DORIA, Giovanni Andrea (Gian Andrea)
Nacque a Genova agli inizi del 1540, da Giannettino e da Ginetta Centurione, figlia di Adamo, il famoso uomo d'affari e banchiere. Per la data di nascita ci si è rifatti alla tradizione e a quanto afferma in apertura della sua autobiografia, anche se in altri passi della stessa sembra anticiparla al 1539.
I destini del personaggio sono tutti racchiusi nell'origine familiare e negli avvenìmenti che segnarono i primi anni della sua vita. Il padre Giannettino, figlio di Tomaso, cugino di primo grado di Andrea Doria, del quale fu uno dei più stretti collaboratori, morì infatti nel 1547, ucciso durante la congiura di Gian Luigi Fieschi. Il vecchio Andrea Doria si prese cura del giovane D. e lo allevò destinandolo alla sua successione: come narra lo stesso D. nell'autobiografia (un interessantissimo testo redatto alla fine della vita, probabilmente agli inizi del '600, quando - come scriveva al granduca di Firenze - viveva da "vecchio retirato": cfr. Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del principato 2834) dall'età "d'otto anni mi condusse seco il Prencipe mìo Sig.re e di continuo mi fece, in tutte le occasione s'offersero, navigare con se". Le preoccupazioni di Andrea non si limitarono però solo a formare un comandante di galere, un ammiraglio per la Spagna (incarico che il D. raggiunse solo molti anni dopo la morte dell'avo); Andrea curò che nella persona del D. si ricostituisse anche un'unità patrimoniale e di potere, quale egli era riuscito a costruire dopo la grande alleanza con Carlo V.
Esemplare quindi la "programmazione" matrimoniale: già nel 1550 furono definiti i termini del contratto matrimoniale con Zenobia, figha di Marc'Antonio Doria Dei Carretto (figlio di Peretta De Mari [Usodiniare], sposata in seconde nozze da Andrea); uno dei caposaldi di questo contratto era che il principato di Melfi (trasferito da Andrea a Marc'Antonio) sarebbe passato per successione a Zenobia, in modo da ritornare nella famiglia di origine alla sua morte. Non fu questo però solo un matrimonio "dinastico" e di interessi; l'essere cresciuti per anni da giovani nella stessa casa fece si che si formasse una salda e duratura unione: nella sua autobiografia il D. non solo scriverà "dell'inclinatione grande che hebbi sempre di maritarmi con D. Zenobia", ma ricorderà anche "l'esser stato dall'undici anni in sino alli quattordici sempre molti giorni, settimane e mesi in una casa come persone che havevano da essere marito e moglie". Nelle disposizioni che diede per il suo funerale nel 1604 ordinò che nella mano sinistra fosse posta una ciocca dei capelli di Zenobia (che era già morta nel dicembre del 1590).
L'educazione del D. fu affidata alle cure del bolognese Plinio Tomacelli, suo "aijo", dai dieci ai diciassette anni (ma che lo seguì anche dopo, alle Gerbe, ad esempio, dove si meritò la definizione di "maestro di grammatica" da parte di Pietro Machiavelli, appellativo che egli rifiutò sdegnosamente).
Dell'opera pedagogica del Tomacelli non sono rimaste altre testimonianze che gli inediti Ragionamenti morali dedicati appunto al D., allora in "tenera età": non è questo un testo particolarmente originale, ma è un significativo modello di educazione basata sulle virtù del nobile, di carattere filosofico-morale, e poco connotato in senso religioso.
Risale probabilmente a questi anni la passione del D. per il gioco, che gli fece perdere, e guadagnare, migliaia di scudi, così come racconta in gustosi passi della sua autobiografia. Tanto si dimostrò negli anni oculato amministratore di sé e delle sue richezze, tanto però vi fu anche nella sua personalità una componente di amore del rischio: non a caso su una sua medaglia era scritto il motto "omnia fortunae committo".
