CIAMPOLI, Giovanni battista
Nacque a Firenze nel 1590 da antica e nobile (ma non ricca) famiglia, che, come ramo dei Cavalcanti, risale al 1300.
Poco si sa del padre, Lodovico, e della madre, Francesca Cervoni, della città di Colle. Ingegno assai precoce, il C. ricevette la prima istruzione di grammatica e retorica presso i gesuiti, e di logica presso i domenicani. A quattordici anni fu accolto in casa del letterato G. B. Strozzi, che aveva visto in lui una spiccata predisposizione per la filosofia e per la poesia.
In effetti la sua prodigiosa facilità di verseggiare, fin dagli anni giovanili, lo rese ricercato nei cenacoli letterari, facendo sottovalutare la sua intelligenza agile e curiosa, applicatasi in ardui studi filosofici. Su di lui cominciarono a correre diversi aneddoti, che sottolineavano il suo carattere difficile e presuntuoso: a dire del pungente Eritreo (p. 64), il C.affermava di aver fatto scoperte filosofiche ignote perfino ad Aristotele.
Fu così notato dal granduca Ferdinando, la cui casa cominciò a frequentare divenendo amico intimo dei figli del granducai in particolare del principe Cosimo. A corte la sua eloquenza fu utilizzata in diverse occasioni, come nozze, monacazioni, ecc., in cui poté sfruttare anche le sue doti di improvvisatore. Nell'estate del 1608, nella villa del granduca, fece conoscenza col Galilei, che si trattenne a lungo a colloquio col giovane. Tale incontro fu determinante per tutta la sua vita, ma ebbe un effetto immediato anche nell'indirizzo degli studi e nell'atteggiamento critico assunto verso le oscurità e le "chiacchiere" peripatetiche; si convinse che solo la matematica ofEre gli strumenti idonei a una indagine razionale sulla natura; così si mise a studiare Euclide, rendendosi in breve tempo padrone della materia. Trasferitosi il Gafilei a Firenze, il C. riprese a frequentarlo; venne così messo a parte delle sue scoperte astronomiche, e poté osservare i pianeti medicei prima di ogni altro. Per interessamento dello Strozzi, suo protettore, entro nell'Accademia, degli Alterati ed in quella Fiorentina, ampliando la cerchia delle sue amicizie. Con lo Strozzi si recò a Roma e pirtecipò dell'entusiasmo del Galilei per le prospettive che si aprivano alla scienza con le nuove scoperte.
Fu ancora lo Strozzi a mandarlo a studiare all'università di Padova e a raccomandarlo ai suoi conoscenti, verso la fine del 1610. Qui conobbe Giangiorgio, Ippolito e Aldobrandino Aldobrandini, nipoti del papa Clemente VIII. Nel 1612 si recò per breve tempo a Milano, dove poté incontrarsi col card. F. Borromeo che aveva conosciuto a Roma in occasione della beatificazione di Carlo Borromeo e raccomandargli il proprio padre. Al Borromeo inviò anche in seguito non pochi versi e prose. Tornato a Firenze, fu convinto dalle insistenze del card. Maffeo Barberini (il futuro Urbano VIII) a restare presso di lui a Bologna invece di tornare a Padova a proseguire gli studi; essi furono in effetti continuati a Bologna e conclusi a Pisa, dove il C. si laureò in utroque iure nel 1614, alla presenza, fra gli altri, di Benedetto Castelli, anch'egli amico e scolaro del Galilei.
La sua fama era giunta al duca d'Urbino, che lo invitò presso di sé; ma lo Strozzi aspirava per il suo protetto a onori ben più alti, quindi lo spinse a rimanere a Roma con un notevole aiuto finanziario. Per analoghi motivi fu réspinta anche l'offerta del granduca di Toscana, Cosimo II, che era stato suo compagno di giochi. Nel 1614 il C. vestì l'abito presbiteriale, indispensabile, secondo l'uso, per far carriera presso la Curia. Con la raccomandazione del Galilei, fece conoscenza dei cardinali Paolo Gualdo e Piero Dini.
Di fronte alle discussioni suscitate dalle opinioni del Galilei, assunse fin da principio un atteggiamento conciliante; anzi, convinto che non sarebbe stato fatto nulla contro di lui, in più occasioni si rivolse al Galilei per tranquillizzarlo: si veda la nota lettera del 28 febbr. 1615 (XII, pp. 145 ss.). Loconsigliava comunque di essere prudente, di stare in guardia dai pettegolezzi della gente, che facilmente trasforma un'affermazione in un'altra; inoltre lo invitava a lasciare alla Chiesa il campo dell'interpretazione delle Scritture e a diffidare del card. Bellarmino.
