ELIANO, Giovanni Battista
Nacque a Roma nel 1530 da Ḥanah, figlia del celebre grammatico e lessicografo Elia Levita, e da Yitzchaq ben Yeḥiel Boemo e, proprio in onore del nonno materno, gli fu posto nome Elia. All'età di sette anni nel 1537, come egli stesso ci riferisce nella Autobiografia, si trasferì a Venezia, per proseguire, sotto la direzione del nonno Elia Levita, che vi si era stabilito nel 1528, gli studi tradizionali nei quali si era dimostrato un allievo più che promettente tanto che già conosceva "molti salmi et gran parte de' proverbi di Salamone a mente". Nell'inverno tra il 1540 e il 1541, assieme col fratello maggiore Yosef, si recò ad Isny in Germania, al seguito del nonno invitato dall'ebraista cristiano Paolo Fagio (Paul Büchelin) in qualità di collaboratore nella sua attività di editore di testi ebraici. Ad Isny insieme con Yosef collaborò con il nonno all'edizione della sua traduzione del romanzo cavalleresco Buovo d'Antona, il Bovo-Buch, in giudeo-tedesco traslitterata in caratteri ebraici, che uscì per i tipi del Fagio nel 1541.
Nel novembre del 1541 Elia Levita, e con lui probabilmente anche i nipoti, fece ritorno a Venezia, dove nel frattempo si erano trasferiti anche i genitori di questi. Qui i due fratelli aiutarono ancora il nonno nell'attività tipografica collaborando con lui, nel 1544, all'edizione di due testi che uscirono per i tipi di Francesco Brucioli, il Sefer Rûaḥḥen di Judah ben Saul Ibn Tibbun e un commento ai versi del Libro di Giobbe attribuito allo stesso Elia Levita ma che pare esser invece opera di Sareq Barfat, un autore spagnolo del XIV secolo. In seguito la famiglia, per questioni connesse con l'attività mercantile di Yitzchaq, si trasferì a Costantinopoli e quindi al Cairo, lasciando il primogenito a Venezia. Al Cairo, scrive sempre l'E., "stessimo con isperanza di far gran profitto nelli trafichi mercantili" e proprio lì furono raggiunti da una notizia che li gettò in una profonda costernazione: la conversione al cattolicesimo di Yosef, che aveva assunto il nome di Vittorio Eliano.
Non si conoscono le circostanze e l'anno della conversione; tuttavia essa potrebbe aver avuto luogo poco dopo la partenza dei famigliari in quanto dopo il 1544 non si hanno notizie di una ulteriore collaborazione di Yosef con il nonno e, nel 1546, Cornelio Adelkind definisce il Levita "uomo privo di progenie", espressione in cui si è vista un'allusione all'apostasia del nipote.
Ad ogni modo la famiglia fece immediatamente ritorno a Venezia per tentare di far recedere Yosef dalla sua decisione e si trovavano là quando, il 5 genn. 1549, il vecchio Elia venne a morte. Fallito il tentativo, la famiglia, assieme con la vedova del Levita, riprese la via del Cairo. Da qui il giovane E. accompagnò in pellegrinaggio a Gerusalemme la nonna materna che là "voleva finir la vita" e vi si trattenne per circa un mese. Successivamente egli trascorse due anni al Cairo dove, oltre alle attività mercantili, ebbe modo di apprendere l'arabo.
Nel 1551 fece ritorno, dopo un viaggio fortunoso, a Venezia, dove riprese a frequentare il fratello Vittorio. Questi lo mise in contatto con i benedettini del monastero di S. Gregorio e soprattutto con il superiore dei gesuiti, Andrea des Freux che esercitò su di lui un influsso determinante, tanto che, dopo un periodo di dubbi ed incertezze, all'inizio del mese di settembre del 1551 l'E. chiese di esser ospitato nel collegio dei gesuiti e, il 21 dello stesso mese, ricevette il battesimo nella chiesa di S. Salvatore scegliendo di chiamarsi come il Battista, il nuovo Elia del Vangelo. Dopo il battesimo egli rimase nel collegio dei gesuiti con il proposito di entrare nella Compagnia, ottenendo l'assenso dello stesso Ignazio di Loyola grazie all'appoggio del padre des Freux. Nel Natale dello stesso anno prese i voti e rimase a Venezia fino al settembre del 1552, quando seguì a Roma il des Freux, nominato da Ignazio di Loyola primo rettore del Collegio Germanico.
