FRULLI, Giovanni Battista
Nacque a Bologna nel 1765 da Giuseppe e da Elisabetta Toselli, figlia di Giovanni Battista, noto intagliatore. Fonte principale per la conoscenza della vita del F. è l'autobiografia manoscritta (Bologna, Biblioteca comunale, ms. B 3936), databile entro il 1818 per la prima parte e attorno al 1833 per la seconda.
L'opera è un originale documento che, oltre a offrire uno spaccato vivace della vita quotidiana durante i rivolgimenti politici d'età giacobina, presenta l'interpretazione accettata dall'accademia dell'evoluzione estetica dei primi decenni dell'Ottocento.
Avviato dal padre agli studi umanistici, che condusse sino al secondo livello previsto dall'ordinamento delle scuole dei barnabiti (Biagi Maino, 1990, p. 75), il F. poté frequentare, poco più che decenne, lo studio del prozio N. Toselli, scultore, dove si esercitò nel disegno da stampe, da calchi e dai disegni dei maestri. Quindi ottenne di frequentare l'atelier del pittore Ubaldo Gandolfi. Attorno al 1778-79, avviando anche la frequenza dei corsi dell'Accademia Clementina di pittura, scultura e architettura, il F. si esercitò sui disegni del Gandolfi stesso; e, se nell'autobiografia ricorda in termini di assoluta problematicità il rapporto con il maestro (Zanotti, 1927), i risultati ottenuti ai concorsi Fiori dell'Accademia attestano di un alunnato fruttuoso, fervido di conseguenze. Dalle accademie di nudo tuttora conservate (Bologna, Accademia di belle arti: Biagi Maino, 1990, p. 79) che gli concessero nel 1782 e nell'anno successivo la vittoria del premio Fiori, risulta, infatti, evidente la riflessione sulla bella maniera del Gandolfi. Il F. aveva già partecipato al concorso clementino Marsili Aldrovandi con disegni d'invenzione (smarriti), ottenendo la vittoria per la seconda e la prima classe di figura nel 1780 e nel 1781 (Bologna, Biblioteca comunale, ms. B 106: M. Oretti, Cronica o sia Diario pittorico, cc. 104, 110). Il F. mostra di volersi in parte affrancare dagli insegnamenti del Gandolfi nelle prove premiate negli anni 1784 e 1785 (Bologna, Accademia di belle arti: Biagi Maino, 1990, p. 81), dove è evidente la sua attenzione all'antiquaria. Conobbe l'arte antica attraverso la copia dalle incisioni della collezione del conte C.M. Gini e lo studio sui calchi della galleria delle Statue della Clementina che frequentava pressoché in solitudine cercando di impadronirsi del segreto della "lindura de' contorni, la semplicità della mossa e la nobiltà de' caratteri" per farne elementi caratterizzanti del suo linguaggio, come specifica nell'autobiografia.
Questa aspirazione fu in parte frenata dalla necessità di alternare gli studi con l'adesione, dietro pressante richiesta del padre, a un genere economicamente fruttuoso, il ritratto in miniatura. Delle tante opere che il F. ricorda nel suo catalogo nessuna è stata sinora riconosciuta: nessuna delle effigi di nobili bolognesi, dei personaggi dell'élite filonapoleonica di fine secolo, di tenori, musici, cantatrici già di pieno Ottocento (Biagi Maino, 1990, p. 721). Alla stessa maniera, non sono stati riconosciuti i ritratti su tela, che furono numerosi e tra i quali doveva spiccare quello di Napoleone per la Municipalità di Comacchio. L'incisione di Mauro Gandolfi con il ritratto di Francesco Albergati, tratta da un'invenzione del F. del 1800 (Longhi - Zucchini, 1935, p. 135), attesta la sua versatilità nel genere per l'intelligenza d'ideazione nella scelta compositiva; di carattere è anche il Doppio ritratto di fanciulli della Pinacoteca di Imola, che sulla scorta del confronto con un foglio firmato con Due chierichetti della bolognese Accademia di belle arti è stato attribuito al pittore (Biagi Maino, 1990, p. 720).
