GATTINARA, Giovanni Bartolomeo Arborio di
Figlio di Pietro (morto nel 1495-96), apparteneva a una famiglia della piccola nobiltà vercellese. Nel 1504 studiava legge all'Università di Torino e si può dunque collocare la sua data di nascita intorno al 1480.
Secondo di quattro fratelli, il padre del G., laureatosi in legge, s'era trasferito a Vercelli per esercitarvi la professione di notaio. Il G. fu il suo terzo figlio maschio, dopo Roggerino - sacerdote morto nel 1502 - e Giovan Battista (morto nel 1537). Cugino in secondo grado di Mercurino Arborio di Gattinara (i due erano nipoti ex filio di due fratelli), sin dalla nascita la vita del G. s'intrecciò con quella del futuro gran cancelliere. Questi, infatti, rimasto orfano di padre, intorno al 1480 andò a vivere presso Pietro, ove rimase sino al 1483; più tardi si trasferì a Torino presso Giovanni Arborio di Gattinara, fratello maggiore di Pietro e giudice in quella città. Il testamento di Giovanni (morto nel 1497) originò una controversia sull'eredità che contrappose il G. e i suoi due fratelli maggiori alla vedova di Giovanni e a Mercurino. Non si conosce quale sia stata la conclusione della causa, che si trascinò almeno per un decennio.
Nulla è noto della vita del G. fra il 1505 e il 1518. La nomina, il 26 apr. 1519, a consigliere di Carlo V si spiega con l'ascesa di Mercurino (nominato gran cancelliere l'anno precedente) che, volendo contare su collaboratori fidati, lo chiamò presso di sé. Nel 1522 il G. era a Napoli, al seguito del nuovo viceré, Charles de Lannoy. Risale probabilmente ad allora la nomina del G. a reggente nel Consiglio collaterale di Napoli. Come scriveva Lannoy in una relazione a Carlo V del 28 dic. 1523, il G. divenne allora uno dei reggenti su cui il viceré contava di più per bilanciare lo strapotere dei baroni del Consiglio. All'inizio del luglio 1522 il G. era a Roma al seguito del Lannoy, come racconta Baldassarre Castiglione, che lo conobbe in tale occasione. Creato cavaliere della milizia armata quell'anno, il 12 ag. 1522 Francesco II Sforza lo nominò "conestabilem porte Beatricis civitatis Mediolani".
La nomina costituiva sicuramente un atto di omaggio che il duca, appena restaurato nei suoi possessi grazie all'azione politica di Mercurino, aveva fatto a quest'ultimo: il 25 maggio 1522, Francesco II aveva insignito il fratello di Mercurino, Carlo, del titolo di "capitanus devectus bladorum in agro novariensi" e il 27 luglio aveva infeudato il gran cancelliere delle contee di Valenza e Sartirana.
Nel marzo successivo il G. era di nuovo a Napoli, dove Mercurino gli inviò informazioni sulle trattative diplomatiche in corso (in tali lettere - alcune delle quali pubblicate da Bornate - Mercurino si rivolgeva al G. con la formula "mihi consaguineo uti fratri carissimo", che avrebbe poi sempre mantenuto).
Dopo la morte di papa Adriano VI (1523) il G. fu inviato a Roma, dove seguì il conclave (1° ottobre - 19 nov. 1523) adoperandosi con successo per l'elezione di Giulio de' Medici (Clemente VII). Lo stesso anno rappresentò Carlo V alla cerimonia d'investitura del duca Alfonso I d'Este, con il quale trattò per la questione di Modena e Reggio, nella speranza di scongiurare il passaggio del duca alla parte francese. Nella primavera del 1524, di fronte alla nuova discesa di truppe francesi in Italia, il G. fu inviato a Vercelli per allestire le difese della città. Nominato reggente nel Consiglio della Cancelleria d'Aragona (senza però lasciare il Consiglio di Napoli, dove rimase almeno sino al 1530), pochi mesi dopo fu inviato nuovamente a Roma (insieme con Luis Fernandez de Cordoba, duca di Sessa), dove i rappresentanti imperiali e francesi si combattevano cercando di ottenere il sostegno del pontefice. Dopo la sconfitta francese nella battaglia di Pavia (24-25 febbr. 1525), il G. trattò a Roma per l'alleanza fra Carlo V e il papa, ratificata il 1° aprile.
L'intesa prevedeva il riconoscimento di Francesco II Sforza come duca di Milano e la protezione imperiale sui Medici a Firenze; l'esercito imperiale, inoltre, avrebbe restituito Reggio, occupata dal duca di Ferrara alla morte di Adriano VI, al pontefice. Nonostante le speranze che diversi ambienti imperiali (fra cui il viceré Lannoy) riponevano nel trattato, dubbi sulla sua reale solidità sorsero subito dopo la sua ratifica: già il 19 aprile, per esempio, F. Guicciardini, scrivendo a Cesare Colombo, osservava che i suoi stessi autori si sarebbero ben guardati dall'osservarlo. In effetti, la liberazione di Francesco I (osteggiata da Mercurino di Gattinara) e, successivamente, la stipulazione tra Francia, Firenze, Venezia e Clemente VII della Lega di Cognac (maggio 1526) avrebbe dimostrato l'inconsistenza delle basi dell'accordo.
Nel giugno 1525, quando il G. aveva già lasciato l'Italia per informare il cugino sulle trattative condotte con il papa, Mercurino chiese a Carlo V di chiamare il G. a far parte del Consiglio, sottolineandone i meriti e l'esperienza. Non è noto quali siano stati gli esiti della richiesta, che può essere interpretata come il tentativo di Mercurino di far crescere il ruolo del G.; in ogni caso il G. restò in Spagna sino al novembre del 1526, quando, non essendo riuscito a imbarcarsi sulla flotta imperiale, Mercurino gli scrisse di partire alla volta della penisola insieme con Cesare Fieramosca, inviato di Carlo V presso il papa. In Italia il G. si aggregò all'esercito del connestabile di Borbone, in qualità di commissario imperiale; fu in tale veste che prese parte al sacco di Roma, al termine del quale fu tra i delegati imperiali per trattare con Clemente VII, prigioniero in Castel Sant'Angelo.
