativi di allevare anguille e trattenerle in cattività nel tempo della maturazione sessuale non dettero risultati e neppure fu possibile rinvenire le loro uova. Il G. continuò a ritenere che questi Pesci, iniziato il digiuno, ma ancor lontani dalla maturazione sessuale, migrino nelle profondità marine e restino sui fondali fino a sessualità raggiunta e poi, riprendendo a nutrirsi, facciano ritorno agli ambienti originari.
Dopo la parentesi di lavoro dedicato alla fillossera, dal 1917 il G. tornò al problema malarico scegliendo come area idonea alle sue osservazioni ed esperienze la località di Fiumicino, presso Roma, dove la malattia faceva molte vittime, e costituendovi una stazione antimalarica. Per la conoscenza minuta degli anofeli l'indagine si svolse a tutto campo e coinvolse lo studio della vegetazione di palude con la collaborazione dei botanici V. Carano, A. Béguinot e G. Zanoni, l'osservazione etologica con l'aiuto dell'allievo M. Sella, e la ricerca fisiologica sulle abitudini alimentari e gli organi di senso. Il G. giunse a supporre che alcune razze di anofele non pungessero l'uomo ma altri Mammiferi domestici, e sul tema dell'anofelismo senza malaria iniziò una ricerca che altri avrebbero concluso.
Come ritenevano anche i medici romani e in particolare Celli, impegnati nella lotta antimalarica, era necessario muoversi in due direzioni, contro il parassita e contro il suo vettore. E poiché era stato dimostrato che gli anofeli non sono infetti nel periodo tra gennaio e giugno, era evidente che fosse l'uomo il depositario del germe per la nuova stagione e che pertanto fosse necessario curare con scrupolo gli ammalati per debellare la malattia, in particolare con cure profilattiche. Ma la lotta antimalarica doveva essere integrata da altri provvedimenti perché la sola lotta agli Anopheles nell'Agro romano non aveva dato effetti duraturi. Si richiedevano cospicue risorse umane ed economiche, per la bonifica delle zone paludose, per la distribuzione dei farmaci a popolazioni indigenti, come profilassi nei periodi interepidemici, per la difesa meccanica dalle zanzare mediante reti metalliche alle finestre, suggerita dallo stesso G., e infine per la soluzione di inveterati problemi sociali e ambientali. L'opposizione a un intervento sul territorio, dei proprietari dei latifondi, in particolare nel Mezzogiorno, che ottennero anche appoggi politici, limitò spesso la lotta alla chinizzazione, cioè alla sola sterilizzazione sull'uomo.
Il G. attuò praticamente la difesa antimalarica con sistemi meccanici e di bonifica in una serie di primi interventi di cui diede conto nella Relazione dell'esperimento di preservazione dalla malaria fatto sui ferrovieri nella piana di Capaccio sotto la direzione del prof. B. Grassi, Milano 1901, e con la stazione malarica a Fiumicino dove operò fino all'anno della sua morte.
Nel 1911 fu incaricato dalla R. Accademia dei Lincei di dare il suo contributo di storico alle pubblicazioni di diversi autori per celebrare i primi cinquant'anni di unità nazionale, nella raccolta Cinquant'anni di storia italiana (1860-1910), sotto gli auspici del governo e dell'Accademia dei Lincei. Ne risultò un lavoro di ampia mole (I progressi della biologia e delle sue applicazioni pratiche conseguiti in Italia nell'ultimo cinquantennio, Roma 1911) che ripercorreva in tutti i campi della biologia e della medicina l'opera di ricerca e di sintesi condotta dagli scienziati italiani nel periodo considerato, e metteva in evidenza il movimento delle idee e lo sviluppo delle singole discipline, con un tacito intento di incoraggiamento all'impegno scientifico rivolto ai giovani studiosi.
In La vita. Ciò che sembra ad un biologo (Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 6, II [1906], pp. 219-239), il G. riassunse le sue convinzioni sui fatti che aveva indagato sperimentalmente, in particolare sul tema dell'evoluzione che aveva acceso speranze, provocato dibattiti e speculazioni teoriche e aperto nuove prospettive alla ricerca biologica nella seconda metà dell'Ottocento. Dopo decenni di intensi studi, molte sicurezze si erano attenuate e la base dei fatti si rivelava meno solida: "Penso che oggi ci convenga lasciare l'origine delle specie perduta nella notte dei tempi", scriveva; "anche ammettendo che le specie si siano evolute ci resta solo da mettere in rilievo i rapporti morfologici tra esseri vivi senza pretendere di fare l'albero genealogico", perché "non siamo arrivati a renderci concepibile il processo dell'evoluzione"; e concludeva "non potremo almeno intuire qualcosa che ristori l'ardente nostra sete di finalità?". Sembrerà poi allontanarsi da questo atteggiamento finalistico quando nel commento L'interpretazione di Giglio-Tos dei fatti fondamentali della vita (Ciriè 1925) si avvicinerà alle vedute materialistico-meccaniciste sulla vita.
Se il G. non ottenne il premio Nobel ebbe però molti riconoscimenti e onori. Il 3 giugno 1908 fu anche nominato senatore del Regno. Nella ricorrenza del suo settantesimo anno d'età e quarantesimo d'insegnamento gli allievi raccolsero una somma per promuovere la nascita di una Fondazione, a lui intitolata, per gli studi zoologici delle malattie parassitarie.
