BAGLIONI, Giovanni (Giannino)
Della personalità di questo mercante senese - vissuto certamente intorno alla metà del sec. XIV - il tratto che ha più attirato l'attenzione degli storici è un elemento di sapore squisitamente leggendario, dacché lo si è voluto identificare con la figura del protagonista della celebre Istoria di re Giannino scritta, secondo quanto pensa il Maccari, da Tommaso Agazzari (sec. XV), discendente da una delle due mogli del Baglioni. Quanto di criticamente accertabile sia dato oggi di ottenere - con il risultato di delineare una figura storica non certamente eccezionale - si vedrà in seguito: converrà prima ripercorrere la linea narrativa e leggendaria dell'Istoria, per avere uno sfondo sul quale avviare un discorso critico.
Egli sarebbe nato dalle nozze segrete di Guccio di Mino di Geri Baglioni, mercante senese, e rappresentante, a Neaufle sur l'Eure, della compagnia dei Tolomei, con Maria, figlia del signore di Carsix o Crecy. Dopo tali nozze il Baglioni dovette rientrare in Italia per sfuggire alla vendetta dei parenti della sposa, che venne chiusa in un monastero, dove nacque suo figlio Giovanni. Avvenuta, nello stesso tempo, il 15 nov. 1316, la nascita del figlio postumo di Luigi X, Maria di Carsix fu scelta come nutrice del Delfino e contribuì alla salvezza di questi, sostituendolo con il proprio figlio, che fu ucciso, qualche giorno dopo (19 novembre) dalla contessa di Artois, suocera del reggente Filippo di Navarra, al quale, scomparso il principe Giovanni, toccò il trono di Francia. Guccio Baglioni, tornato dall'Italia, ottenne la restituzione del fanciullo che riteneva essere il proprio figlio e che inviò a Siena, a mezzo di un messo della mercanzia senese, che, a sua volta, lo portò all'avo Mino. Educato da questo, il B. fu, più tardi, ascritto all'arte della Lana, che esercitò con Gherardino di Cenni, dedicandosi successivamente al commercio dei panni, del guado, del grano e del vino in società con Pietro di Lando e passando, poi, al commercio della moneta e dei metalli preziosi con Pietro di Tancredi. Arricchitosi nei traffici aprì un proprio banco collegato con quello dei Tolomei, suoi parenti. Aveva sposato, in prime nozze, Giovanna di Niccolò Vivoli, nipote di fra' Tofano, procuratore della "Domus Misericordiae" di Siena; mortagli la moglie nella pestilenza del 1348, sposò in seconde nozze Necca di Vanni di Gello; dei numerosi figli pochi sopravvissero alle successive epidemie. Nel 1350 fondò un ospizio per i pellegrini che si recavano a Roma per il giubileo. Lo troviamo, nel 1342, procuratore della Misericordia, di cui, nell'anno, successivo, fu camarlingo, carica che ricopriva anche nel 1356. Dové appartenere al Monte dei Dodici, in quanto, a seguito della rivoluzione avvenuta dopo l'arrivo dell'imperatore Carlo IV, fu fatto esecutore di Gabella e, nel primo semestre del successivo 1356, camarlingo di Biccherna. Estratto a far parte della Signoria per il bimestre marzo-aprile 1358, fu sostituito in quanto assente da Siena e dalla Toscana. Nel frattempo Maria di Carsix aveva rivelato, in punto di morte (1345) il segrete dello scambio dei due fanciulli ad un fra' Giordano, agostiniano spagnolo del convento di Carsix, che, più tardi, ne fece partecipi e il proprio confratello francese fra' Antonio e alcuni gentiluomini della corte; alcuni di questi, nel recarsi a Roma per il giubileo del 1350, fecero ricerca del Delfino, interessandone i senatori di Roma e fra' Iacomo Celli, rettore della commenda di Altopascio. Riuscite vane tali ricerche, lo stesso fra' Antonio passò in Italia, ma, ammalatosi a Porto Venere, scrisse il 6 sett. 1354 a Cola di Rienzo, inviandogli copia di tutti i documenti comprovanti l'origine reale del Baglioni. Il tribuno riuscì a rintracciare il B. e, con sue lettere del 18 settembre e del 7 ott. 1354, lo invitò a recarsi a Roma, dove questi giunse il 2 ottobre in compagnia del notaio Angelo di Andrea Guidarelli. Il tribuno gli svelò il segreto affidatogli da fra' Antonio e lo incitò a far valere i suoi diritti al trono di Francia, promettendo di far noto tal segreto a Innocenzo VI, ai principi ed alle città di Europa e affidandogli una lettera per il cardinale di Spagna, allora in Montefiascone. Mentre il B. si recava dall'Albornoz, gli giunse la notizia della