A Roma l'E. ebbe modo di conoscere Ignazio di Loyola e di compiere i suoi studi di teologia e filosofia nel recentemente istituito Collegio Romano. E qui, il primo marzo 1561, dopo un prolungato periodo di studi, fu ordinato sacerdote. Pochi mesi dopo, il 2 luglio, lasciò Roma per compiere la sua prima missione fuori d'Italia, recandosi al Cairo in compagnia del padre Cristoforo Rodriguez e del fratello coadiutore Alfonso Bravo come inviato di Pio IV presso il patriarca copto di Alessandria, Gabriele VII Minchawi, per tentare di promuovere l'unione della Chiesa copta con Roma.
Tale tentativo tuttavia, nonostante gli sforzi compiuti per nove mesi dagli inviati pontifici, non sortì alcun effetto poiché il patriarca si rifiutò di accordare la sua obbedienza alla Chiesa romana tanto che l'E. stesso annotava laconicamente: "Ma non riuscì cosa alguna, il tutto fu scritto a Roma, d'onde venn'ordine che non facendosi frutto ci ritornassimo".
Il viaggio di ritorno via mare alla volta dell'Italia fu funestato da una tremenda tempesta che fece naufragare la nave non lontano dalle coste di Cipro. Scampato al naufragio, l'E. visse a Nicosia fino alla primavera del 1563, quando, durante la settimana santa, si imbarcò e raggiunse Venezia. Di qui si portò a Trento per incontrare Diego Lainez, generale della Compagnia, che partecipava al concilio, e poi fece ritorno a Roma dove riprese i suoi studi al Collegio Romano.
Dal 1564 al 1566 proseguì gli studi teologici. Nel 1565 e nel 1567 lo troviamo in qualità di professore di ebraico e di arabo nel Collegio. Dal 1568 al 1570 e poi nel 1577 risulta attivo come docente di ebraico presso la medesima istituzione. Nel 1573 fu confessore e prefetto della penitenzieria a Loreto. Tra il 1578 e il 1582 una nuova missione lo vide impegnato fuori d'Italia, questa volta nel Libano presso la Chiesa maronita. Il 25 febbr. 1578 papa Gregorio XIII, nel quadro della sua politica di avvicinamento alle Chiese orientali, inviò a Tripoli di Siria in qualità di legati, per la prima volta, dei gesuiti, l'E. e Tommaso Reggio che vi giungevano assieme al fratello laico Mario Amato il 16 apr. 1578. Da qui essi proseguirono per Qannūbīn, sede del patriarca Michael ar-Ruzzī, dove si trattennero fino al giugno del 1579, quando fecero ritorno a Roma, portando con sé diversi libri tra i quali due manoscritti contenenti una versione quasi completa della Bibbia in arabo: gli attuali codici Vat. ar. 468 e 467, di cui il primo servì da base all'edizione della Bibbia araba che venne edita dalla congregazione di Propaganda nel 1671.
L'anno successivo i due legati ritornarono in Libano e coronarono la loro missione promuovendo un sinodo che si tenne dal 15 al 19 ag. 1580 nel monastero di Qannūbīn, i cui decreti si ispiravano sostanzialmente alla legislazione e alla sistemazione teologica tridentina, segno dell'accresciuto influsso della Chiesa romana su quella maronita. Dopo il successo di questa missione, mentre si trovava ad Aleppo pronto per rientrare a Venezia, nell'agosto del 1582 l'E. venne raggiunto da lettere di Claudio Acquaviva, padre generale della Compagnia, e del cardinale di Santa Severina, Giulio Antonio Sartori, protettore dei copti, con l'ordine del pontefice di recarsi in Egitto per prendere contatti con i rappresentanti della Chiesa copta.
Dopo vent'anni l'E. faceva così ritorno al Cairo, rinnovando il tentativo di promuovere l'unione tra le due Chiese. Anche questa volta tuttavia, il suo impegno e i suoi sforzi, unitamente a quelli del confratello Francesco Sasso, non ottennero i risultati sperati. Il patriarca Giovanni al-Manfalūṭī, infatti, pur dimostrandosi inizialmente ben disposto all'unione con Roma e convocando un importante sinodo agli inizi di febbraio del 1584, si rifiutò con gli altri capi della sua Chiesa di sottoscriverne le decisioni. La morte improvvisa, il 5 settembre, dello stesso patriarca, che pareva disposto a ritornare sulle sue decisioni, fece precipitare la situazione. Quindici giorni dopo la sua morte l'E. e i suoi compagni vennero arrestati sotto l'accusa di aver tentato di sobillare i copti contro il governo ottomano. Sebbene il pascià finisse col prosciogliere i religiosi e li liberasse dopo una carcerazione durata ventiquattro giorni, la loro missione poteva considerarsi fallita. Circondati da sospetti, i due religiosi si trovarono nell'impossibilità di riprendere le trattative con le gerarchie copte.