Ma la fortuna all'inizio non lo assisté certo nelle prove sul mare: nel 1556, sostanzialmente alla sua prima uscita con ruolo di responsabilità, la flotta di dodici galere da lui comandata finì in gran parte sugli scogli della Corsica (salvandosi solo la sua "Patrona").
Nell'autobiografia il D. sembra incolpare dell'accaduto i piloti delle galere, aggiungendo poi considerazioni di carattere più generale sul problema del ruolo del comando: "risolsi io fra me stesso all'hora il poco si può nessun generale riposare in questa profession di gente ordinaria, bassa e mercenaria, et cominciai ad usare maggior fatica in sapere e veder ogni cosa, et pensare introdurre giovani nobili che imparassero".
Certo è che questo incidente, così come il di poco successivo disastro delle Gerbe, fece si che si diffondessero ben presto voci sulle sue capacità di condottiero: qualcuno dei suoi avversari doveva avere aggiunto anche voci sulla sua "sfortuna", se in un articolato Discorso sopra il generalato del mare (scritto, probabilmente agli inizi degli anni Sessanta, da qualche suo collaboratore, forse il Tomacelli stesso: Genova, Bibl. Durazzo, A.IV.2; Bibl. ap. Vat., Barb. lat. 5367) si doveva dedicare spazio a controbattere le affermazioni di coloro che "sogliono ... porre fra le buone parti che il generale ha d'haver, la buona fortuna".
Comunque questi primi anni di apprendistato non furono tutti negativi, poiché il D. seppe rendersi utile sia nella guerra di Corsica, sia in quella di Siena, sia ancora in quella che gli Spagnoli condussero da Napoli contro Paolo IV sotto il comando del duca d'Alba. Con le sue galere il D. contribuiva fattivamente al trasporto dei tercios sui diversi fronti del conflitto che vedeva protagonista la Spagna. È vero comunque che al servizio regolare il D. faceva talvolta succedere periodi in cui "atterideva a giochi e a piaceri", o in cui andava "in corso", per rimpinguare le casse di famiglia, allora, a suo giudizio, del tutto dissestate dalla munifica politica di Andrea e dai ritardati pagamenti spagnoli: in una "istruzione" del 1568 scriveva che negli ultimi anni di vita di Andrea "incominciò la casa nostra a declinare, et poco manco che non andasse a fondo".
Nelle pagine dell'autobiografia questo problema ricorre con frequenza quasi assillante, anche perché a fronte del grande Andrea stava il suocero Marc'Antonio Doria Del Carretto ("suspettoso, parco e desideroso di quiete") che con Andrea mostrava avere poco in comune. Il D., invece, desiderava "acquistare honore et robba". Avendo presente questa dichiarazione quasi "programmatica" si può forse capire il personaggio, che ha suscitato sempre giudizi non molto elogiativi, e spesso del tutto critici.
I contrasti all'interno della famiglia giunsero a un punto tale che si profilò una rottura tra Andrea e Marcantonio, tanto da spingere Andrea a cercare di togliere lo Stato di Melfi al Del Carretto, per investirne il D.; questi però riuscì (grazie anche ad un viaggio nella primavera del 1558 a Bruxelles, dove allora era la corte imperiale) a riappacificare i due e a celebrare finalmente il matrimonio con Zenobia ("senza nessuna sorte di festa").
In questi anni a Genova iniziavano a coagularsi e a manifestarsi diverse forme di critica e di opposizione all'egemonia della nobiltà "vecchia" e al ruolo preminente di Andrea Doria nel panorama cittadino. Sicuramente si riferisce alle difficoltà politiche di Andrea l'invio del D. a Bruxelles, nel gennaio 1559, per una missione, di cui si trovano solo scarni accenni nella sua autobiografia. Il D., giunto a Bruxelles il 19 gennaio, era latore di una "instruttione" che avrebbe dovuto leggere segretamente al re di Spagna. Cosa contenesse questo documento il D. non dice, ma confrontando quello che egli scrive con quanto risulta da fonti spagnole, risulta evidente che il vecchio Andrea chiedeva a Filippo II un intervento militare a Genova. Il conflitto franco-spagnolo tuttavia aveva preso ormai altre strade: la pace si profilava vicina e, come si scriveva nella Cancelleria spagnola, una spedizione militare contro Genova sarebbe stata troppo pericolosa e costosa. Era meglio tenere Genova con le buone e non con la violenza.
