ROMANELLO, Giovanni Antonio
– Sono pressoché inesistenti le notizie storiche e archivistiche attorno alla vita di Romanello, poeta fiorito in Veneto nella prima metà del XV secolo, deducibili solo dai pochi dati trasmessi dalle poesie (venticinque sonetti) che varie testimonianze, manoscritte e a stampa, ascrivono al suo nome.
I vv. 3-7 di Quella antiqua cità, che per sudore – del sonetto cioè che fa da cornice alla raccolta di Romanello – fanno pensare a un’origine padovana, mentre con Bruno Bentivogli riconosciamo in Venezia il luogo in cui Romanello concepì e completò i suoi Rhythmi vulgares (così il titolo della princeps). Lo si evince dai vv. 9-14 del medesimo sonetto, testimoni anche di una sua vicinanza a un esponente della nobile casata veneziana dei da Lezze. A sostegno di questa tesi anche l’allusione – inclusa nei vv. 1-4 del sonetto Contrata ch’eri sempre in gioco e ’n festa e rilevata da Cristina Montagnani – alla contrada San Felice del sestiere veneziano di Cannaregio. La duplice indicazione non è però avallata da atti notarili conservati rispettivamente presso gli Archivi di Stato di Padova e di Venezia, il cui spoglio non fornisce alcuna indicazione in merito, né tantomeno dai repertori genealogici delle famiglie d’Italia, che omettono la discendenza dei Romanello.
La tradizione dei testi permette altresì di circoscrivere l’epoca in cui Romanello visse e operò. I venticinque sonetti a lui attribuiti sono giunti a noi grazie a otto testimoni, vale a dire la prima edizione a stampa e sette copie manoscritte: all’incunabolo veronese pubblicato da Giovanni Alvise e Alberto da Piacenza attorno al 1479, in cui ne figurano ventiquattro, si affiancano il manoscritto 1739 della Biblioteca Universitaria di Bologna – il codice Isoldiano –, che reca tutti i componimenti sinora noti; il manoscritto Acquisti e Doni 759 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, opera di Filippo Scarlatti, che ne tramanda uno; il Trivulziano 910 dell’omonima biblioteca milanese, di nuovo con ventiquattro sonetti; il codice Q.v.XIV, I della Biblioteca nazionale di San Pietroburgo, in cui ne compaiono due; il manoscritto Petr. I 5, della Biblioteca civica di Trieste e il 10 (Fondo principale) della Civica di Udine (quest’ultimo meglio conosciuto come codice Ottelio), che recano ventiquattro sonetti autografi di Felice Feliciano (gli stessi della princeps, ma in diversa successione); e infine il Rossiano 1117 della Biblioteca apostolica Vaticana, anch’esso di mano di Feliciano, che ne conserva sette. Tutte le testimonianze sono collocabili nella seconda metà del XV secolo. Mancano prove documentarie utili a meglio circoscrivere la datazione del manoscritto Trivulziano, mentre è possibile limitare al decennio 1460-70 la compilazione dei tre codici di Feliciano e, in particolare al 1465, stando agli studi di Roberto Benedetti, quella del triestino; ante 1475 risale l’allestimento del manoscritto di San Pietroburgo; agli anni Settanta-Ottanta quello del codice fiorentino; fra il 1471 e il 1494 è databile l’Isoldiano. Alla luce di questi dati, possiamo considerare il 1465 come il termine ante quem della composizione dei sonetti. Ne deriva che Romanello, impegnato nella stesura attorno agli anni Cinquanta del Quattrocento, sia nato a Padova presumibilmente nei primi anni (o decenni) del secolo.
