ROMEO, Giovanni Andrea
– Nacque il 4 luglio 1786 a Santo Stefano, in Aspromonte, da Gabriele e da Rosa Suraci.
Crebbe in una famiglia di professionisti e proprietari locali, particolarmente radicata nel Reggino e nella politica provinciale. Nella crisi degli anni Novanta del Settecento, il padre, medico, si schierò all’opposizione del regime borbonico.
Giovanni Andrea e il fratello Domenico fecero poi parte del vasto segmento di borghesia provinciale che aderì con entusiasmo all’esperimento napoleonico. La monarchia francese offrì, infatti, al notabilato napoletano, oltre che un progetto modernizzatore, spazi di potere e partecipazione politica. Romeo entrò nell’esercito murattiano come ufficiale del genio, mentre la famiglia fu coinvolta nel governo locale. Il governo napoleonide registrò anche una forte opposizione legittimista, sostenuta dagli inglesi e da re Ferdinando IV fuggito con la famiglia a Palermo. Romeo, tornato in Calabria, assunse il comando dei paramilitari del suo distretto, impegnati nella sanguinosa repressione del brigantaggio filoborbonico. Appena restaurati i Borbone, egli fu imprigionato nel castello di Pizzo, ma per poco. La politica di pacificazione voluta dagli alleati del Borbone e governata da Luigi de’ Medici cercò di assorbire la frattura decennale della società meridionale, rivelatasi impossibile da superare per la profonda politicizzazione del Mezzogiorno determinata dalle rivoluzioni e dalle guerre dell’Impero. Parte di un notabilato dotato di complesse e solidali reti familiari e clientelari, i Romeo furono capaci di mescolare progetti ideologici e interessi locali, raccolti dalla carboneria, che nei primi anni della Restaurazione raggiunse dimensioni di massa. Giovanni Andrea, che nel frattempo aveva sposato Caterina Marra, fu tra i più popolari capi dell’organizzazione.
In uno dei rastrellamenti diretti dal generale Vito Nunziante in Calabria poco prima della rivoluzione costituzionale, quando Romeo e altri collaboratori furono arrestati a Santo Stefano, i militari dovettero registrare la minacciosa resistenza di tutti gli abitanti del paese. Il radicamento della carboneria emerse nella rivoluzione dell’estate 1820. I Romeo e gli altri liberali si impadronirono immediatamente delle istituzioni locali poco dopo il pronunciamento di Nola avvenuto nella notte fra il 1° e il 2 luglio 1820. Lo sforzo fu però inutile, per la disastrosa sconfitta dell’esercito costituzionale nel marzo del 1821 e la terza restaurazione assolutista di Ferdinando I.
Negli anni successivi i Romeo si impegnarono in una impresa per lo sfruttamento dello zolfo siciliano, ma furono penalizzati dal conflitto tra Ferdinando II e gli inglesi. Contemporaneamente, continuava il loro impegno politico. All’inizio degli anni Quaranta il movimento liberale, in genere su posizioni neoguelfe, si riorganizzò intorno al comitato centrale napoletano e in stretta relazione con i costituzionali siciliani. Del gruppo furono parte importante i calabresi, fra i quali spiccavano i Romeo, e altre famiglie con simili caratteristiche politico-sociali, come a Reggio i Plutino, i Mauro, gli Stocco.
Anche se non mancavano settori radicali, forti in alcune province, l’obiettivo era ripetere, e correggere, il 1820, ossia avviare una rivolta coordinata fra la Sicilia e le province per ottenere la costituzione, ma con una novità importante: il progetto di una federazione con gli altri Stati italiani, che testimoniava il successo anche nel Sud del movimento nazionale filoitaliano. L’organizzazione clandestina era sottoposta a un alternarsi di esaltazione e depressione, stimolato dal nuovo clima creatosi nella penisola, ma anche dalle suggestioni proprie di una organizzazione segreta.
