CROCE, Giovanni Battista
Orefice e gioielliere milanese, attivo nella seconda metà del sec. XVI per Emanuele Filiberto di Savoia (risulta in Manno"gioielliere di S.A.R. il 7 maggio 1575") e poi per Carlo Emanuele I, si cimentò anche in altri campi, quali l'architettura, l'agricoltura, l'enologia.
Della sua principale attività esiste qualche documento: lettere dei C., tutte relative a commesse di gioielli o lavori d'oreficeria, indirizzate a Emanuele Filiberto il 13 sett. 1572 da Venezia, il 4 apr. 1573 da Torino, il 22 dic. 1575 da Milano, il 17 ott. 1579 di nuovo da Venezia (cit. in Schede Vesme, I, p. 376). La loro importanza sta nel fatto di attestare senza equivoci che fino alla morte del duca (1580) il C. ebbe incarichi saltuari e non risiedette, quindi, se non temporaneamente, a Torino. Ciò avvenne invece - in quale data s'ignora - sotto il successore Carlo Emanuele I, che gli fu prodigo di benevolenza.
Dato che non si conoscono opere di oreficeria del C. - che dovevano essere in copia notevole se addirittura egli fu indotto a trasferirsi a Torino - la sua memoria è affidata soprattutto ad alcune opere di architettura ricordate dal Morigia (1595)., considerato la fonte principale per le notizie sull'artista: "fuori della città di Turino un mezzo miglio incirca alla collina... un suo palazzo fabbricato col suo divino ingegno, e dentro v'ha fatto una capella degna d'un Prencipe, missa a stucchi et oro, e fornita con suoi ricchi paramenti d'Altare. Appresso v'ha con tanta arte piantato un mirabile giardino, con tanta copia di delicati frutti, tutti inserti di suo pugno, e con tanta divina prospettiva acconcio, che fa rimaner stupito i riguardanti" (anche in Schede Vesme, I, p. 376). Il fatto ha generato equivoci, in quanto L. Venturi assumendo il termine collina con valore estensivo gli attribuì l'ideazione del parco del Viboccone, seguito in ciò da A. M. Brizio e G. Rigotti (1935). N. Carboneri (1966) e M. Perucca e C. M. Bersia (1965) hanno sfatato tale ipotesi (nota 1 in Schede Vesme, I, p. 376).
La cappella è comunque da identificarsi con quella ancora esistente a Santa Margherita sulla collina torinese, non solo perché una lapide apposta sulla facciata menziona esplicitamente un "Ioh. Baptista a Cruce" quale dedicatario, unitamente alla data 1586, ma anche per il fatto che resti di un pozzo e condutture provano che attorno alla cappella di Santa Margherita esisteva effettivamente un giardino (vedi, in proposito, le approfondite ricerche di Perucca e Bersia [1965] e, in contrario, Mallé [1973], per il quale l'autore della cappella è ignoto e il C. non sarebbe che il promotore dell'opera).
Il terreno su cui vennero costruiti la cappella e il "palazzo" di cui parla il Morigia erano certamente di proprietà del C. stesso; la Griseri (1967)., invece, che giudica la cappella "unico ricordo palladiano" locale, di fattura e stile purissimi, ritiene che essa sia stata edificata per Carlo Emanuele I in persona. Nella dedica del suo volumetto Della eccellenza e diversità de i vini..., il C. si dichiara peraltro debitore alla "reale liberalità sua [del duca]... di cui riconosco non solamente la vigna, mà tutti quanti i beni ch'in questo Mondo possedo" (in realtà la vigna gli venne concessa dall'arcivescovo di Torino, come prova un atto del 6 febbr. 1582).
È evidente che la "vigna", cioè l'abitazione civile (modesta certo assai più di quanto l'appellativo del Morigia lasci supporre) fu eretta per sfogare le tendenze pacifiche e l'amore per la natura del proprietario. In quel tratto di collina chiamato anticamente Monveglio (o Montevecchio) molte erano le abitazioni di gioiellieri, argentieri, indoratori, che univano insieme il gusto per la villeggiatura con una certa tendenza ad un'aggregazione corporativistica. Attualmente la "vigna" non esiste più: il Grossi (1790) ne rammenta ancora alcune particolarità e ricorda anzi la sua contiguità con quella già appartenuta (a fine Cinquecento) al famoso referendario Filiberto Pingone (Gribaudi Rossi, 1975, II, p. 432).