Tra le amicizie romane del C. erano anche V. Cesarini, che volle addirittura averlo presso di sé come ospite (il C. gli fu a lungo vicino, anche duxante una lunga malattia) e F. Cesi. Questi lo conobbe personalmente solo nel 1615, dopo una serie di contrattempi che ritardò il loro incontro, per mezzo della comune amicizia col Galilei; ma ne fece subito tanta stima che volle aggregarlo all'Accademia dei Lincei (in effetti si trova iscritto nel catalogo degli antichi Lincei nell'anno 1618). Su invito del Cesi, il C. entrò nella polemica sulla natura delle comete, suscitata dallo scritto De tribus cometis del gesuita Orazio Grassi e dalla risposta del Galilei (sotto il nome di Mario Guiducci) Discorso delle comete. Il Discorso parve al C. un attacco al Sacro Collegio e ai gesuiti, ma per maggior chiarezza invitò il Galilei a rispondere, sotto forma di lettera inviata al Cesarini, alle affermazioni del Grassi nei suoi Libra astronomica ac philosophica. Com'è noto, a tale risposta il Galilei lavorò tre anni, pubblicandola col titolo di Saggiatore. Anche se ammetteva di non aver la preparazione scientifica per poterne discutere, il C. continuò a seguire con attenzione gli scritti galileiani. Altrettanto si occupava però della sua carriera, per cui sperava nell'appoggio delle potenti famiglie Capponi, Ubaldini, Borromeo; fece amicizia con Ludovico Ludovisi, e quando il suo potente zio fu eletto papa col nome di Gregorio XV, fu agevole al C. l'accesso alle cariche della Curia: prima fu segretario delle lettere latine del card. Ludovisi, e poi, per intercessione del card. Maffeo Barberini, divenne segretario dei brevi segreti, incarito di prestigio e ben retribuito, conferitogli anche per la sua eccellente conoscenza del latino. Divenne anche canonico di S. Pietro ed entrò in una certa dimestichezza coi papa, tanto da poter a sua volta favorire suoi amici, come il Cesarini, assunto come cameriere segreto e poi maestro di Camera pontificio.
L'antico mecenate, lo Strozzi, vistolo ormai ricco e ben sistemato, decise di privaflo del sussidio con cui continuava ad aiutarlo, suscitando una spiacevole reazione del C., assai deplorata al suo tempo: pare infatti che, anche in seguito, abbia perseguitato lo Strozzi con liti legali e che gli abbia dimostrato la sua sconoscenza non dedicandogli neppure un verso, neanche dopo la morte, dando corda alla fama di ambizioso e di superbo divulgatasi già fin d'allora e rafforzatasi successivamente.
Il nuovo papa eletto nel 1623, Urbano VIII (il card. Barberini), continuò a mostrare al C. e al Cesarini la stessa benevolenza che aveva manifestato prima della sua elezione; il suo favore giunse al punto di permettere al C. di introdursi direttamente negli affari della Curia: fu incaricato di stendere relazioni sulla questione della Valtellina, sui rapporti fra Roma, la Spagna e l'Inghilterra; e intanto, come procuratore del Galilei, si diede da fare per la pensione conferita a lui e al figlio, per la si ' stemazione del nipote Vincenzio, per favorire l'ingresso del Cavalieri, raccomandatogli dal Galilei, all'università di Bologna. Al maestro comunicava di aver lavorato ad una lunga prosa latina, ma di sentire la mancanza della sua conversazione. Il Galilei lo informava del lavoro per il Saggiatore, in risposta ad una lettera da Acquasparta, dove il C. era stato a trovare il Cesi. Con lui e col Cesarini discorreva dell'opera galileiana, soprannominata per scherzo la Sarseide, dallopseudonimo (Lotario Sarsi) assunto dal Grassi. Fu proprio il C. ad inviare al Galilei le prime pagine stampate del Saggiatore con l'imprimatur della Curia, e ad annunciargli poi il buon accoglimento dell'opera da parte di Urbano VIII, cui egli stesso aveva letto alcune parti a mensa, e da cui aveva sentito incoraggianti elogi per l'autore. Fu ancora lui a sollecitare nel 1624 il Galilei affinché venisse a Roma per approfittare della situazione favorevole e per divulgare più