Il profondo affetto per il D. emerge con chiarezza dal testamento che Andrea redasse proprio quando questi si trovava a Bruxelles: a lui sarebbero andate le galere, il ducato di Tursi, la carica di protonotario del Regno di Napoli, mentre al fratello del D., Pagano, destinava i feudi appenninici e quello di Loano, una volta appartenenti ai Fieschi. Ma colpiscono soprattutto le parole con cui giustificava il fatto che non voleva che il D., avesse curatori testamentari: "et quia cognoscit dictum ill.mum D. Io. Andream iam virtutibus et prudentia virili preditum et ornatum ita ut alieno regimine non indigeat, cum sit ipse aptus ac idoneus alios regere et gubernare, ita non vult quod sit sub cura alterius curatoris" (Sigonio, III, coll. 1259-1272).
Il D. trascorse il resto dell'anno (che avrebbe potuto essere fatidico per la disarmata Repubblica genovese) secondo moduli e scansioni che sarebbero da allora diventate per lui abituali: a corte d'inverno, preparativi nella primavera, con la flotta nell'estate e nel primo autunno; come egli stesso sintetizzò nella autobiografia: "mi fu sempre honorato sperone ad uscire l'estate a servire con le galere e ad andar l'inverno in corte", quella corte così piena di intrighi, divisa tra le diverse fazioni (egli allora si appoggiava a Ruy Gómez, mentre il suocero faceva riferimento al concorrente duca d'Alba), quella corte in cui ritualità e precedenze la facevano da padrone, ma "dove - egli scrisse - sono si può dir allevato".
La fine del 1559 vide però il D. impegnato con il resto della flotta nei preparativi della spedizione che avrebbe dovuto portare in Africa un grosso contingente di truppe, per la più volte progettata conquista di Tripoli, e che si tramutò poi nel disastro delle Gerbe.
Dopo un lungo soggiorno a Malta, finalmente nel febbraio del 1560 il corpo di spedizione partì per l'Africa settentrionale. Già durante il viaggio di trasferimento il D. si ammalò gravemente tanto da pregiudicare radicalmente la sua partecipazione effettiva al comando dell'impresa. L'autobiografia è naturalmente ricchissima di dettagli nella ricostruzione minuta degli avvenimenti che portarono la flotta e le truppe spagnole nel cul-de-sac delle Gerbe. La malattia del D. comportò palesi divisioni di valutazione e di comportamento tra i capitani delle galere genovesi; e un ruolo di mediazione, cui forse non era preparato, assunse il ricordato Tomacelli. Certo è che il D., resosi conto della possibilità dell'arrivo delle galere turche, cercò in ogni modo di convincere gli altri comandanti, e soprattutto il Medinaceli, a partire e a togliersi da una posizione in cui era difficile difendersi. La storiografia ottocentesca, nelle spiegazioni del disastro, ha puntato il dito accusatore sul D. e sugli altri genovesi "interessati" a portare in salvo le loro galere piuttosto che a combattere; in realtà la spedizione era partita troppo tardi, senza poter contare su quell'elemento di sorpresa che avrebbe potuto invece (forse) essere risolutivo.
Salvatosi con pochi altri, il 25 maggio il D. scriveva a Filippo II: "mi duol bene assai l'havere perduto robba, ma dall'altro canto mi consolo di non havere perduto honore essendomi sempre protestato et havendo antiveduto quel che potea intervenire, né potendo io rimediare se non con disubidire et fare di mia testa" (Archivo general de Simancas, Estado 1389). La "robba" persa era costituita da sette galere "rinforzate" (tanto che il vecchio Andrea, nei codicilli testamentari del 24 settembre, stabili che al D., per la ricostruzione della flotta, andassero anche tutti i crediti che aveva, oltre a Fassolo, vero e proprio simbolo materiale della successione).