I dati in nostro possesso (tra i quali il riferimento del Morigia a ripetute visite della coppia ducale "per loro diporto") fanno presumere che effettivamente il C. potesse essere artefice della propria villa; ma di essa non abbiamo alcun elemento descrittivo che attesti capacità e inclinazioni dell'architetto proprietario. La cappella, invece, è giunta a noi intatta benché l'essere stata presa in tutela dal comune non l'abbia preservata dal decadimento.
È a pianta centralizzata entro perimetro quadro con presbiterio, che gli smussi interni riducono quasi a un ottagono. Mallé (1973) la dice d'impianto vignolesco ma, se così fosse, si tratterebbe di cultura captata in ambiente milanese, e per di più da un autore volto abitualmente ad altre occupazioni. Una esercitazione non di prima mano, insomma, e magari (a questo punto Mallé potrebbe anche aver ragione, dato che del C. non si conosce altro in quel canipo) pilotata da altra più esperta.
Certe particolarità dell'interno (la decorazione della cupola emisferica, l'absidiola nitidamente spartita e contornata da riquadri in stucco, la stessa cesellata eleganza dei medesimi che - davvero - fa pensare alla virtuosità dell'orafo) sono degne tuttavia d'un artista abituato a lavorare in piccolo, con l'aiuto della lente.
L'esterno appare avvincente sia per la sobrietà dei mezzi impiegati (una porta sovrastata da un oculo) sia per lo sbattimento chiaroscurale ottenuto con l'apertura di una cavità nel sottotetto, mentre sul colmo s'ergono tre slanciate cuspidi piramidali. Non convince peraltro l'ipotesi, formulata dalla Griseri (1967), d'una intenzionalità letteraria "quasi si trattasse di un padiglione sacro, creato ai bordi della collina per la meditazione e la lettura dell'ultimo Tasso". Il C. fu uomo di "mestiere" e non si discostò, in esso, dalla prassi della sua condizione.
Guardando alle notizie biografiche successive (cfr. Peyrot, 1970) troviamo, nel 1589, un pagamento a saldo "per la fattura della cassettina ... ornata de lapislazzuli et rubini, fatta ... a Sua Altezza" (Schede Vesme, I, p. 376); nel 1592, il C. era incaricato d'un reliquiario offerto dalla duchessa di Savoia all'infanta Isabella e ora all'Escorial (Hill, in Thieme-Becker); nello stesso anno era inserito nella vita cittadina in qualità di decurione; nel 1595l'orefice milanese G. Pietro Mosca stimò delle gioie eseguite dal C. (A. Bargoni, Maestri orafi ... in Piemonte dal XVII ... sec., Torino 1976, p. 99) che nel 1599era chiavario e il 6 marzo 1600 consigliere in una transazione col pittore A. Parentani per l'esecuzione dell'ancona di S. Valerico per la chiesa della Consolata (Schede Vesme, III); nel 1604 il C. compare di nuovo., in veste di gioielliere, per l'esecuzione d'un lampadario da destinare alla sepoltura di Carlo Borromeo e nel 1608, infine, di una corona in pietre preziose per il santuario della Madonna a Vicoforte (Perucca-Bersia, 1965, p. 108).
E se tali incombenze non bastassero a delinearne il carattere, sarebbero sufficienti i due volumetti che egli diede alle stampe, a Torino, nel 1606 e nel 1607: Della eccellenza e diversità de i vini che nella montagna di Torino si fanno e l'Instruttione di piantare le spargiere all'uso di Lombardia (entrambi ristampati in ediz. anastatica a cura di A. Peyrot, Torino 1970).