apertamente le nuove dottrine. Quando infatti questi ci andò, fu accolto con grande gioia, dal C. e dal Cesarini, ma il colloquio col papa fu deludente per il Galilei, che se ne tornò a Bellosguardo. Nonostante le sollecitazioni dei C., il successivo, viaggio a Roma del Galilei avvenne solo cinque anni più tardi, durante i quali la corrispondenza tra i due proseguiva assidua. Il C. continuava a difendere il maestro presso il papa, ad esempio riferendogli sulla Risposta a Francesco Ingoli. Ma Urbano VIII non era più il card. Barberini che aveva esaltato in un'ode latina il genio astronomico di Galileo; sia questi sia il C. non se ne resero conto con chiarezza e per tempo. Quando Galileo nel gennaio 1630 gli comunicò d'aver terminato la sua nuova opera, il Dialogo sopra i massimi sistemi, il C. lo consigliò di venire personalmente a Roma a trattare la concessione dell'imprimatur col padre Riccardi, maestro del Sacro Palazzo, ed anzi lo invitò a casa sua. Galileo giunse a Roma nella primavera del 1630, ottenne l'assenso alla pubblicazione, con alcune modifiche, per le insistenze del C., amico del Riccardi, il quale credette che il C. avesse già ottenuto l'assenso del papa. Così Galilei se ne tornava a Firenze assai soddisfatto, mentre i suoi nemici lo accusavano d'aver predetto con metodi astrologici la morte del papa, e facevano di tutto per tirare per le lunghe la stampa del Dialogo. Compiuta questa finalmente nel febbraio del '32, il C. fu tra i primi a Roma - dove infuriava la peste - a leggere l'opera, col Castelli, il Campanella, il nipote del papa Francesco Barberini. Anche il papa dovette leggerla, per la sollecitudine non del C. ma dei nemici di Galileo, che gli fecero nascere il sospetto non solo d'esser stato raggirato, ma d'esser stato ritratto nella figura di Simplicio. Lo sdegno e la collera del papa, facile a simili eccessi, esplose così contro il C., colpevole d'aver interpretato come un'autorizzazione alla pubblicazione le indicazioni papali per le correzioni da apportare all'opera, soprattutto sul moto di flusso e riflusso, con cui Galileo intendeva provare il moto della Terra.
Urbano VIII, convinto d'essere da lui stato raggirato, si scagliò contro l'opera "perversa" del Galilei e contro la "ciampolata" che l'aveva spinto alla pubblicazione. Il C., "amico di nuova filosofia" (sono parole del papa, in Galilei, Opere, IX, pp. 436 s.) perse il suo massimo protettore, ma i motivi che vennero accampati furono i più diversi: la presunzione di voler essere considerato il primo in dottrina, la predilezione per la musica, i conviti troppo sontuosi, ecc. Ci fu invece un motivo ben più verisimile, di carattere politico: tramite il Cesarini, il C. era entrato in contatto con il card. Gaspare Borgia, nemico dei Barberini e favorevole ad una politica filospagnola. Fin dal marzo 1632 nel concistoro il papa si era violentemente urtato col Borgia, cosicché tutti i suoi amici, tra i quali fu ritenuto il C., divennero sospetti. Contrariamente alle diffuse speranze, il C. non fu eletto cardinale; per aver avanzato alcune riserve su un breve papale dell'aprile del il 32 (evidentemente il papa non aspettava che un'occasione) non fu più ammesso alla sua presenza, e dopo alcune settimane d'incertezza, dovette lasciare l'ufficio dei brevi e fu nominato governatore di Montalto nelle Marche. Il congedo del papa fu assai fireddo, ma al C. non dovette aplSarire definitivo, perché cominciò subito a cercare di riconquistarsi il favore papale, anche con le più adulatorie lodi dei Barberini. Il Castelli, comunicando la no, tizia al Galilei, sottolinea lo spirito di obbedienza e la serenità dell'atteggiamentó del C.; ma si era lasciato ingannare dalle apparenze, perché il C. mostrò sempre di considerare indegni di lui gli incarichi affidatigli, un forzato esilio il suo allontanamento da Roma, un'ingiusta punizione la perdita dell'invidiabile posizione e degli emolumenti a fatica accumulati.
