SERRAO, Giovanni Andrea
– Nacque in Calabria a Castelmonardo il 4 febbraio 1731, primogenito di Bruno e di Giuditta Feroce.
Destinato al sacerdozio, frequentò il seminario di Melito sino al 1759, quindi si trasferì a Roma per compiere un cursus studiorum del tutto privato presso l’oratorio di S. Girolamo della carità. Una vocazione mai forzata e l’impegno per non deludere le attese dei parenti ne caratterizzarono la giovinezza austera in un’assidua frequentazione del Circolo dell’archetto, animato da Giovanni Bottari e Pier Francesco Foggini, esponenti del giansenismo romano. Sotto la loro guida conobbe il richiamo alle origini del cristianesimo come ispirazione ideale di vita e coltivò una particolare visione ecclesiologica, coniugando l’anticurialismo meridionale con le aspirazioni alla riforma della Chiesa e un deciso orientamento antigesuitico. Lo testimoniò nel De vita et scriptis Jani Vincentii Gravinae (Romae 1758), dedicato a Manuel de Roda y Arrieta. La conoscenza del pensiero graviniano lo spinse a indagare il problema giuridico-teologico della bolla Unigenitus e costituì una lezione di storicità che lo avrebbe sostenuto in ogni circostanza.
Vincendo l’opposizione del padre, tornò a Castelmonardo e accettò l’invito del vescovo Felice de Pau, noto filogiansenista, a reggere il seminario di Tropea. Fissò la dimora a Napoli solo quando, ottenuto un beneficio di jus patronatus, poté disporre di risorse sufficienti. Lo accompagnava il fratello Elia, divenuto allievo di Giuseppe Pasquale Cirillo, uno dei più influenti esponenti della giurisprudenza culta: con entusiasmo, l’uno nella carriera ecclesiastica, l’altro nell’avvocatura, i due germani scoprivano come la politica dei Borbone offrisse ai meriti personali spazi sicuri. A introdurli nell’ambiente della corte fu Niccolò Fraggianni, delegato della Real Giurisdizione, definito ‘papa Nicola’ per la fermezza con cui contrastava Roma. Così Serrao entrò a far parte della schiera di ecclesiastici paladini dei diritti regi, indispensabili per qualunque governo volesse entrare in conflitto con la Chiesa. Nessun rapporto sembra invece l’abbia legato alla curia napoletana.
La scelta di campo teologico fu chiara nelle opere: il De sacris Scripturis liber (Neapoli 1763) sosteneva l’opportunità che i fedeli leggessero la Bibbia in italiano; il De Claris Cathechistis (Neapoli 1769) definiva il contributo di Alfonso de’ Liguori «non degno di rilievo» e difendeva l’opera di François-Philippe Mésenguy, ricostruendone la storia della condanna. Una prima milizia regalista si era manifestata nella denuncia dei guasti provocati dalla feudalità ecclesiastica: le annotazioni alle consulte di Stefano Patrizi sulle doti delle monache (1766) procurarono all’autore la definizione di «grande teologo» da parte di Antonio Genovesi, che ne era il revisore, e incontrarono l’entusiastico consenso del fronte anticurialista per gli espliciti richiami a Pedro Rodríguez de Campomanes, campione della lotta alle proprietà del clero.
Con un fondamentale apporto filologico al dibattito teorico sulla manomorta, il regalista calabrese, riconoscendo nei «Predecessori» di Federico i normanni e non i bizantini, confermava la contestata continuità delle leggi normanno-sveve che né investiture, né concordati avrebbero potuto eliminare. Nella tragica congiuntura della carestia del 1764, le Constitutiones di Federico II vivevano una singolare fortuna negli ambienti giannoniani fecondati dal magistero genovesiano, ispirando provvedimenti quali l’incameramento dei beni dei gesuiti o il dispaccio tanucciano del 1769 con il richiamo a una stretta osservanza della Praedecessorum nostrorum.
In quasi vent’anni Serrao partecipò alle principali iniziative riformatrici napoletane stringendo amicizie significative sul piano culturale e politico nel circuito di accademie come quella dell’Arboscello. Nel 1767, dopo la cacciata della Compagnia di Gesù, tenne la solenne prolusione per l’apertura delle regie scuole del Salvatore, dove, su segnalazione dell’abate Genovesi, gli fu affidato l’insegnamento di catechismo, mentre nel 1779 fu designato segretario della Reale Accademia di scienze e belle lettere, probabilmente grazie ad Alfonso Airoldi, cugino e consigliere di Giuseppe Beccadelli marchese della Sambuca, ed esponente della massoneria siciliana.