Non si conoscono i pastelli che il F. eseguiva già nel nono decennio del Settecento, quando realizzò anche copie da celebrati dipinti: in miniatura, almeno due versioni da Venere e Amore di A. Tiarini, una per il duca di Curlandia, più volte committente, e una per il conte A. Savioli, che gli fu pagata nel 1786 (come da ricevuta: Bologna, Biblioteca comunale, Coll. autogr., C 21. 662); in grande dimensione, a olio su tela, copie da Correggio e G. Reni, come ricorda nell'autobiografia. Le uniche prove certe che gli si riconoscono sono nel più ambizioso campo della pittura su muro, testimonianze del suo talento e degli esiti di tanta diligenza e studio ivi compresa la riflessione sulle pitture di Parma durante un soggiorno, seguito da un altro a Firenze, ove lavorò anche in qualità di restauratore per il marchese Taccoli. Il F. stesso ricorda numerose commesse, dapprima dei fratelli Cesare e Giovanni Lambertini (che pure lo invitarono a seguirli a Roma, come pittore di famiglia: ma per ragioni di salute dovette rinunciare), poi di Antonio Gnudi, dei Buratti, dei Conti, quindi degli Hercolani.
Non è possibile riconoscere i due interventi che eseguì nel luogo topico della cultura pittorica di fine secolo, il palazzo nazionale (oggi palazzo comunale) della Repubblica Cispadana: le scarne informazioni che il F. ha tramandato e il fatto che il suo nome non compaia negli inventari di spesa del 1797 (neppure in collegamento con quello dell'ornatista P. Fancelli, del quale fu collaboratore: Ceccarelli, 1997), non concedono di accettare per certa la proposta dello Zucchini (1938), che gli assegnava alcune pitture, mancando il conforto di elementi di stile, poiché tutta la decorazione subì pesanti rimaneggiamenti durante la Restaurazione; la descrizione dell'autobiografia sembra corrispondere a quella di un'altra saletta, l'ultima dell'ala vidoniana. La precisa citazione, invece, di P. Bassani (1816), permette finalmente di accostare la sua pittura nella sala dei Poeti greci del palazzo di F. Hercolani. Entro la raffinata quadratura del dotatissimo S. Barozzi, cui è registrato il saldo del compenso al 1803 (Riccomini, s.d.), il F. effigiò Apollo e le Muse e ai lati minori la Fama e altra figura allegorica, dimostrando un talento controllato sull'eleganza delle forme, povero di brio ma non di diligenza; e se la scelta d'invenzione fu dello stesso Barozzi, come afferma, polemico, il più giovane pittore, la resa dei personaggi va a lui restituita. Brevemente si cita la più importante, ai suoi occhi, delle operazioni nel genere, peculiare anche per questioni di tecnica (secondo quanto emerge dall'autobiografia), la decorazione all'antica della galleria del palazzo del principe C. Lambertini, che fu scialbata per dar luogo alle invenzioni di F. Giani da F. Baciocchi, proprietario del palazzo già Ranuzzi (oggi di Giustizia), nel nuovo secolo; restano invece, finalmente intatte, le pitture del palazzo arcivescovile, una commessa affidatagli dal cardinale C. Opizzoni. Il F. informa sui soggetti eseguiti alle pareti e ai soffitti della biblioteca, ultimata nel 1826, della sala del Biliardo (1825), dello studio dell'Opizzoni (1824), secondo un programma iconografico di immediata recepibilità - e fu di scandalo per il pittore che il cardinale invertisse la destinazione d'uso delle ultime due stanze (Biagi Maino, 1997) - e nei termini di uno stile condotto sui grandi modelli del passato, inesausta fonte di interesse per un artista che condivise con P. Pelagi, algido referente coevo, l'aspirazione a un ideale di bellezza che si traduce in pittura composta, pausata, classicheggiante, fondata sulla correttezza del disegno.
Del F. pittore, infine, si ricordano l'attività nel cimitero Monumentale della certosa di Bologna, per cui eseguì eleganti disegni preparatori (Matteucci, 1975; Cazort, 1982); mentre risultano disperse le prove di soggetto sacro, la pala eseguita per i Ss. Pietro e Marcellino entro il 1792 e quella commessagli nel 1817 per S. Lucia (Bianconi, 1826, p. 117).
Il F. fu anche incisore: sono note un'acquatinta dal Parmigianino, stampe da dipinti del Guercino della galleria di R. Hoare (Gaeta Bertelà - Ferrara 1974, nn. 294 s.); egli inoltre ricorda di aver apprestato per l'incisione più soggetti aulici, dai fregi di palazzo Leoni di Niccolò dell'Abate a quelli dei Carracci di palazzo Magnani (Frulli - Cenestrelli, 1835), promuovendosi anche in questi termini custode delle memorie del passato. Lo era divenuto per volontà di G. Bossi che lo aveva nominato professore di elementi di figura presso l'università, un incarico che lo condusse a redigere per l'istituzione l'inventario dei libri di pertinenza della sua materia (una copia del manoscritto, dell'agosto del 1807, si conserva presso la Biblioteca universitaria di Bologna, ms. 2191); l'incarico dottorale gli fu quindi affidato anche nella Pontificia Accademia di belle arti, e gli derivò il riconoscimento del periodo trascorso presso l'Accademia di S. Luca a Roma nel 1822 (Missirini, 1823: diploma conservato a Bologna, Biblioteca comunale, Coll. autografi Pallotti, VI, 378), a suggello di una intensa attività didattica svolta nel suo atelier.