Con quattro galere rimaste, insieme con una di Stefano De Mari - con cui era allora in ottimi rapporti, guastatisi poi irrimediabilmente negli anni Ottanta - il D. si mise nuovamente "in corso" sperando in qualche "notabile fattione". Ma, di fatto, poco o nulla concluse.
Il 25 nov. 1560 venne a morte Andrea. E si aprì così un difficile problema di "successione": il D. si sentiva Perede non solo e tanto dei beni ("posso dir con verità che tutto quello che restò a me non valeva cento milla scudi ... e sopra essi v'erano anche qualche debiti", scriveva nell'autobiografia), quanto del ruolo politico-militare ricoperto dall'avo, soprattutto in rapporto alla Spagna, più che verso la realtà cittadina genovese: nella sua autobiografia (arrivando questa solo fino 1562) pochi sono i riferimenti alle lotte politiche, che pure erano allora vive, in quanto il D. aveva vissuto fino ad allora gran parte del tempo fuori Genova o sulle galere. Andrea l'aveva nominato da qualche anno suo luogotenente, ma ciò valeva finché era vivo il vecchio condottiero. Alla sua morte si presentarono tutti i problemi e le obiezioni prevedibili in un caso come questo: la giovane età del R; il fatto che non si fosse distinto in qualche "notabile fattione"; il fatto della nazionalità italiana per una alta carica spagnola, per la quale vi erano molti altri concorrenti, dotati di lignaggio oltre che di esperienza.
Il D. intraprese subito il viaggio per la corte, con la speranza di poter conseguire immediatamente l'obbiettivo della nomina - "tanto ingannato in me medesimo che mi pareva meritarlo" -, nonostante che prima della partenza il potente ed esperto nonno materno, Adamo Centurione, l'avesse apertamente dissuaso.
Vi era stato anche chi aveva, forse in questa occasione, redatto il già ricordato Discorso sopra il generalato, in cui non solo si controbattevano le possibili obiezioni alla sua nomina, ma soprattutto si adducevano i motivi per cui era bene attribuire ad un "privato" genovese tale carica: si ricordavano le scelte di Carlo V, uso ad attorniarsi di collaboratori delle più diverse nazionalità; l'importanza strategica di Genova ("per quella strada si soccorre e provvede e in un certo senso silegano tutti li stati di S. M."); l'esigenza che "il generale sia potente per forze sue proprie e per aderenti di stato, d'amici et di parenti", evidente richiamo a quell'integrato sistema creditizio-navale che i patrizi genovesi erano riusciti a costruire.
Il viaggio si risolse per certi aspetti in un vero e proprio insuccesso, perché la posta era troppo alta, perché il D. stesso annotò come fosse "una pazzia ... pretendere essere di 21 anno Generalissimo". Sul momento la sconfitta gli sembrò cocente, perché in fondo gli furono solo riconosciuti diritti nei trattamenti a corte, che lo ponevano in alto nella gerarchia delle ritualità e del protocollo; a corte si adeguò a usi e modi, sia spendendo migliaia e migliaia di scudi al gioco, sia imparando la sottile arte dell'intrigo e della dissimulazione.
Lasciato a Madrid Plinio Tomacelli ("perché desiavo levarmi dappresso chi mi diceva alle volte liberamente li miei errori"), il D. tornò a Genova con l'intento di mettere in ordine la propria situazione economica; gli Spagnoli avevano si pagato una parte dei precedenti debiti accumulati verso Andrea Doria, ma bisognava rimettere in ordine la flotta, che non aveva più svernato a Genova dopo le Gerbe.