Come scriveva all’abate Augustin-Jean-Charles Clément, autorevole sostenitore della ‘sana dottrina’, conosciuto attraverso Foggini, Serrao aspirava al ministero episcopale, senza nascondere la preferenza per la chiesa di Crotone, vicina alla sua patria e «celebre nell’antichità per il domicilio di Pitagora» (Serrao all’abate Clément, Napoli 18 gennaio 1772, in Chiosi, 1980, p. 351). Solo il 7 giugno 1782 arrivò la nomina regia a vescovo di Potenza. La designazione premiava una provata fedeltà alla monarchia, ma rappresentava la volontà del governo di cercare più contrasti che ‘accomodamenti’ con la S. Sede. Per le simpatie giansenistiche, infatti, l’eletto era notoriamente sgradito al pontefice, che pretese la sottomissione alla bolla Unigenitus. L’intera vicenda divenne un casus belli che impegnò a fondo la diplomazia non solo romana e napoletana, ma anche spagnola.
Durante il forzato soggiorno a palazzo Farnese, dove si procurò la rottura di un femore, Serrao fu raggiunto dalla notizia del terremoto che nel 1783 sconvolse la Calabria, distruggendo Castelmonardo. Senza esitare incitò i parenti a collaborare alla realizzazione dei piani del sovrano per spostare l’insediamento abitativo in una zona sicura. Molto apprezzato, l’impegno civico della famiglia fu ricompensato con l’ascesa al patriziato. La tragica vicenda, che avrebbe potuto schiacciare la famiglia Serrao, sembrò invece offrire insperate possibilità di consolidamento e accrescimento del patrimonio dopo l’istituzione della Cassa sacra, consentendo di partecipare al fenomeno di privatizzazione delle terre ecclesiastiche. Il vescovo, che nel 1774 aveva offerto nella lettera A’ suoi fratelli premessa a L’Economia di Senofonte una sorta di illuminato decalogo per il patriziato agrario meridionale, avrebbe invece maturato la decisione di istituire un fedecommesso (1793) per assicurare alle future generazioni il possesso dei beni e l’accesso, soprattutto attraverso l’avvocatura, a carriere prestigiose.
La Filadelfia calabra si richiamava ai modelli dell’antico nel nome e nella pianta: lo precisava Elia Serrao nella sua storia del terremoto, escludendo ogni riferimento alla omonima città americana e, tuttavia, pubblicando contestualmente i versi in cui l’amico abate Antonio Jerocades elogiava la Philadelphia d’Oltreoceano e Benjamin Franklin, «l’invitto pensilvano» apostolo del latomismo internazionale. Anche se Andrea Serrao non compare nelle liste degli ecclesiastici massoni, in cui del resto sono assenti nomi di sicura appartenenza, molti indizi sembrano avvalorare l’ipotesi della sua affiliazione: il sostegno dell’ambiente dell’anticurialismo ministeriale, l’amicizia con Gaetano Filangieri e altri noti liberi muratori come Isidoro Bianchi e Antonio Planelli, il rammarico di Teodoro Münter per non averlo incontrato nel suo viaggio nel Regno di Napoli, lo stemma municipale di Filadelfia, rappresentato da due mani che si stringono in un simbolico e ‘fraterno’ patto sociale.
Quando il governo borbonico chiese ai regalisti esperti di storia della Chiesa il sostegno a una più radicale azione politica, Serrao nel 1788 pubblicò due opuscoli anonimi: in uno sosteneva l’autenticità della Prammatica di Luigi IX re di Francia, nell’altro si difendeva dalle critiche del Giornale ecclesiastico rivelando un monarchismo di stampo bossuettiano. Da vescovo zelante era deciso, come scriveva a Scipione de’ Ricci, a esercitare il mandato «da vero successore degli Apostoli» e nella prima lettera pastorale si dichiarava strumento della diffusione della ‘sana dottrina’ (Serrao a Scipione de’ Ricci, Potenza 7 dicembre 1783, in Chiosi, 1980, pp. 391-393). A trenta giorni dall’ingresso nella diocesi di Potenza aveva già effettuato la visita pastorale e l’avrebbe ripetuta dopo solo sei mesi, pur costretto a compiere parte degli spostamenti su un mulo. Convocò subito anche il sinodo diocesano, ma presto dovette sperimentare le contraddizioni della politica regalistica interessata ad accrescere il potere dell’episcopato contro Roma controllandone ogni iniziativa. Pastore di un popolo superstizioso e analfabeta, ma soprattutto poverissimo, dovette frenare l’attivismo riformatore. I membri del Capitolo, gelosi custodi di antichi privilegi, favorivano un clima di tensioni all’interno di una società caratterizzata da un clero ribelle a ogni disciplina, da una nobiltà feudale prepotente e da un ceto borghese diviso da interessi contrastanti per inserirsi nei meccanismi di appropriazione delle terre feudali o demaniali. Anche in queste irrisolte discordie sono da ricercare le radici del tragico epilogo del 1799.