Nella sua bottega diresse la pulitura e il restauro della S. Cecilia di Raffaello, già requisita per il Museo napoleonico di D.-V. de Denon. Tale operazione comportò presso l'atelier del F. anche il trasporto del dipinto da tavola su tela; le cattive condizioni del quadro, tornato da Parigi "offuscato" e in alcuni punti lacunoso, sono ricordate nella sua autobiografia.
Il F. morì a Bologna nel 1837.
Fonti e Bibl.: Lettere varie del F. a Bologna, Biblioteca comunale, Coll. autogr., C 23387; LXXXIV 21662; CXIV 24872; e diversi suoi autografi in Archivio di Stato di Milano, cart. 99, fasc. 32; Le pitture di Bologna…, Bologna 1792, p. 164; P. Bassani, Guida agli amatori delle belle arti…, Bologna 1816, p. 207; M. Missirini, Memorie per servire alla storia della Romana Accademia di San Luca, Roma 1823, p. 478; G. Bianconi, Guida del forestiere… (1826), a cura di G. Roversi, Bologna 1973, pp. 6, 117; G.B. Frulli - E. Petroni, Collezione di pitture vendibili…, Bologna 1833; G.B. Frulli - G. Cenestrelli, Il fregio della sala Magnani…, Bologna 1835; G. Bosi, Manuale pittorico felsineo, Bologna 1859, p. 32; G. Zanotti, in Il Resto del carlino, 5 genn. 1927; R. Longhi - G. Zucchini, Mostra del Settecento bolognese, Bologna 1935, p. 135; G. Zucchini, Catalogo delle collezioni comunali d'arte, Bologna 1938, p. 249; L. Bianchi, I Gandolfi, Roma 1936, p. 95; C. Ricci - G. Zucchini, Guida di Bologna, a cura di A. Emiliani, Bologna 1968, pp. 62, 185; G. Gaeta Bertelà - S. Ferrara, Incisori bolognesi ed emiliani del sec. XVIII, Bologna 1974, nn. 294 s., 317; G. Roversi, in G. Cuppini, I palazzi senatori a Bologna, Bologna 1974, p. 301; A.M. Matteucci, Monumenti funebri d'età napoleonica alla certosa di Bologna, in Psicon, 1975, n. 4, p. 73; C. Colitta, Il palazzo comunale detto d'Accursio, Bologna 1980, p. 186; M. Cazort, in Id. - C. Johnston, Bolognese drawings in North American collections (catal.), Ottawa 1982, p. 155; D. Biagi Maino, Le memorie autobiografiche di G.B. F. La pittura a Bologna prima e dopo la rivoluzione francese, in Il Carrobbio, XVI (1990), pp. 74-86; Id., in La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1990, pp. 720 s.; O. Bergomi, Gli appartamenti del cardinale Opizzoni nell'Arcivescovado di Bologna, in Il Carrobbio, XVIII (1992), pp. 46 s., 49, 53; D. Biagi Maino, Accademie di figure. Il secondo Settecento a Bologna, in Poiein, 1994, n. 10, p. 59; E. Riccomini, Il palazzo Hercolani, Cento s.d.; D. Biagi Maino, Forme del sacro, storia dell'arte e storia moderna: intersezioni e confronti, in Storia della Chiesa di Bologna, II, Bergamo 1997, p. 424; A.M. Matteucci, in La certosa di Bologna. Immortalità della memoria, Bologna 1998; E. Bagattoni, in Pittori e pittura dell'Ottocento italiano, Novara 1998; F. Ceccarelli, Architetture di stato per Bologna, "centrale" della Repubblica Cispadana (marzo-maggio 1797): progetti e decorazioni, in Atti del convegno di studi, Bologna 1997, in corso di stampa; D. Biagi Maino, La formazione dell'artista tra bottega ed accademia, in L'educazione dell'uomo e della donna nel Settecento. Atti del VII colloquio italo-francese (Torino 1997), in corso di stampa; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XII, Leipzig 1916, p. 536.