Opere: Una completa bibliografia del G. si trova nella commemorazione di M. Fedele e A. Pazzini del 1935. Qui ricordiamo le opere più importanti oltre quelle citate nel testo: Nuove ricerche sulle Termiti, in Bull. della Soc. entomologica italiana, XIX (1877), pp. 75-80; Intorno all'Anchilostoma duodenale, Pavia 1878 (in collab. con C. ed E. Parona), Intorno a una nuova malattia del gatto, analoga alla clorosi d'Egitto dell'uomo, in Giorn. di anatomia, fisiologia e patologia degli animali, X (1878), pp. 349-358; Sovra l'anguillula intestinalis (Rabdonema strongiloides), in Rendiconti del R. Ist. lombardo di scienze lettere e arti, XII (1879), 2, pp. 228-233; Intorno ad alcuni Protisti endoparassitici ed appartenenti alla classe dei Flagellati, Lobosi, Sporozoi e Ciliati, in Atti della Soc. italiana di scienze naturali, XXIV (1882), pp. 1-54; I progenitori degli Insetti e dei Miriapodi, I, Morfologia delle Scolopendrelle, in Mem. della R. Acc. delle scienze di Torino, s. 2, XXXVII (1886), pp. 593-624; II, L'Japix e la Campodea, in Atti dell'Accademia Gioenia, s. 3, XIX (1886), pp. 1-128; III, Contribuzione allo studio dell'anatomia del genere Machilis, ibid., pp. 101-128; IV, Cenni anatomici sul genere Nicoletia, in Bull. della Soc. entomologica italiana, XVIII (1886), pp. 173-180; VI, Il sistema dei Tisanuri fondato soprattutto sullo studio dei Tisanuri italiani, in Il Naturalista siciliano, IX (1886), 2, pp. 25-41; 3, pp. 53-68; 4, pp. 77-87; 5, pp. 105-124 (in collab. con G. Rovelli); VII, Anatomia comparata dei Tisanuri e considerazioni generali sull'organizzazione degli Insetti, in Mem. della R. Acc. dei Lincei, s. 4, IV (1888), pp. 543-606; Come la tenia nana arrivi nel nostro organismo. Nota preliminare, in Giorn. di anatomia, fisiologia e patologia degli animali, XIX (1887), 3, pp. 153-155; Morfologia e sistematica di alcuni Protozoi parassiti. Nota preliminare, in Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, s. 4, VI (1888), 1, pp. 5-12; Re e regine di sostituzione nel regno delle Termiti, in Boll. della Soc. entomologica italiana, XX (1888), pp. 139-147; Parassiti malarici degli Uccelli. Classificazione dei parassiti malarici. Corpi flagellati, in Atti dell'Accademia Gioenia, III (1891), 18, pp. 1-14 (in collab. con R. Feletti); Ricerche embriologiche sui Cestodi, ibid., IV (1892), pp. 1-108 (in collab. con C. Rovelli); Le Leptocefalide e la loro trasformazione in Murenide, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 5, I (1892), 1, pp. 375-379 (in collab. con S. Calandruccio); Ulteriori ricerche sui Leptocefali, ibid., s. 5, II (1893), 1, pp. 450-452; Sullo sviluppo dei Murenoidi, ibid., V (1896), 1, pp. 348 s.; The reproduction and metamorphosis of the common Eel (Anguilla vulgaris), in Proceed. of the Royal Society of London, LX (1896), pp. 262-271; Il ciclo evolutivo degli emosporidi, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 5, VII (1898), 2, pp. 308-313 (in collab. con A. Dionisi); Osservazioni sul rapporto della seconda spedizione malarica in Italia, presieduta dal prof. Koch, I, ibid., VIII (1899), 2, pp. 193-203; II, ibid., pp. 223-230; Propagazione delle filarie del sangue esclusivamente per mezzo della puntura di peculiari zanzare, ibid., IX (1900), 2, pp. 157-162 (in collab. con G. Noè); Studi di uno zoologo sulla malaria, Roma 1900; Aggiunte all'opera Studi di uno zoologo…, Roma 1902; A proposito della storia delle recenti scoperte sul modo di trasmissione della malaria… Aggiunte all'opera Studi di uno zoologo…, Milano 1903; Relazione dell'esperimento di profilassi chimica contro l'infezione malarica fatto ad Ostia nel 1901, ibid. 1902 (in collab. con altri); Contribuzione allo studio dello sviluppo dei Murenoidi, in Memorie del R. Comitato talassografico italiano, I (1910), pp. 1-15; Intorno ai Protozoi dei Termiti, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 5, XX (1911), pp. 725-741 (in collab. con A. Foà); Il ministero dell'Agricoltura di fronte alla scienza, Roma 1912; Contributo alla conoscenza delle uova e delle larve dei Murenoidi, in Mem. della R. Acc. dei Lincei, s. 5, X (1914), pp. 37-43; Quel che si sa e quel che non si sa intorno alla storia naturale dell'anguilla, in Memorie del R. Comitato talassografico italiano, XXXVII (1914), pp. 1-50; Flagellati viventi nelle Termiti, I, in Mem. della R. Acc. dei Lincei., s. 5, XII (1917), pp. 331-394; Riassunto di una memoria riguardante la storia naturale dell'Anguilla, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, XXVIII (1919), 1, pp. 313-319; Osservazioni sulla vita degli Anofeli, 1, ibid., XXIX (1920), 2, pp. 307-313; 2, ibid., pp. 339-344; Twenty-five years after. A chronicle of the discoveries relating to the mode of the transmission of human malaria, in Parasitology, XVI (1923), pp. 355-364; Nuovi contributi alla biologia degli Anofeli, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 5, XXXII (1923), 1, pp. 373-375, 438-442; Sperimenti sulle presunte diverse razze o specie di fillossera della vite, ibid., XXXIII (1924), 1, pp. 47-52 (in collab. con M. Topi); Contro la malaria nell'Agro Pontino, in L'Avvenire sanitario, XIX (1925), 13.
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