Nel 1640 credette di poter tornare, almeno per poco tempo, a Roma, ma la sua speranza fu delusa; non poté più stabilirsi nella città della sua rapida fortuna, ma passò da un incarico e da una località all'altra: nel 1636 fu inviato a Norcia, nel '37 a Sanseverino nelle Marche, nel '40 a Fabriano, nel '42 a Iesi. Per vincere la solitudine e l'abbattimento, si diede a una attività di studi scientifici, di cui si ha testimonianza nei numerosi manoscritti sui gravi, le leve, i solidi geometrici, il moto, i magneti, i piani inclinati, molto lodati dal Cavalieri. Continuò lo scambio epistolare col Castelli su vari argomenti scientifici, come i galleggianti o la vista; invece si interruppe (o almeno non ci sono pervenute lettere relative) quello col Galilei, durato ventitré anni, dal 1610 al 1633.
L'ultima lettera, appunto dei '33, rivolge al maestro, a Roma per il processo (a cui ovviamente il C. non fa riferimento), l'invito a recarsi a Montalto a trovarlo, e gli confessa il suo avvilimento, che trova sfogo solo nello studio.
Ma stretti restarono i legami con la scuola galileiana: tra il 1636 e il '41 chiamò presso di sé come segretario il Torricelli, conosciuto a Roma quando era discepolo del Castelli. A Norcia e a Fabriano il Torricelli poté compiere importanti studi col C., ad esempio sul galileiano De motu, ricevendone un alto insegnamento di vita e di dottrina. Tra tutte le località in cui soggiornò, il C. mostrò di gradire soprattutto Fabriano, anche perché nelle altre non erano mancati attriti con le autorità locali, ad esempio con l'arcidiacono di San verino. A Fabriano poté partecipare alla vita culturale dell'Accademia dei Disuniti, insieme con lo Stelluti anch'egli linceo, e sentirsi meno isolato, tanto che definì la terra fabrianese una nuova Arcadia. Ma, sofferente di gotta, lamentava che le "arie alpine" di Fabriano gli avevano rovinato la "complessione", e chiedeva al cardinale Cassiano Dal Pozzo di patrocinare almeno il suo trasferimento in un posto di mare, per non essere più "capraro dell'Appennino".
Morì a Iesi l'8 sett. 1643, a 54 anni, neppure due anni dopo il Galilei.
Per testamento lasciò tutti i suoi manoscritti al re di Polonia Ladislao IV, conosciuto a Roma, del quale si era offerto di scrivere una biografia di elogio, soprattutto intorno alla battaglia di Smolensk, ma non poté andar oltre il terzo libro della Storia della Polonia, pubblicata a Roma solo nel 1667, I manoscritti, dopo un attento vaglio del S. Uffizio romano, furono spediti a Varsavia e di essi si è persa notizia. Si conoscono solo quelli pubblicati dal card. Sforza Pallavicino in Dei fragmenti dell'opere postume di mons. G. C. saggio primo (Bologna 1654). Questa edizione, ricca di pagine interessanti, si può considerare paradigmatica di una stampa con censura tendenziosa, così frequente nel Seicento, tanta è la cura dello Sforza Pallavicino di stravolgere il senso originale del testo del C., eliminando ogni riferimento al metodo scientifico e alla filosofia naturale.
