RANZA, Giovanni Antonio
RANZA, Giovanni Antonio. – Nacque a Vercelli il 19 gennaio 1741, figlio di Pietro, un pizzicagnolo originario di Oleggio morto nel 1744, e di Lucrezia Conti, brianzola. Sveglio e intelligente, ottenne una borsa al Collegio delle province, entrando nel 1759 alla facoltà di teologia dell’Università di Torino. Sebbene destinato alla carriera ecclesiastica, scelse di passare alla facoltà di arti (studi letterari), dove si diplomò nel 1764. Nel 1765 fu nominato professore di retorica a Vercelli. Nel 1771 sposò Anna Maria Chiaverotti, di famiglia di commercianti, da cui avrebbe avuto sette figli (quattro morti infanti). Per sposarsi dovette lasciare l’insegnamento e vivere del suo patrimonio, integrato dai guadagni della propria attività di scrittore e studioso.
Negli anni Sessanta realizzò le sue prime prove letterarie, legate all’ambiente dell’aristocrazia cittadina. Nel 1777 avviò una propria attività editoriale, aprendo la Tipografia Patria, espressione più alta della cultura della provincia subalpina del Settecento. Attivi sino al 1790, nell’arco di tredici anni i suoi torchi stamparono circa ottanta volumi e un centinaio di opuscoli.
Nella produzione spiccavano numerose opere scientifiche, fra cui vanno ricordate almeno l’Introduzione alla medicina pratica del dottor collegiato torinese Pietro Anselmo Gallo (1779), il Consulto teologico-morale […] in favore dell’innesto del vaiolo di Francesco Raimondo Adami (1783), la Teoria e pratica per conoscere prossimamente la quantità dell’acqua contenuta nei vini da cui si deduce la reale bontà di essi (1787). Un interesse particolare di Ranza, che esprimeva il suo sincero e profondo impegno civile, era quello verso la storia cittadina. Di grande rilievo in questo senso fu la polemica contro la distruzione dell’antica basilica romanica di S. Maria Maggiore, operata nel 1777. Lungo tutta la sua attività di editore pubblicò diversi opuscoli per illustrare il valore artistico della basilica distrutta e dei suoi importanti mosaici, salvatisi solo in parte. Questa sua azione ebbe fra i suoi principali bersagli monsignor Gaetano Costa d’Arignano che, come vescovo di Vercelli, aveva deciso la distruzione della basilica e che era poi divenuto arcivescovo di Torino (Ranza riuscì a far pubblicare un testo in merito anche dalla Stamperia Reale nel 1784, segno della considerazione di cui egli allora godeva a corte e negli ambienti culturali torinesi).
Negli stessi anni, continuò a collaborare con la nobiltà vercellese, con la stesura di testi per avvenimenti pubblici e privati. Anche per accreditarsi ai loro occhi, iniziò a presentarsi come appartenente a un ramo dell’antica famiglia dei Ranzo, una delle principali della Vercelli medievale, estintasi pochi anni prima della sua nascita. Per ricavare il marchio della Tipografia, per esempio, egli usò una variante dello stemma Ranzo, dichiarando d’aver modificato il suo «gentilizio stemma».
La svolta nella vita di Ranza avvenne nel 1790. Da tempo vi era una forte tensione fra la nobiltà di Vercelli, che monopolizzava le cariche pubbliche, e la borghesia, che ambiva ad averne. Nell’estate di quell’anno alcuni ‘laghisti’ (termine con cui si indicavano i commercianti provenienti dalla zona dei laghi) protestarono contro tale situazione. La nobiltà ottenne il loro arresto da parte del governatore. Ranza preparò allora una memoria in loro difesa che inviò al segretario di Stato agli Interni Pietro Graneri. Cercava così di proporsi come interlocutore del potere, in rappresentanza della borghesia vercellese. A Torino, però, il rifiuto fu assoluto. Un anno dopo, fu deciso il suo arresto. Il 10 luglio fuggì allora a Lugano. Iniziò così un’attività politica destinata a protrarsi per un decennio e a fare di Ranza una delle figure di spicco del movimento giacobino e democratico italiano. Fra le opere allora pubblicate va ricordata almeno la Supplica degli ebrei francesi presentata dai loro deputati all’Assemblea Nazionale e risposta di G.A. Ranza cristiano piemontese (Lugano 1791) in cui, riprendendo tutti i temi principali dell’antigiudaismo, proponeva che gli ebrei fossero ammessi a godere i diritti di cittadinanza solo se si fossero convertiti, abiurando la legge talmudica. L’antigiudaismo sarebbe restato una costante del suo pensiero.
A Lugano restò poco perché, urtatosi con la autorità svizzere, dovette lasciare la città a fine agosto per evitare l’arresto e l’estradizione negli Stati sabaudi. A metà settembre era in Corsica, dove conobbe Filippo Buonarroti. Dopo quasi un anno nell’isola, nell’agosto del 1792 era a Genova, dove cercò di ottenere il permesso di rientrare in patria, soprattutto per riunirsi alla famiglia ma, compreso che questa strada non era più percorribile, si trasferì a Nizza, ormai occupata dai francesi, dove giunse il 21 ottobre 1792. Qui, dal 3 gennaio al 27 giugno 1793, pubblicò il Monitore italiano politico e letterario (stampato prima a Monaco e poi a Nizza), in cui, fra le altre cose, si diceva a favore di un Piemonte indipendente e repubblicano. Nel settembre del 1794 fu arrestato dalle autorità francesi ed espulso. Si trasferì allora a Genova, dove restò sino alla primavera del 1796. Da qui rientrò in Piemonte, dove le truppe di Napoleone avevano provocato il collasso degli Stati sabaudi. Divenne così protagonista – con Ignazio Bonafous – della breve esperienza della Repubblica di Alba (26-28 aprile 1796). Un mese più tardi era a Milano, dove rimase un paio di anni. Nell’ottobre del 1796 organizzò un’infelice insurrezione nel Novarese. Il governo sabaudo ottenne il suo arresto e per due mesi Ranza dovette nascondersi per sfuggirvi.