Nel contempo il D. prese ad occuparsi anche della sistemazione della villa di Fassolo, iniziando una serie di lavori di ampliamento dell'ala verso la città; Fassolo costituì sempre per lui qualcosa di essenziale e di centrale, sia come simbolo del potere e del prestigio raggiunti, sia come elemento rappresentativo della continuità familiare (e dell'adesione, quindi, al progetto di Andrea). Fino alla sua morte non smise mai di ampliarla, acquisendo, via via, proprietà confinanti, trasformando il giardino (che era considerato uno dei più interessanti nell'Italia del tempo), introducendo elementi nuovi nell'architettura della villa, così come nel sistema della decorazione.
Valutando l'insieme degli interventi, G. Gorse ha parlato di "change towards a more cosmological-imperial interpretation", ma ha sottolineato come nel complesso il D. abbia svolto un ruolo di conservatore dell'impianto originario progettato da Andrea, quando ormai il gusto del tempo evolveva verso altri moduli stilistici.
Il D. passò l'estate-autunno nel Regno di Napoli con le quattordici galere che gli erano rimaste (mentre a capo della squadra per quell'anno si trovava il suocero Marcantonio Del Carretto), impegnato anche in qualche scorreria per cercare di ripianare i propri debiti. Passato poi da Roma ("in 8 giorni che vi stetti non desinai mai in casa, essendo stato convitato da Cardinali che all'hora facevano vita più da secolari e homini di mondo, che da preti religiosi"), raggiunse nuovamente Genova, dove trovò la scoraggiante notizia che Filippo II intendeva ridurre le galere in asiento a dieci sole. La decisione di ripartire per la Spagna fu rapidamente presa; questo nuovo soggiorno a corte non solo gli permise di limitare in parte i danni del nuovo asiento (riuscì infatti a strappare la concessione che le galere fossere nuovamente aumentate a dodici), ma gli servì anche per entrare in relazione con uomini di corte "che mi parevano suggetti da passar avanti sebene all'hora non lo erano"; il suo occhio cadde così su due personaggi che saranno emblematici della Spagna di Filippo II, Gaspar de Quiroga e Antonio Perez.
Il 1562 passò senza particolari novità, se non il rinnovarsi del problema della disponibilità finanziaria. Il sistema di consumo familiare, il mantenere in efficienza dodici galere (a fronte di un già cronico ritardo spagnolo nei pagamenti e di una litigiosità spinta dei viceré di Napoli e di Sicilia) fecero si che in questo periodo una delle preoccupazioni fondamentali del D. fosse proprio quella dei soldi.
L'autobiografia del D. si chiude con l'inverno del 1562, quando, tornato a corte, cercava di strappare qualche nuovo incarico nella flotta ("mi saria contentato di commandar le galere che servivano in Italia"); da questo punto in avanti manca quindi una fonte primaria per poter seguire gli spostamenti e le motivazioni dei suoi interventi sui diversi fronti dello scacchiere spagnolo nel Mediterraneo.
Nel 1563-1564 fu variamente impegnato, al seguito della flotta, senza particolari incarichi (aveva affidato le sue galere al fratello Pagano, proprio per non dover ubbidire ad altri comandanti spagnoli, che precedentemente, quando era luogotenente di Andrea, gli erano stati in sottordine). Dall'Africa settentrionale alla Corsica, e poi all'espugnazione di Peñon de Velez, seguendo i diversi e vari spostamenti dei fronti militari, ora contro i pirati barbareschi, ora direttamente contro la flotta turca, il D. cercò di distinguersi e guadagnare l'encomio per i servigi resi (come appunto fu a Peñon, dove si meritò le lodi di don Garcia de Toledo).