Con la scoperta delle congiure del 1794 e del 1795 un clima di sospetto si addensava sui protagonisti di tante battaglie regaliste: già sotto sorveglianza, il vescovo fu costretto a sospendere la corrispondenza con i protagonisti francesi della lotta per la riforma della Chiesa. Quando il 3 febbraio 1799 a Potenza venne innalzato l’albero della libertà, fu proprio lui a compiere gli atti formali della democratizzazione.
Esperienza comune ad altri esponenti dell’episcopato non solo meridionale, la pronta scelta repubblicana di Serrao non può essere spiegata solo come tradimento della monarchia e adesione giacobina, ma va letta nella sua complessità. Contestualizzata nella società meridionale di antico regime, va riferita alle precoci opzioni culturali e religiose e soprattutto alla consapevolezza, derivata attraverso Gian Vincenzo Gravina dallo stoicismo seicentesco, della precarietà di ogni forma di governo.
A sostegno dell’adesione al nuovo governo il vescovo, come altri prelati cosiddetti giacobini, ribadì l’origine divina di ogni potere, anche di quelli elettivi, e ripropose la massima di s. Paolo sulla necessaria obbedienza all’autorità costituita, perché voluta da Dio.
Prima che le bande sanfediste arrivassero a Potenza, il 24 febbraio 1799 Serrao fu brutalmente ucciso nell’episcopio con il rettore del seminario e i fratelli Giovanni e Nicola Siani: le loro teste, issate su alte picche, furono esposte al pubblico ludibrio.
Il velo di omertà che coprì l’eccidio favorì una diffusa volontà di destructio memoriae e fornì elementi alla costruzione del mito giacobino, annunciato a Parigi dall’abate Grégoire, uno dei fautori della Costituzione civile del clero, coltivato nelle logge massoniche, enfatizzato dalla posterità risorgimentale. In realtà l’esistenza di Serrao offre in modo emblematico l’opportunità di ripercorrere le fasi del riformismo settecentesco e di ricostruire l’intreccio di condizionamenti in cui alcuni rappresentanti delle alte gerarchie ecclesiastiche maturarono le loro scelte di fronte alla rivoluzione.
Opere. Oltre a quelle citate nel testo: Stephani Patritii De recta dotium monasticarum ratione ineunda Consultatio cum adnotationibus J.A. Serrai, Neapoli 1766; Apologeticus, Neapoli 1771; Epistola ad Dominicum Alfenum Varium I. C., Neapoli 1774; L’Economia di Senofonte di greco tradotta in italiano con la prefazione e le annotazioni di Andrea Serrao, Napoli 1774; Istruzione pratica ed orazioni per li sacramenti della Confessione e della Comunione per uso della diocesi di Potenza, Napoli 1788; Ragionamento dell’autorità degli arcivescovi del Regno di Napoli di consacrare i vescovi, [Napoli] 1788; Risposta all’autore del Giornale ecclesiastico di Roma..., Napoli 1788.
Fonti e Bibl.: Per una dettagliata ricostruzione della biografia di Serrao, delle fonti, delle sue opere e della bibliografia sino al 1980: G. Cigno, G.A. S. e il giansenismo nell’Italia meridionale: sec. XVIII, Palermo-Lovanio 1938; E. Chiosi, A. S. Apologia e crisi del regalismo nel Settecento napoletano, Napoli 1980. Per le tematiche relative al giansenismo: E. Dammig, Il movimento giansenista a Roma nella seconda metà del secolo XVIII, Città del Vaticano 1945, p. 373, che sostiene la conversione di Serrao al giansenismo, ridimensionata invece in P. Stella, Il giansenismo in Italia, II, Il movimento giansenista e la produzione libraria, Roma 2006, pp. 264-273; A. Cernigliaro La Costituzione Praedecessorum Nostrorum: una chiave di lettura dei rapporti tra Stato e Chiesa, in Frontiera d’Europa, XI (2005), 1, pp. 5-89. Sull’appartenenza dei Serrao alla massoneria: E. Serrao, De’ tremuoti e della nuova Filadelfia. Comentario, Napoli 1785; A. Pace, Benjamin Franklin and Italy, Philadelphia 1958, pp. 157-166; R. del Castiglione, La massoneria nelle Due Sicilie e i ‘fratelli’ meridionali del ’700, IV, Le Province, Roma 2013, pp. 125-130, 220-225. Riguardo alla borghesia agraria: A. Placanica, Alle origini dell’egemonia borghese in Calabria: la privatizzazione delle terre ecclesiastiche (1784-l815), Salerno-Catanzaro 1979. Sul giacobinismo: G. Cingari, Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799, Messina-Firenze 1957; T. Pedio, Uomini, aspirazioni e contrasti nella Basilicata del 1799. I rei di Stato lucani, Matera 1961; Patrioti e insorgenti in provincia: il 1799 in terra di Bari e Basilicata, Atti del Convegno di Altamura-Matera... 1999, a cura di A. Massafra, Bari 2002, passim.