Secondo quanto racconta lo stesso G., sarebbe stato Clemente VII a richiederlo come mediatore, il 7 maggio 1527. Recatosi a Castel Sant'Angelo, il G. fu raggiunto da un colpo d'archibugio che, feritolo al braccio destro, gli impedì di scrivere personalmente il rapporto all'imperatore. L'episodio è riportato nella Vita di Benvenuto Cellini, il quale, storpiandone il nome in "Cesare Iscattinaro", si attribuisce il merito di avere sparato al G., colpevole di "parlare con papa Clemente senza una reverenza, ma con ischerno bruttissimo, come luteriano e impio che gli era". Tale episodio - che ricorda fin troppo quelli di cui, sempre secondo il racconto del Cellini, sarebbero rimasti vittima il connestabile di Borbone e il principe d'Orange, Philibert de Chalon - è narrato anche dallo scultore Raffaello da Montelupo (amico e compagno del Cellini), senza però la conferma della responsabilità celliniana. Le trattative si trascinarono per un mese, sino al 5 giugno, quando venne finalmente ratificata una capitolazione con la quale il papa s'impegnava a rimettere agli Imperiali, oltre a Castel Sant'Angelo, le città di Ostia, Civitavecchia, Modena, Parma e Piacenza. Legato agli incontri con il papa è un episodio su cui le fonti discordano. Secondo la relazione di Ludovico Cato al duca di Ferrara (6 ag. 1527), ripresa da L. von Pastor, il G. avrebbe con minacce estorto al papa un anello di grande valore e la promessa di un titolo cardinalizio, mentre Cellini racconta che Clemente VII aveva regalato tale anello al G. come ricompensa per la sua attività mediatrice. Terminata la missione, il G. inviò a Carlo V una lunga relazione che, dopo aver conosciuto fra Sei e Settecento una certa diffusione (attestata dalla presenza di numerosi manoscritti), fu infine pubblicata a Ginevra nel 1866 dai giuristi elvetici G.B. Gallife e O. Fick con il titolo Il sacco di Roma. Relazione del commissario imperiale Mercurino da Gattinara. Essi, utilizzando un codice in possesso del barone Giovanni Antonio Trasmondo Frangipani di Mirabello, la attribuirono a un Mercurino Gattinara, fratello del gran cancelliere (tesi ripresa, fra gli altri, da Gregorovius). L'anno successivo Carlo Milanesi (che ignorava il lavoro degli eruditi ginevrini) ne pubblicò a Firenze un'altra versione da un codice più completo, attribuendola al G. o a don Ferrante Gonzaga (ma propendendo per il primo, ritenuto, anche qui, fratello di Mercurino): Del sacco di Roma. Lettera di un ufficiale dell'esercito del Borbone a Carlo V, in Il sacco di Roma del mdxxvii. Narrazioni di contemporanei, pp. 491-530. Furono Alfonso Corradi, nel 1891, e Pastor, pochi anni dopo, a provare che autore della relazione era stato il Gattinara. Nel 1928, infine, il generale Alfonso Petitti di Roreto segnalò l'esistenza, presso il Museo Adriani di Cherasco, di un terzo codice, risalente al principio del XVII secolo, dove il G. era indicato come autore della relazione e definito, correttamente, "consaguineus" e non fratello di Mercurino.
Condotte a buon fine le trattative, il G. ricevette dal principe Filiberto d'Orange l'offerta dell'ufficio di governatore di Parma e Piacenza, che sarebbero dovute tornare in mano imperiale: il G., però, chiese che la carica fosse conferita al fratello Giovan Battista. Alla fine di giugno, il G. lasciò Roma per prender possesso delle due città. L'opposizione di Guicciardini indusse, tuttavia, gli Imperiali a recedere dal loro proposito e quindi il G. e il fratello si trasferirono a Genova, intorno alla metà di luglio, per unirsi a Mercurino, che vi era giunto il 26 giugno. La città nel frattempo era stata messa sotto assedio dai Francesi, sicché i tre decisero di fuggire a bordo d'un brigantino la notte del 14 agosto, giungendo a Barcellona il giorno 28.
Da questo momento i dati sul G. tornano a farsi frammentari. Nel 1530 ottenne la carica di consigliere del Ducato di Milano (carica promessagli dal connestabile di Borbone sin dal 1527). Nel suo testamento, redatto il 23 luglio 1529, Mercurino aveva nominato il G. esecutore testamentario; dopo la morte del gran cancelliere, il 5 giugno 1530, il G. si trasferì in Germania per curare, insieme con Alfonso de Valdes, la questione dell'eredità, trattenendosi a Ratisbona almeno sino all'aprile del 1532. Nominato, nel 1531, consigliere del duca di Savoia Carlo II, probabilmente pochi anni dopo si stabilì a Vercelli, dove risulta risiedesse nel 1536, quando il duca vi si rifugiò in seguito alla conquista francese di Torino. Nel 1541, ormai anziano, sposò Bianca Ferrero di Bardassano, dalla quale ebbe due figli: Vittoria e Filiberto, destinato a morire, ai primi del Seicento, senza discendenza maschile (prima del matrimonio il G. aveva avuto anche due figli naturali: Onorio e Zenobia).
Morì a Vercelli l'11 nov. 1544, e fu sepolto nella chiesa di S. Marco.
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