Nel 1565, dopo un soggiorno primaverile a Madrid, ove non riuscì a strappare nuove condizioni per l'asiento delle galere, fu impegnato sia in attività di supporto alla repressione della rivolta in Corsica sia, successivamente, nella più complessa e difficoltosa impresa di portare soccorso a Malta, assediata dai Turchi, dove ebbe modo di palesare capacità e coraggio. Solo nel 1566 potrà finalmente rinnovare le condizioni dell'asiento per le sue galere. Dalla corrispondenza, così come da altri documenti, risulta evidente come queste fossero senz'altro una importante fonte di guadagni, ma anche origine di preoccupazioni, e di continue liti e cause con l'amministrazione spagnola: ora erano i ritardi nei pagamenti, ora si trattava della questione dei diversi e aggiuntivi diritti legati al contratto di asiento (adesempio, importantissime, le licenze di esportazione di grano; o tutto ciò che era connesso al consumo di biscotto); ora la valutazione o il rifornimento di forzati. Quindi le galere rendevano, ma potevano anche essere fonte di problemi, soprattutto in un periodo in cui il D. doveva avere notevoli preoccupazioni di liquidità.
Per il 1568, ad esempio, abbiamo un interessante documento conservato tra le sue carte: si tratta di una istruzione data a Giovan Paolo Pianta (uno dei tanti dottori di cui sempre il D. si avvalse e si attorniò, cosi come in parte aveva già fatto Andrea), inviato a Madrid per ridiscutere le condizioni dell'asiento: dopo aver riassunto le vicende passate, il D. mette in evidenza alcuni punti dell'opera che il Pianta avrebbe dovuto svolgere a Madrid, soprattutto con coloro che tenevano il controllo dei cordoni della borsa ("a me più importa il consiglio d'azienda che quello di stato"), visto che vantava nuovamente un credito di 100.000 scudi. Lo illuminava sui diversi "partiti" allora attivi a corte, e gli rammentava infine l'importanza di un continuo e preciso rifornimento di forzati dallo Stato di Milano e da quello di Napoli (per queste citazioni cfr. Roma, Archivio Doria Pamphili, 75.36).
Ma, prova evidente delle difficoltà in cui il D. si trovava, il 1568 è anche l'anno in cui egli ottenne l'assenso regio alla vendita del ducato di Tursi (lo comprò, sembra per 55.000 scudi, Galeazzo Pinelli che ne sarà compiutamente investito con il titolo di marchese nel 1572; ma quando gli affari si erano ormai nuovamente riassestati, dopo una lunga trattativa conclusasi nel 1594, il D. lo riacquistò per il figlio Carlo).
Nel 1569 nacque la figlia Vittoria, la prima (a differenza di precedenti figli maschi) a sopravvivere oltre la più tenera età, e nel 1570 nacque Andrea, anch'egli destinato a vivere e a succedere al D. come primogenito.
Intanto la diplomazia pontificia e quella veneziana cercavano di organizzare una spedizione navale in Levante, che avrebbe dovuto alleggerire la pressione turca sulle colonie veneziane, allora concentrata soprattutto contro Cipro; il problema più difficile era coinvolgervi anche la Spagna, la cui attenzione era invece prevalentemente rivolta verso l'Africa settentrionale e il Mediterraneo centroccidentale. Quando nel luglio del 1570 Leonardo Donà, ambasciatore veneziano in Spagna, riuscì a scrivere che finalmente era stato dato ordine al D. di riunirsi alla flotta della Lega, allora si poté dire che il lungo lavorio diplomatico era stato coronato da successo.
Alla spedizione il D. partecipava con undici galere sue; ve ne erano inoltre ai suoi ordini quattro di Ambrogio Negrone e una di Giorgio Grimaldi, mentre con le altre squadre di Napoli e di Sicilia (sempre sotto il suo comando), ve ne erano sette di altri genovesi.