Non si tratta d'episodio bucolico, da rapportare a un Virgilio o a un Orazio campestri, sia pure in panni secenteschi: son veri e propri trattati ad uso dei competenti, così sfruttati e usati sul momento da rendere gli originali quasi irreperibili, e così pieni d'interesse per gli intenditori da venir presto considerati testi basilari. Non naturalmente con la monumentalità d'impianto dei De naturali vinorum historia di A. Bacci (1596) né con la vivezza immediata del trattato sui vini d'Italia di S. Lancerio, "bottigliere" di Paolo III: con la puntigliosità affettuosa, piuttosto, e la competenza d'uno sperimentatore in proprio, abile a trattare i vitigni come a modellare materie preziose, e di un buongustaio.
La data di morte è ascritta, dubitativamente in assenza d'ogni documento o notizia anche vaga, al 1616. Risulta, infatti aver fatto testamento il 30 maggio 1616. Il 20 febbraio 1614 aveva ottenuto il privilegio di fregiarsi di stemma, probabilmente "d'argento alla Croce di Calvario di rosso, biforcata" con motto Cognitione et Prudentia (Manno).
Quanto di non databile (o di ipotetico) resta di suo è rappresentato da una medaglia senza rovescio con ritratto e scritta "Io. Bapt. a Cruce... Sab. D. Gemmarius" (Armand, 1887), mentre l'attribuzione del Morigia (1595) di "una Capella nella Chiesa Cathedrale di Turino messa a stucchi et oro" è troppo vaga e dubitosa (causa anche le traversie subite dal luogo sacro) per poterne rinvenire anche minime tracce residue. N. Carboneri (1966) cita il C. quale autore di una cappella nell'eremo dei camaldolesi, presso Arezzo, e ne data il sopralluogo al 1611: ma né i documenti superstiti né le Memorie sugli eremi del Piemonte e specialmente in quello di Torino (1868; in A. Dosio, Iscriz. torinesi, a cura di L. Tamburini, Torino 1969, pp. 38-41) ne fanno menzione.
Fonti e Bibl.: Roma, Bibl. dell'Ist. d. Encicl. Ital., A. Manno, Il patriziato subalpino (datt.), III, 8, pp. 418 s.; Schede Vesme, I, Torino 1963, pp. 376 s.; III, ibid. 1968, p. 778; P. Morigia, La nobiltà di Milano, Milano 1595, p. 295 (anche in Schede Vesme, I, p. 376); A. Grossi, Guida alle cascine e vigne del territ. di Torino e contorni, Torino 1790, II, pp. 8, 155; A. Armand, Les médailleurs italiens..., III, Paris 1887, p. 173; L. Venturi, Emanuele Filiberto e l'arte figurativa, in Studi Pubblicati dalla R. Università di Torino nel IV centen. della nascita di E. Filiberto, Torino 1928, pp. 155 s.; G. Rigotti, Una cappella cinquecentesca sulla collina di Torino, in Boll. d. R. Soc. piem. di archeol. e belle arti, VII (1935), pp. 1-24; G. Dalmasso, Le vicende stor. ed econ. d. viticoltura e dell'enologia in Italia, in R. Marescalchi-G. Dalmasso, Storia della vite e del vino in Italia, Milano 1937, III, pp. 342, 373; Id., L'enologia piemontese alla fine dei Cinquecento, in Cronache econom. della Provincia di Torino, 1954, n. 144, pp. 19-25; M. Perucca-C. M. Bersia, G. B. C. e la cappella di S. Margherita, in Boll. d. Soc. piem. di archeol. e belle arti, n. s., XIX (1965), pp. 105-111, figg. 1-7; N. Carboneri, A. Vitozzi, Roma 1966, pp. 166-168; Id., Il palladianesimo in Piemonte, in Boll. Cisa, XI (1967), pp. 265, 275; A. Griseri, Le metamorfosi del barocco, Torino 1967, pp. 39, 41, 56 n. 24; A. Peyrot, introduz. a G. B. Croce, Della eccellenza... e Instruttione... (rist. anast.), Torino 1970; E. Mallé, Le arti figurative in Piemonte, Torino 1973, I, pp. 118 s.; E. Gribaudi Rossi, Ville e vigne della Collina torinese, Torino 1975, I, pp. 343, 360-64; II, pp. 431 s., tav. 85; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VIII, pp. 139 s.