caduta e della morte di Cola, per cui stimò opportuno far ritorno a Siena e riprendere la propria attività commerciale, pur narrando tutto a fra' Bartolomeo Mini dell'Ordine dei predicatori. Giunta in Siena la notizia della rotta subita da re Giovanni II a Poitiers e della sua prigionia, fra' Bartolomeo annunziò pubblicamente che era questa una giusta punizione per l'usurpatore in quanto il vero re di Francia si trovava nella città. Immediatamente il concistoro e il consiglio generale della repubblica riconobbero il B. per re di Francia, nominarono una speciale balia per onorarlo e difenderlo e inviarono a Roma lo stesso fra' Bartolomeo, perché, nella sua qualità di predicatore generale del proprio Ordine, raccomandasse il B. ai senatori e a tutta la cristianità. Gli ufficiali di mercanzia, però, dopo un primo atteggiamento favorevole, non ritennero opportuno favorire B. per paura delle conseguenze che un tal gesto avrebbe potuto avere sull'andamento del commercio senese in Francia. Il B. non si perse d'animo, ma scrisse al pontefice, ai principi e ai Comuni italiani e si recò, insieme al notaio Paolo da Castiglion Fiorentino, a Cesena per accordarsi con il conte Lando, che gli promise il proprio aiuto; proseguì, quindi, per Bologna e per Venezia, dove un ebreo convertito, tal Daniello, gli promise l'aiuto dei propri ex correligionari, in cambio di privilegi in Francia, e quello dei Turchi e dei Tatari. Il B. passò, poi, in Ungheria, insieme a Baldo di Bino Albizzeschi, e, dopo varie peripezie, riuscì a convincere Luigi, dapprima diffidente, a sostenerlo, tanto che il re, persuaso anche da un vescovo senese (Francesco di Mino del Cotone ?), scrisse in favore del B. a tutti i potentati di Europa. Tornato a Venezia, il B. si fornì di un guardaroba regale, riannodò relazioni con l'ebreo Daniello e ricevette l'offerta di farsi signore di Perugia. Passato a Bologna, fu tenuto prigioniero da Giovanni Vìsconti da Oleggio, che temeva un colpo di mano da parte dei cavalieri tedeschi che scortavano il B., e fu liberato solo quando il conte Lando ebbe oltrepassato il contado fiorentino diretto a Roma. Il B., ridotto pressoché in miseria, vendute le armi e i cavalli, ritornò segretamente a Siena, dove, a seguito delle lettere del re di Ungheria, fu esentato, quale principe, da tutti gli uffici della Repubblica, e, da dove, dopo un colloquio con l'Acciaiuoli, il 31 marzo 1360 si recò in Avignone, in compagnia di un Andrea da Perugia e del senese Neri d'Andrea Beccarini. In Avignone ottenne un colloquio con il cardinal penitenziere, Francesco da Todi, che, a sua volta, ne informò il pontefice, ma Innocenzo VI in un concistoro dichiarò di non volersi occupare del Baglioni. Questi, rientrato in possesso dei documenti comprovanti il suo stato, rubatigli da Andrea da Perugia, e presi contatti con numerosi avventurieri toscani senza soldo, formò una compagnia, comandata da Jean de Vernai. Tradito da un certo Perrot, già amico dei prevosto dei mercanti, Marcel, ucciso da qualche anno, riuscì a fuggire in Provenza e a riannodare i rapporti con il de Vernai, che occupò con i suoi Pont-Saint-Esprit nei pressi di Avignone. Una taglia posta sul B. dal pontefice ed alcune complicate peripezie fecero sì che, il 7 genn. 1361, il B. restasse prigioniero di Jean de Caraman, luogotenente del siniscalco di Provenza; la stessa sorte incontrò il de Vernai, che fu avvelenato. Il B. riuscì nuovamente a fuggire, ma, ripreso e portato a Marsiglia, fu accusato come sodomita e falso monetario, delitti che confessò durante la tortura e che poi ritrattò. Alcuni mercanti senesi, che si trovavano a Marsiglia, ottennero che la sua prigionia fosse mitigata e che fosse condotto a Napoli, presso Luigi di Taranto. Portato, sempre come prigioniero, a Napoli, nel febbraio 1361, fu chiuso nelle carceri della Vicaria; di qui inviò numerose lettere al pontefice, alla regina e all'arcivescovo di Napoli, mentre i suoi concittadini ivi residenti cercarono di aiutarlo, tanto più che era stato considerato un giudizio celeste il fatto che il siniscalco di Provenza, che l'aveva perseguitato, fosse stato accusato di concussione e, poi, depredato dai corsari. Trasferito dalla Vicaria a Castel dell'Uovo, ove avrebbe scritto le proprie memorie, vi morì, dimenticato dai più, nel 1369.