Il legame genetico con i Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca va letto alla luce della circolazione padano-veneta delle rime di Romanello, parzialmente confermata dall’Isoldiano. L’impronta petrarchesca dei Rhythmi vulgares è in effetti indubitabile, a cominciare dalla struttura complessiva che, malgrado l’esiguità del corpus, è quella del libro di poesia (precocemente confezionato, peraltro, in volume a stampa). Avvalorano l’assunto la divisione in parti, la presenza dei due estremi narrativi e soprattutto la costruzione «di un discorso (romanzesco o autobiografico) rispettoso di una sua logica interna» (Santagata - Carrai, 1993, p. 33), che è appunto quella di Petrarca. D’altro canto al protopetrarchismo veneto rispondono, da Verona, i tre codici autografi di Feliciano e l’editio princeps, che chiari errori congiuntivi inducono peraltro a raggruppare in famiglia. E al medesimo ceppo è forse da assegnare anche il manoscritto Trivulziano, codice veneto che mostra relazioni testuali con i testimoni veronesi. Gruppo a parte costituiscono l’Isoldiano e l’altro codice di origine bolognese, vale a dire quello di San Pietroburgo, fra i quali si rilevano affinità nell’assetto variantistico. Rimane invece difficile da definire, per l’unico sonetto di cui il codice è testimone, il legame fra il manoscritto del fiorentino Scarlatti e le altre testimonianze. Il quadro qui delineato consente di riconoscere quindi nella città di Verona la sede privilegiata per la circolazione delle rime di Romanello e di identificare Bologna come il secondo centro di diffusione.
Malgrado l’accostamento di Romanello al più noto Giusto de’ Conti, che si affermò in area feltresco-romagnola (La bella mano di Giusto de’ Conti e i sonetti di Romanello vengono abbinati a più riprese dalla tradizione, in particolare nei codici Trivulziano e triestino e nella riedizione veronese dell’incunabolo, curata nel 1753 da Giannalberto Tumermani), sembra destituita di fondamento la notizia diffusa a suo tempo da Francesco Saverio Quadrio che considera Romanello un poeta di corte, fiorito – come i riminesi Cesare Agolanti e Francesco Rigazzi – sotto Malatesta Malatesti, signore di Pesaro (1366 ca.-1429). Noto per il suo mecenatismo e per l’ammirazione che riservò all’opera di Petrarca, di cui fu imitatore convinto, Malatesta intrattenne in effetti relazioni con molti esponenti dell’avanguardia petrarchista: né è da trascurare la presenza, fra questi, del poeta padovano Domizio Brocardo. Mancano però prove documentarie e la cronologia relativa – Malatesta morì nel 1429 – non depone a favore dell’affermazione di Quadrio.
Romanello, poco conosciuto oggi, lo era di più fra il XV e il XVI secolo se, come testimonia il Memoriale del copista padovano Bartolomeo Sanvito, pubblicato nel 1907 da Silvio De Kunert, il «libretto de li sonetti del Romanello» (p. 65) era considerato già nel primo decennio del Cinquecento un dono prezioso; e se il verso 14, «Lieto non è chi per altrui suspira», del suo sonetto Passa la nave mia de dolor carca (v. 14) diviene il motto di un emblema presente nell’esemplare degli Institutionum grammaticarum libri quatuor di Aldo Manuzio, conservato oggi presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia (Venezia, A. Manuzio - Andrea Torresano, 1514, Aldine, 332). Non è peraltro da sottovalutare il fatto che, secondo George Frederick Nott, l’opera di Romanello rappresenti la fonte petrarchesca dei sonetti del poeta inglese Thomas Wyatt (1503-1542): un tramite indiretto attraverso cui leggere i Rerum vulgarium fragmenta.
Non meno incerta l’attività di Romanello sul versante della poesia latina. Sono due i testi che – secondo le indicazioni, in certi casi equivocabili, fornite nel manoscritto Parigi, Bibliothèque nationale, Nouvelles acquisitions latines, 472 – alcuni studi hanno associato al suo nome, e cioè il Carmen in Danielem adulescentulum primarium e l’Elegia ad Lacteam Amasiam.
Possiamo anzitutto escludere che il Carmen – adespoto nel codice 433 di Holkham Hall – sia suo grazie alle testimonianze dei manoscritti di Gotha, Milano, Monaco e Treviso che lo assegnano a Porcelio (Porcellio) Pandone (Pandoni), noto anche come Giovanni Antonio Pandoni. L’attribuzione è in un certo senso avallata dal codice francese che nella rubrica reca il nome di «Ioannes Antonius Ro.» (per Romanus: originario di Napoli, Pandone preferiva infatti definirsi romano), appellativo che, se in passato ha fatto pensare a Romanello, in realtà è quasi sempre associato a Pandone: un’omonimia parziale quindi, in cui è da ricercare l’origine dell’errata attribuzione. Resta al contrario dubbia la paternità dell’elegia, che il codice francese ascrive in effetti a Ioannes Antonius Romanellus, ma che almeno altri due codici attribuiscono a un certo Renerius Romanus, e che un terzo assegna invece ad Antonius Moenius Romanus (l’identità di entrambi resta per il momento oscura). Né d’altra parte è possibile ricondurre a Romanello alcuni epigrammi e un’egloga latina, apparsi sotto il nome di Antonio Romanello (e non di Giovanni Antonio Romanello) in due stampe distinte – rispettivamente del 1510 e del 1525 (Epygrammata, s.l. s.d. [Bologna 1510]; Egloga. Metrophilus et Philartus, s.l. s.d. [Bologna 1525]) –: al carattere recenziore delle due cinquecentine, che di per sé porterebbe a escludere la paternità di Romanello, è da aggiungere che ogni riferimento interno ad accadimenti e persone è databile al primo quarto del Cinquecento. Troppo tardi quindi perché si tratti del nostro Romanello: verosimile invece un altro caso di parziale omonimia.