Nell'ottobre del 1584 il Sasso fece ritorno a Roma allo scopo di conferire direttamente col pontefice mentre l'E., grazie alla sua conoscenza dell'arabo, rimaneva in Egitto fino all'estate dell'anno successivo quando, visti inutili i suoi sforzi, gli fu ordinato di riprendere la via dell'Italia dove giunse alla fine d'agosto del 1585.
Non risulta che l'E. si sia più mosso dall'Italia negli ultimi anni della sua vita. Nel 1587 fu nominato da Sisto V penitenziere di S. Pietro, una carica affidata da Pio V nel 1569 ai membri della Compagnia di Gesù, e la morte lo colse in questo ufficio il 3 marzo 1589 a Roma.
Uomo di vasta cultura - conosceva molte lingue tra cui l'ebraico, l'arabo, il turco, il latino, l'italiano, lo spagnolo e il tedesco - e di fervente spiritualità, l'E. ha lasciato pochi scritti originali, mentre numerose e legate alla sua attività missionaria presso le Chiese orientali sono le sue versioni in arabo e, in minor misura, dall'arabo. Tra gli scritti originali ricordiamo in particolare quello che può considerarsi il primo catechismo illustrato scritto in italiano, Doctrina christiana nella quale si contengono li principali misteri della nostra fede rappresentati con figure per istrutione de gl'idioti et di quelli che non sano legere…, Roma 1587, che, tradotto in diverse lingue, conobbe una notevole fortuna divenendo un modello della catechesi posttridentina. Gli vengono inoltre attribuite una serie di opere, rimaste per lo più manoscritte, quali una Confutazione degli errori dei Giacobiti e dei Nestoriani (P. Sbath, Al-Fihris [Catalogue de manuscrits arabes], I, Ouvrages des auteurs antérieurs au XVIIe siècle, Le Caire 1938, n. 217), il Radd ǧawāb maktūb (Lettera di risposta) (cfr. I. Krakcovskij, I manoscritti arabi della raccolta di Gregorio IV, patriarca di Antiochia [in russo], in Christianskij Vostok, VII [1921-1924], 18, pp. 1-20), la rielaborazione cattolica di un ben noto florilegio copto, il I'tirāf al-abā', ("Il credo dei padri") di cui esistono numerose redazioni manoscritte (Graf, IV, pp. 215 ss.). La sua paternità della Muṣāḥaba rūḥanīya, un breve trattato in forma di dialogo fittizio tra due pellegrini musulmani reduci dalla Mecca in cui vengono confutati i fondamenti dell'islamismo, edito senza indicazioni tipografiche, è stata invece fondatamente contestata da G. Levi Della Vida (Ricerche…, pp. 257 ss.).
Fondamentale per la conoscenza della sua vita è l'Autobiografia, dedicata al padre Claudio Acquaviva, edita da J. C. Sola nel 1935. Tra le versioni in arabo ricordiamo il I'tiqād al-amāma al-urtuduksīya kanīsa rūmīya [sic!] (Fidei orthodoxae brevis et explicata confessio quam Sacrosanta Romana Ecclesia docet…), Roma 1566, la traduzione della professione di fede richiesta da Pio V ai cristiani orientali che avessero voluto unirsi alla Chiesa cattolica, che apparve in due edizioni presso la stamperia del Collegio Romano, una con il solo testo arabo e l'altra con il testo arabo e latino. Secondo il Sommervogel (III, col. 380; IX, col. 283) tra i manoscritti della Biblioteca nazionale di Roma (Mss. Gesuitici, n. 1566 [3695]) si conserva un compendio in arabo della storia del concilio di Trento redatta dall'E., mentre il Graf gli attribuisce la versione araba di uno scritto di Luis de Granada sui sacramenti della confessione e della comunione (IV, p. 214). L'E. è invece l'autore del At Ta'lim al-masīḥī, la traduzione in arabo del catechismo latino del gesuita Flavio Bruno edita a Roma nel 1580 senza indicazione dell'autore e del traduttore e della versione araba dei canoni del sinodo di Qannūbīn del 1580 che, in qualità di legato, aveva contribuito a stendere insieme con Giovanni Battista Bruno. Attese infine alla traduzione in latino dei canoni del concilio di Nicea conservati in un codice arabo del patriarcato copto di Alessandria, Acta et canones sacrosanti primi oecumenici concilii Nicaeni, Dilingae 1572.
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