Nel 1847 i patrioti erano oramai convinti della maturità del movimento insurrezionale, ma non riuscirono a coordinarsi. Nell’estate, i liberali di Reggio, in accordo con il comitato di Messina, decisero di tentare un colpo di mano. I borbonici sgominarono però subito gli insorti nella città siciliana. Contemporaneamente i Romeo, fra i quali i figli di Giovanni Andrea, insieme ai Plutino, ai De Lieto e al canonico Paolo Pellicano riuscirono a impadronirsi di Reggio, mostrandosi capaci di mobilitare il tessuto familiare e sociale del circondario. Giovanni Andrea, nominato comandante delle forze insurrezionali, riuscì a ottenere la resa della guarnigione, ma nel giro di poche ore i patrioti dovettero fare i conti con l’evidente fallimento della rivolta. Le forze regolari conversero, infatti, sulla città per mare e per terra. Gli insorti cercarono di rifugiarsi nelle montagne, ma le truppe borboniche e le guardie urbane iniziarono subito un rastrellamento a tappeto. Molti furono catturati e giustiziati sul campo. Domenico Romeo e un gruppetto furono intercettati dai paramilitari realisti. Il fratello di Giovanni Andrea fu ucciso, decapitato e la sua testa portata in trionfo a Reggio. Tutti gli altri furono catturati e condannati a morte, anche se poi la pena fu commutata.
Pochi mesi dopo lo scenario politico cambiò radicalmente. Ferdinando II dovette concedere la costituzione, dopo la rivolta armata in Sicilia e la mobilitazione politica delle province napoletane. Giovanni Andrea passò dal carcere alla guida dell’Intendenza di Salerno. Nelle successive elezioni, in Calabria i liberali conquistarono tutti i collegi, lasciandone uno solo ai sostenitori della monarchia. Il nipote Stefano (1819-1869) fu eletto e nominato segretario della Camera. I liberali calabresi furono fra i più decisi oppositori del re e fra i più determinati negli scontri di strada del 15 maggio a Napoli. In prima linea nella crisi fra la maggioranza parlamentare e la monarchia, Romeo fu destituito. Nel frattempo, in Calabria iniziò la rivolta, ma fu rapidamente sgominata dal massiccio intervento borbonico. Il comitato insurrezionale di Reggio si sciolse. Giovanni Andrea, il figlio Pietro Aristeo (1817-1886) e il nipote Stefano presero la via dell’esilio. Altri parenti furono arrestati, molti si diedero alla latitanza. Il secondo figlio di Giovanni Andrea, Raffaele, e altri familiari, grazie alla rete di solidarietà delle popolazioni locali, riuscirono a resistere in clandestinità nell’Aspromonte fino al 1860. Gli emigrati giunsero a Roma, poi si divisero: Giovanni Andrea e il figlio Pietro al Nord, mentre Stefano, come molti meridionali, cercò fortuna nell’Impero ottomano.
Per il suo antico prestigio, nell’ottobre del 1848 Giovanni Andrea fu nominato nell’assise di Torino presidente della rappresentanza meridionale al Congresso nazionale per la confederazione italiana. Nell’assemblea fu protagonista di un vivace confronto su una sua proposta a favore del suffragio universale maschile, vicina all’idea di Costituente italiana lanciata in quegli stessi giorni a Livorno da Giuseppe Montanelli. Fu in quello snodo che maturò un definitivo giudizio negativo sul giobertismo. Stabilizzatosi a Torino, Romeo divenne un riferimento dell’emigrazione meridionale, in stretto rapporto con il colto e raffinato conterraneo Casimiro De Lieto, profondo conoscitore della politica europea. Romeo, dirigente e memoria storica del movimento liberale, si ambientò nella capitale del nazional-patriottismo italiano, stringendo rapporti con i suoi capi più importanti e contribuendo alla definitiva scelta dell’emigrazione meridionale a favore della politica del conte Camillo Benso di Cavour e della monarchia sabauda. Fu tra i promotori della Società dell’emigrazione delle Due Sicilie di Torino, di cui fu eletto presidente, coinvolgendo nel gruppo dirigente altri emigrati influenti come Michelangelo Pinto e Pasquale Stanislao Mancini. Nella Società fu creato anche un comitato siculo-calabrese e avviata una stretta collaborazione con il centro genovese presieduto da Gennaro Sambiase Sanseverino, duca di San Donato. Romeo fu particolarmente impegnato, grazie al sostegno del governo piemontese, nell’assistenza agli emigrati attraverso sussidi, residenze, permessi di soggiorno.