Sono sconosciuti la data e il luogo della morte.
Manoscritti delle poesie volgari. Bologna, Biblioteca Universitaria, 1739, cc. 259r-266r; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Acquisti e Doni, 759, c. 268rv; San Pietroburgo, Biblioteca nazionale, Q.v.XIV, I, cc. 51v-52r; Milano, Biblioteca Trivulziana, 910, cc. 101r-112v; Trieste, Biblioteca civica, Mss. Petr., I.5, cc. 169v-178r; Udine, Biblioteca civica, Fondo principale, 10, cc. 88r-96v; Biblioteca apostolica Vaticana, Rossi, 1117, cc. 29r, 31r-32r, 34v, 43r, 55v.
Manoscritti delle poesie latine. Gotha, Forschungsbibliothek, Mss. Chart., A.717, c. 21rv; Norfolk, Holkham Hall, Earl of Leicester Library, 433, cc. 100v-102v; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Trotti, 373, cc. 47v-48r; München, Bayerische Staatsbibliothek, clm.78, cc. 100v-101r; Paris, Bibliothèque nationale, Nouvelles acquisitions latines, 472, cc. 50r-52r; Treviso, Biblioteca comunale, 170, cc. 123r-124r; 125v-126r; Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat., 557, cc. 41v-42r.
Edizioni. Rhythmorum vulgarium clarissimi et famosissimi viri Ioannis Antonii cui Romanello cognomen est…, Verona, G. Alvise - Alberto da Piacenza, s.d. [ca. 1479]; La bella mano di Giusto de’ Conti Romano, con una raccolta di Rime antiche toscane, Verona, G. Tumermani, 1753; Le rime del codice Isoldiano (Bologn., Univ. 1739), a cura di L. Frati, II, Bologna 1913, pp. 181-192, 195.
Fonti e Bibl.: F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, II, 1, Bologna-Milano 1741, p. 205; The works of Henry Howard Earl of surrey and of Sir Thomas Wyatt the Elder, a cura di G.F. Nott, II, London 1816, p. 571; S. De Kunert, Un padovano ignoto ed un suo Memoriale de’ primi anni del Cinquecento (1505-1511) con cenni su due Codici miniati, in Bollettino del Museo civico di Padova, X (1907), pp. 64-73 (in partic. p. 65); Renascence and Reformation: the new English poetry, in The Cambridge history of English and American literature, a cura di A.W. Ward et al., III, 8, Cambridge 1909, pp. 166 ss.; B. Bentivogli, Appunti sui sonetti di G.A. R., in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di A. Quondam - M. Santagata, Modena 1989, pp. 117-122; M. Santagata - S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano 1993, pp. 31-39; C. Montagnani, Un canzoniere quattrocentesco: i “Rhythmi vulgares” di G.A. R., in Letteratura, verità e vita: studi in ricordo di Gorizio Viti, a cura di P. Viti, I, Roma 2005, pp. 197-218; R. Benedetti, Scheda IV. 20: Antologia poetica (allestita da Felice Feliciano), Trieste, Biblioteca Civica “A. Hortis”, ms. Petr. I 5, in Petrarca e il suo tempo. Catalogo della mostra: Padova 8 maggio - 31 luglio 2004, Milano 2006, pp. 429-432; C. Montagnani, La festa profana. Paradigmi letterari e innovazione nel codice Isoldiano, Roma 2006, pp. 57-69; Ead., G.A. R., in Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento (ACAV), a cura di A. Comboni - T. Zanato, Firenze 2015, ad vocem.