Tutti gli studiosi che si sono occupati di questa Istoria sono d'accordo nel negare ad essa valore storico. Il disaccordo nasce al momento di giudicare quali parti siano del tutto favolose e quali ìnvece rispecchino, sia pure abbondantemente deformati, fatti realmente avvenuti. Sia il Maccari sia il Callegari ritengono infatti priva di fondamento tutta la prima parte della Istoria, dalle circostanze della nascita fino al ritorno del B. a Siena ed allo scoprimento della sua identità, col figlio del re di Francia. Ma mentre poi il Maccari ritiene che non si possa escludere del tutto la veridicità delle lettere di Cola di Rienzo al B. (18 sett., 7 ott. 1354), nelle quali sono contenuti tutti i documenti relativi alla presunta origine regia del B., il Callegari continua a ritenere frutto di fantasia anche tutto il resto della storia.
È certo che, al di fuori dei codici che contengono la Istoria, con cui è in stretta relazione il racconto della cosiddetta pergamena Mommerqué, nessun'altra fonte ci parla delle vicende legate alle rivendicazioni regali del B., in Italia e in Francia. È anche certo tuttavia che un Giannino Baglioni, figlio di Mino di Geri, visse a Siena alla metà del sec. XIV; ivi svolse attività mercantile, fu procuratore della casa di Misericordia, ricoprì infine cariche pubbliche, come stanno a provare una serie di documenti dell'Archivio di Stato che vanno dal 1342 al 1358. È anche del tutto probabile che questo mercante senese sia il "Zaninum senensem" cui allude il commentatore di Dante Benvenuto da Imola, come quello che pretendeva essere figlio del re di Francia: a proposito infatti dell'appellativo di "vana" che Dante fa dare da Sapia alla gente senese (Purg., XIII, 152) Benvenuto dice: "Et sic tetigit Dante de vanitate Senensium... Sed quid dixisset poeta noster si vidisset non est diu Zaninum senensem, qui permisit sibi persuaderi tam facile quam vane quod erat rex Franciae? et iam dabat dignitates et promittebat officia, dimissa propria hereditate".
Si sarebbe quindi tentati di concludere col Callegari che quanto ci dice l'Istoria sia frutto della fantasia d'un novelliere che costruì intorno ad un fatto vero (l'esistenza in Siena d'un B. che si riteneva legittimo successore al trono di Francia e che fece correre le sue pretese per il territorio senese e forse oltre) una vicenda fantastica in cui rientrano alcuni fatti tipici della novellistica trecentesca, come lo scambio dei fanciulli. Che le pretese di questo mercante senese, testimoniateci, oltre che dal quasi contemporaneo Benvenuto da Imola - il quale visse una trentina di anni dopo le gesta del B. -, dalla deliberazione del Gran Consiglio senese che ne prese atto escludendo il B. dalle cariche pubbliche cittadine, non abbiano oltrepassato i confini del contado senese, lo si deduce dal silenzio del Villani - a meno che non si voglia identificare col nostro il Gianni della Guglia nominato dallo storico fiorentino, che lo dice però sarto inglese -e degli altri cronisti che difficilmente avrebbero taciuto un personaggio che, secondo l'autore dell'Istoria, era riuscito a suscitare l'attenzione benevola di Cola di Rienzo, e quella insospettita di Innocenzo VI.
Il Maccari, invece, dà più credito alla Istoria; ritiene perciò che, per quanto riguarda le vicende del B. dopo la rivelazione della sua vera origine, siano da ritenere realmente verificatisi la corrispondenza con Cola, anche se solo nel senso che qualcuno poteva aver carpito la buona fede del tribuno, l'andata del B. in Ungheria, le sue peripezie in terra di Francia, nonché il suo imprigionamento a Napoli; ritiene infine che la Istoria sia stata scritta per esaltare la casa cui lo stesso autore, Tommaso Agazzini, apparteneva.
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