MERCURIO, Giovanni Andrea
– Nacque a Messina in data imprecisata, forse ai primi del XVI secolo, da una famiglia di umili origini.
Sin da giovane il M. si distinse per le notevoli attitudini intellettuali e per la singolare capacità di scrittura, sia per quanto riguarda la composizione sia per la trascrizione in bella grafia: qualità che gli permisero di ottenere un’istruzione superiore. Giovanissimo, dopo aver preso gli ordini sacerdotali e divenuto cappellano della chiesa parrocchiale di S. Giuliano, entrò al servizio di Giovanni Pantaleo Giurba, notaio arcivescovile di Messina.
Le cronache narrano che nel 1522 il notaio si vide negare per l’ennesima volta l’ingresso nel Senato messinese e il M. lo schernì asserendo che avrebbe ottenuto l’ambita carica quando egli stesso fosse diventato cardinale, arcivescovo e archimandrita di Messina. Il diverbio degenerò in lite furibonda: il M. ferì il notaio alla testa e, non presentandosi in tribunale, fu scomunicato e fuggì dalla Sicilia.
Il M. si trasferì a Roma, dove trovò impiego presso l’arcivescovo di Siponto (l’odierna Manfredonia), Giovanni Maria Ciocchi Del Monte (il futuro papa GiulioIII). Le sue notevoli capacità nell’espletare l’ufficio di segretario, insieme con le sue doti diplomatiche, gli procurarono la stima di Del Monte che, dopo aver rinunciato alla sede di Siponto, il 20 febbr. 1545 lo fece nominare vescovo di quella città. Lo stesso cardinale Del Monte, il 26 agosto successivo, gli fece concedere dal pontefice il privilegio del titolo arcivescovile e officiò la cerimonia di consegna del pallio.
Eletto Del Monte al soglio pontificio, la carriera del M. prese il largo. In seguito alla morte del cardinale Innocenzo Cibo (30 maggio 1550), dietro presentazione di Carlo V egli divenne arcivescovo di Messina, sede di patronato regio, e archimandrita della medesima città, ossia abate generale dei monasteri basiliani di Sicilia. Giulio III elevò infine il M., divenuto uno dei suoi principali consiglieri, alla porpora cardinalizia il 20 nov. 1551. Il 4 dicembre dello stesso anno fu istituito il titolo presbiteriale di S. Barbara per essere subito attribuito al M., che lo detenne fino al 18 ag. 1553, quando optò per il titolo di S. Ciriaco alle Terme Diocleziane.
Malgrado la sua assenza da Messina, dove in sua vece operava il vicario Pietro Ansalone, in breve tempo il M. si inimicò sia il viceré Juan de Vega sia le autorità municipali messinesi. Il primo accusò il M. di malgoverno della diocesi e di simonia, dato il mercimonio di benefici ecclesiastici, e anche i suoi collaboratori furono tacciati di condotta licenziosa.
Il primo conflitto che oppose il M. al viceré riguardò il monastero femminile dell’Ascensione, le cui monache benedettine conducevano notoriamente una vita scandalosa (si sussurrava che alcune di loro avessero contratto malattie veneree). De Vega, nel comunicare al M. la morte della badessa, sottolineò l’impellente necessità di porre fine al pubblico scandalo della immoralità delle monache. Il M., tuttavia, esitò e chiese consiglio al provinciale della Compagnia di Gesù Jerónimo Domenech: una manovra finalizzata a prendere tempo e a non intervenire in maniera drastica. In assenza del M. e con l’accordo del suo vicario, fu il viceré a procedere nell’azione riformatrice del monastero, sollecitando la nomina di una nuova badessa e nominando come procuratori e governatori due gentiluomini e un cittadino messinese.
Alcuni mesi più tardi il viceré fece imprigionare il fratello del M., Giovanni Domenico, con l’accusa di aver venduto alcuni uffici. Il M., per rappresaglia, lanciò l’interdetto sulla città di Messina e scomunicò il viceré. Grazie a un’opera di mediazione da parte messinese, si ottenne la revoca della censura. Tuttavia non fu revocata la scomunica del viceré, accusato di essersi intromesso in questioni di natura ecclesiastica –e segnatamente nell’affare del monastero dell’Ascensione – e di aver terrorizzato il vicario per indurlo a compiere la sua volontà; pertanto, nella seduta della Segnatura del 7 ag. 1554, il viceré, tacciato di voler essere contemporaneamente «papa e imperatore», non fu sciolto dalla scomunica.