Nel giugno del 1797 pubblicò l’Esame della confessione auricolare e della vera chiesa di Gesù Cristo, aperto dal suo ritratto a opera di Giocondo Albertolli, e poi la quarta e definitiva edizione del trattato Vera idea del federalismo (la cui prima edizione era apparsa nel 1796), in cui proponeva una confederazione fra repubbliche come soluzione al problema dell’unità italiana. Si trattava, peraltro, di un progetto confederale che nasceva da esigenze politiche contingenti, e che lo stesso Ranza avrebbe poi ampiamente rivisto nei suoi ultimi anni piemontesi. La pubblicazione delle Riflessioni […] sopra la Costituzione della Repubblica Cisalpina gli valse in luglio un nuovo arresto. Liberato, diede vita a un’intensa attività giornalistica, destinata a proseguire con poche pause sino alla sua morte. Il 22 settembre 1797 uscì il primo numero dell’Amico del popolo. Giornale istruttivo, apparso sino al 15 aprile 1798, quando Ranza fu ancora arrestato. Rimesso in libertà a fine maggio, avviò una seconda serie del giornale, questa volta mensile, in cui il titolo variava in L’amico del popolo. Varietà istruttive. La pubblicazione s’interruppe alla metà di agosto. A inizio settembre diede vita al Foglio del momento, di cui apparvero tre numeri, sino al 23 settembre 1798 quando venne espulso dalla Cisalpina. Trasferitosi a Genova, vi pubblicò una terza serie dell’Amico del popolo. Varietà istruttive, di cui apparvero due tomi in novembre. Il mese dopo, in seguito alla forzata partenza di Carlo Emanuele IV dai suoi Stati, Ranza poté tornare in patria. In questo periodo aveva pubblicato anche diversi libri, fra cui Principi religiosi e morali ad uso dei piccioli repubblicani (Milano 1796).
Nel dicembre del 1798 poté tornare finalmente a Vercelli, dopo otto anni di peregrinazione. A fine mese era a Torino, dove, il 1° gennaio 1799, tenne un discorso a favore dell’unione del Piemonte alla Francia (Discorso del repubblicano Ranza sopra l’unione del Piemonte alla Francia, Torino 1799). Durante la prima occupazione francese egli fu uno dei personaggi più attivi sulla scena politica torinese, ma non diede vita ad alcun giornale, concentrando la sua attività sul problema dell’annessione. Arrestato all’arrivo degli austro-russi, fu detenuto prima a Torino, poi a Vigevano e infine ad Alessandria. Liberato dopo Marengo, rientrò a Torino nel luglio del 1800 e lì, nel giro di poche settimane, fondò il quotidiano L’amico della patria, il cui primo numero apparve il 22 agosto. Lo stesso giorno, Ranza fu nominato «istoriografo nazionale». Nel giro di due mesi, però, si scontrò con il governo e il suo giornale fu chiuso. Riprese l’attività giornalistica prima con L’amico della patria, apparso per un solo numero, e poi dal gennaio del 1801 con l’Anno patriottico. Varietà istruttive compilate dal cit. Ranza.
L’ultimo periodo torinese vide una ripresa di alcuni dei temi cui più era legato. Innanzitutto la sua volontà di riforma della Chiesa, che doveva rinnovarsi tornando a quelli che egli riteneva i principi evangelici originari, faceva i conti con il suo chiaro pragmatismo. Avendo visto di persona, durante il Terrore, gli effetti della Costituzione civile del clero, riteneva che questa situazione fosse assolutamente da evitare in un Paese tanto cattolico come l’Italia. A fronte di tale rinnovamento, le repubbliche avrebbero dovuto mantenere al cattolicesimo un ruolo preminente, pur tollerando anche gli altri culti. Nel dicembre del 1800 intentò causa conto i capi della fazione aristocratica vercellese a lui avversa. Il tema dell’indennizzo ai ‘patrioti’ era allora all’ordine del giorno, ma il clima politico stava cambiando e a Parigi (quindi, di conseguenza, anche a Torino) si iniziava a cercare l’accordo con le precedenti classi dirigenti.
Mentre la causa aveva stancamente inizio, morì a Torino l’11 aprile 1801, fra le braccia della moglie, dopo aver ricevuto l’estrema unzione. Le esequie si tennero «con numeroso seguito» la sera del 22 nel Duomo di Torino, dove le orazioni funebri furono tenute da Auguste Hus e Angelo Penoncelli (Giornale dell’Eridano, 25 germile IX / 15 aprile 1801). Suo erede fu il figlio Giovanni Buonincontro Ranza, architetto, alla cui morte nel 1830 andò dispersa parte del suo archivio.
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