Tale criterio di ripulitura linguistica e ideologica impronta anche le Prose (Roma 1649), a cura sempre dello Sforza Pallavicino, sicché non è agevole cogliere gli elementi di novità in scritti come Della filosofia naturale, Del dominio e della servitù, Della novità, Della potenza ecc., inquadrati in un progetto grandioso di Politica sacra. Tuttavia le sue osservazioni morali su tutta una serie di pregiudizi, sul linguaggio, sulla nascita della virtù, sulla proprietà, sulla ragione ecc. sono assai acuto. Ma anche in campo religioso egli ammette una seppur limitata libertà di azione e di pensiero, in nome della ragione, convinto profondamente che tale libertà, nonché indebobre, contribuisce a rafforzare la fede. È in tale disponibilità alla scoperta uno degli atteggiamenti più fedelmente galileiani, che egli rielaborò nella solitudine dell'esilio. La natura è per lui la vera maestra, che solo la matematica permette.di indagare a fondo, con sperimentate dimostrazioni. Egli riconduce tutto ai sensi e alle sensazioni, che devono essere ordinate dall'intelletto nonper categorie metafisiche, ma per certezze matematiche. Anche per lui, come per Galileo, filosofare è "procedere per notioribus", da non confondere col "procedere per revelatis"; scienza e fede sono due ambiti assai diversi, dato che Dio si è rivelato agli uomini sia attraverso la Bibbia sia attraverso la natura. Il contrasto drammatico tra autorità e ragione deve comunque salvare la libertà necessaria al filosofo per l'indagine. Il C. non si preoccupa soltanto di difendere la ragione dalle intron-dssioni dell'autorità, ma anche di salvaguardare la fede dalle critiche che potrebbero venirle da un irragionevole rifiuto di certe ipotesi scientifiche. Se nel passato l'autorità di Aristotele si era imposta per necessità storica, ora è tempo, afferma il C., di liberarsi degli impacci aristotelici e accordare scienza e fede, come s. Tommaso accordò il cristianesimo e Aristotele. Il suo programma di scienza cristiana, in cui intende restare galileiano senza dover rinnegare la fede tridentina, muove dall'esaltazione per le capacità di progresso dell'uomo, e se non diede risultati di rilievo, testimonia una consapevolezza abbastanza lucida della rivoluzione che si stava opetando: con la nuova scienza si apriva, a suo dire, una nuova età anche per l'uomo di fede. Il C. è inoltre ben consapevole degli ostacoli che si frappongono alla libera speculazione: contrappone infatti al sapere il potere, rappresentato dai professori e dai censori di opinioni, che temono di veder messe in discussione le loro certezze. Anche se certe amare riflessioni risentono dell'esclusione forzata da una carriera promettente e da un ambiente vivo e stimolante, proprio perciò certe pagine dei frammenti, di un'asciuttezza singolare, prive delle forme gonfie delle prose destinate a stupire un pubblico plaudente, sono il testamento dell'ultimo C., che si chiude in una solitudine lontana sia dalle accademie che dai facili successi mondani del verseggiatore ammirato.
Più facile (e riduttivo) risulta quindi il giudizio sul C. poeta, per lo più (salvo la Poesia in lode. dell'inchiostro, Roma 1626) edito postumo in varie raccolte: Rime, Roma 1648; Poesie funebri e morali, Bologna 1651, Venezia 1662; Poesie sacre, ibid. 1662; Scelta di poesie italiane. ibid. 1686. In questi numerosi versi il C. applica i principi esposti in uno scritto programmatico, intitolato Poetica sacra (in Rime, cit., pp. 235-3501, un dialogo tra la Poesia e la Devozione, in cui egli si i manifesta contrario al sensualismo e all'immoralità correnti, guarda come modelli, più che il Petrarca, Pindaro e Orazio, e propone il rifiuto delle decorazioni paganeggianti in nome di una nuova mitologia cristiana. La poesia deve, a suo avviso, fondarsi sulla storia e sull'esperienza - unsa storia letta in chiave postridentina, con Lutero come anticristo - ed avere uno scopo civile. Tutto il canzoniere ciampoliano è ricco di versi encomiastici (per Cosimo de' Medici, il card. Barberini, il Cesarini ecc.) e d'occasione; i temi sono spesso scontati: l'invidia delle torti, la corruzione presente, il volgo calunniatore; la vena moralistica del C. tende a porgere di sé l'immagine del poeta perseguitato ma incorrotto, amante della giustizia e incapace di finzione, ma tuttavia disposto al perdono dei nemici. Ai giambi di Archiloco dichiara di preferire i cigni d'Elicona, mentre all'ira si sostituisce una malinconia pensosa che, se dissolve la ricerca di effetti puramente sonori, non riesce che raramente a costruire versi profondi e originali. Neppure le poesie religiose vanno molto al di là dell'occasionè esteriore e dell'imitazione, né più di un generico lamento o di una vaga imprecazione è dato sentire nei versi sui dolori d'Italia. Forse un po' di poesia si trova nei canti e ditirambi d'imitazione, più che greca, laurenziana: Le nozze di Bacco e della Neve, Le vendemmie di Castelgandolfo, La mascherata di Parnaso snodano disinvolti ma piuttosto smorti polimetri (vi s'ispirò il Redi?) dì settenari ed endecasifiabi, che con le odi saffiche e le altre forme adattate dal greco ispirarono al Testi il generoso elogio di "miracolo d'Italia".
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