Malgrado i conflitti di cui fu protagonista, quando il 18 marzo 1556, dopo più di trent’anni di assenza dalla sua città di origine – e nello stesso anno in cui, per ironia della sorte, a Messina assurgeva alla dignità senatoriale il notaio Giurba – il M. sbarcò sul litorale messinese e fu accolto in maniera sontuosa.
Due componenti dell’aristocrazia cittadina raggiunsero la spiaggia del convento di S. Francesco di Paola per dargli il benvenuto e il viceré, in compagnia del genero e di tutta la nobiltà cortigiana, gli rese omaggio. La domenica successiva il M. fece la solenne entrata in città in abito cardinalizio, a cavallo di una bianca chinea, fu ricevuto sulla porta della città da tutto il clero, regolare e secolare, e dalla principale autorità cittadina, i senatori, che lo condussero in processione fino alla cattedrale e poi da lì fino al palazzo arcivescovile. Gli atti di ossequio formali mascheravano però la lotta senza esclusione di colpi fra l’arcivescovo e il viceré, un conflitto che si riacuiva con la presenza a Messina del M., intenzionato a favorire sfacciatamente i suoi sodali in dispregio dell’autorità viceregia e cittadina.
Nel maggio 1556, in occasione dell’ascesa al trono spagnolo di Filippo II e dell’arrivo in Sicilia dell’inviato incaricato di prendere possesso del Regno in nome del re, il M., che la consuetudine relegava a occupare durante le cerimonie un posto di minore importanza rispetto a quello del viceré, preferì ritirarsi a Savoca, cittadina sotto la sua giurisdizione. Si trattò di una vittoria di breve durata per il viceré che, di lì a poco, fu sostituito da Juan de la Cerda, duca di Medinaceli, accolto con ogni riguardo dal M. al suo arrivo a Messina. Tuttavia le tensioni con le autorità monarchiche continuarono, come prova l’insofferenza mostrata nei confronti del visitatore delle chiese del Regno inviato da Filippo II, Diego de Arnedo.
Malgrado gli atteggiamenti arroganti e l’abitudine a condurre una vita fastosa, il M. fu ricordato dai Messinesi per la sua munificenza e per la costruzione del monastero del Ss. Salvatore, destinato ad accogliere i monaci basiliani, il cui primigenio luogo di residenza era stato abbattuto per costruire alcune fortificazioni cittadine. Significativo il giudizio del contemporaneo matematico messinese Francesco Maurolico che, in un frammento riportato in una cronaca successiva, ricorda il fasto dei ricevimenti, ai quali erano invitati vescovi, abati, canonici e gentiluomini, la raffinatezza degli abiti, l’eleganza del corteggio durante le cavalcate in città, la disponibilità nei confronti di quanti venissero a trovarlo, rintracciando solo nell’avarizia una pecca evidente.
Il 12 genn. 1560 il M. optò per il titolo di S. Marcello, che tenne sino alla morte, avvenuta a Roma, nel palazzo apostolico, il 2 febbr. 1561.
Fonti e Bibl.: G.A. Petramellari, De summis pontificis et S.R.E. cardinalibus…, Bononiae 1599, p. 89; A. Chacón, Vitae, et res gestae pontificum Romanorum et S.R.E. cardinalium, Romae 1630, I, col. 1146; II, col. 1594; R. Pirri, Sicilia sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, Panormi 1733, pp. 429-431; L. Cardella, Memorie storiche de’ cardinali…, IV, Roma 1793, pp. 317 s.; G. De Novaes, Elementi della storia de’ sommi pontefici…, VII, Roma 1822, p. 72; C.D. Gallo, Gli annali della città di Messina, II, Messina 1877, pp. 480 s., 542, 549 s., 552; III, pp. 10, 14; F. Cristofori, Storia dei cardinali di Santa Romana Chiesa, Roma 1888, pp. 144, 147, 185; Epistolae mixtae ex variis Europae locis ab anno 1537 ad 1556 scriptae…, III, 1553, Matriti 1900, pp. 623 s., 683; IV, 1554-1555, ibid. 1900, pp. 354 s.; M. Scaduto, La vita religiosa in Sicilia secondo un memoriale inedito del 1563, in Rivista della storia della Chiesa in Italia, XXVIII (1974), pp. 567 s.; M. Zaggia, Tra Mantova e la Sicilia nel Cinquecento, Firenze 2003, I, La Sicilia sotto Ferrante Gonzaga 1535-1546, pp. 288, 298; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XLIV, p. 234; Hierachia catholica, III, pp. 32, 60, 63, 65, 242, 301.
N. Bazzano