In quegli anni molti suoi amici, come Aurelio Saliceti e Francesco Stocco, espressero simpatie per l’erede dell’ex sovrano Gioacchino Murat in contrapposizione alla monarchia borbonica. Romeo era freddo verso questa opzione politica, considerando irreversibile la scelta a favore di Casa Savoia e dell’unità del movimento nazional-patriottico, ma con il suo prestigio e le sue doti di mediazione politica contribuì a evitare fratture all’interno dell’emigrazione meridionale.
Viaggiò in Europa (spesso insieme al figlio Pietro, diventato a Genova un importante ingegnere), conoscendo personalità importanti, tra le quali Giuseppe Mazzini, ed esponenti della politica internazionale. Soprattutto fu impegnato nella principale attività dell’emigrazione meridionale: la propaganda serrata contro il regime duosiciliano e la monarchia borbonica. Pubblicò , nel 1859, anche un opuscolo, dove giudicò il Regno sull’orlo della dissoluzione. La campagna di delegittimazione, rafforzata dall’opinione pubblica liberale europea e dal governo di Cavour, otteneva sempre maggiori successi e la sua scelta fotografò la frattura con la vecchia patria del mondo degli emigrati. Negli stessi mesi, insieme a Giovanni Nesci e a De Lieto, guidò la definitiva adesione del gruppo calabrese alla Società nazionale italiana, mentre il figlio Pietro partecipò da volontario alla seconda guerra d’indipendenza. Fu un passaggio cruciale, perché gli esuli riuscirono a coinvolgere le loro estese reti in patria, che andavano dal blocco moderato fino ai vecchi autonomisti e agli stessi mazziniani.
L’adesione massiccia del notabilato calabrese fu la chiave del successo garibaldino del 1860 nella regione. La concessione della costituzione da parte di Francesco II fu accolta con freddezza. Il completo isolamento registrato in Calabria abbatté il morale del già confuso esercito borbonico. Dopo lo sbarco e la violenta conquista di Reggio, i Romeo, gli Stocco, i Plutino e le altre famiglie alla guida della rivoluzione organizzarono il cambio di regime nelle istituzioni e i volontari per l’Esercito meridionale (molti dei Romeo erano fra gli ufficiali della brigata organizzata da Benedetto Musolino). Garibaldi continuò verso la capitale quasi indisturbato, mentre le forze borboniche si arresero o sbandarono senza combattere. Romeo, nel frattempo giunto a Napoli, fu nominato dal governo garibaldino prima amministratore generale delle Acque, delle Foreste e della Caccia, poi consigliere di Stato.
Alle elezioni del primo parlamento unitario il radicamento dei notabili della rivoluzione fu confermato. Insieme agli amici storici, come i Plutino, furono eletti deputati sia il figlio Pietro (con i cavouriani) sia il nipote Stefano, radicale e strettissimo amico di Garibaldi (avrebbe in seguito fatto parte anche della commissione d’inchiesta sul brigantaggio). Entrambi furono impegnati con gli ex volontari dell’Esercito meridionale nella repressione dell’insorgenza legittimista del 1861 a fianco delle truppe di Enrico Cialdini, mentre il loro vecchio capofamiglia era oramai gravemente ammalato.
Romeo morì a S. Stefano il 28 aprile 1862.
Scritti e discorsi. Situazione del Regno di Napoli (appunti corretti da Cesare Correnti), Torino 1859, ora in G. Messineo, I Mille e la spedizione garibaldina in Calabria, Reggio Calabria 1925, pp. 131-135.
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