Nonostante i buoni auspici della partenza, l'impresa si rivelò presto difficile, per poi tramutarsi sostanzialmente in un nulla di fatto. I problemi erano molteplici: vi era innanzitutto la questione del comando della flotta, attribuito a Marcantonio Colonna, e questo, come scriveva il cardinal Ch. d'Angennes de Rambouillet a Carlo IX, avrebbe potuto creare problemi di rapporto con il D., "ayant de longtemps commandé en chef, esté général de bonne partie de galères de son maitre, et tenu le premier homme de mer qui soit aujourd'hui en Italie" (Charrière, III, p. 119). Vi era poi la questione degli ordini spagnoli: si è a lungo favoleggiato di ordini segreti di Filippo II, ma l'ipotesi più verosimile è che questi fossero sostanzialmente poco chiari: da un lato si indicava al D. di congiungersi con la flotta della Lega, ma dall'altro di mantenere le forze intatte per una progettata spedizione a Tunisi. Si aggiunga poi che la flotta veneziana palesò subito gravi mancanze nell'organizzazione, soprattutto a livello di equipaggi; e si aggiunga inoltre che una parte di questi cadde malata già nella navigazione di avvicinamento.
Le previsioni del Rambouillet si rilevarono presto esatte: sorsero contrasti sulla gestione della spedizione tra il D., da un lato, e il Colonna e i Veneziani, dall'altro; i motivi su cui il D. fondava il suo rifiuto di proseguire la spedizione, e soprattutto di andare a combattere a Cipro, erano essenzialmente fondati sulla stagione avanzata e sul pessimo stato delle galere veneziane: in una allarmata lettera a J. de Zuñiga, ambasciatore spagnolo a Roma, rilevava come i Veneziani fossero con pochi rematori, e come le loro galere si muovessero quindi con grande lentezza e disordinatamente (cfr. G. Molini, Documenti di storia italiana, Firenze 1836, II, pp. 481-84). 1 contrasti si risolsero quando il 10 ottobre a Creta il D. decise di abbandonare il resto della flotta e di ritornarsene in Italia, dove giunse il 18.
Iniziò allora una battaglia di scritti accusatori e denigratori, che vedevano il D. parzialmente sulla difensiva, imputato di aver abbandonato gli alleati in un momento critico. La storiografia più recente ha in parte rettificato il giudizio di molta storiografia ottocentesca, riprendendo quello che era stato un commento a caldo dell'informato Gabriele Salvago: "è stato buon consiglio non aggiungere con nuovo pericolo maggior danno al nome cristiano". E così, se il Serrano ha parlato di "cautelosa conducta", il Braudel non solo ha sottolineato l'improvvisazione nella preparazione della spedizione, ma anche il fatto che, in conseguenza del maltempo e della stagione così avanzata, solo al D. "réussit l'exploit de ramener toutes ses galères à Messine", mentre le altre squadre subirono notevoli perdite.
Nonostante le voci circolate, il D. in dicembre si recò a corte, dove il suo comportamente non sembra abbia ricevuto critiche particolari; e anzi fu lui a porre in discussione la prosecuzione del suo rapporto con la Spagna: i 6.000 scudi all'anno per galera non erano sufficienti (tanto che si continuava a parlare di un suo indebitamento per 200.000 ducati), e il D. iniziò a prospettare l'idea di vendere le galere allo stesso re di Spagna.
Leonardo Donà avvertiva subito Venezia, pur sottolineando i dubbi di un progetto del genere: "se ben questo ... partito è offerto in parole, non vedo già io però che l'intentione sua sia di privarsene, perché veniria insieme a perdere la maggior parte della riputatione che ha, essendo che con un corpo de armata de undici galere che possede, mette quasi in necessità questa corona di valersi di lui" (Lacorrispondenza di Leonardo Donà, p. 169). Come osserverà lo stesso Donà in un dispaccio successivo vi erano anche altri motivi che lo spingevano a dubitare di un simile progetto: "riesca pur il partito quanto largo si voglia, egli con questa vendita vien ad liaver perso et in Genoa et da per tutto molto della sua prima reputation" (ibid., p. 270).
Il Donà aveva ben compreso la duplice importanza che ricoprivano le galere per il D.: da un lato, grazie ad esse, possedeva una notevole capacità di pressione nei confronti della Spagna; dall'altro, la base del suo potere a Genova si fondava essenzialmente sul rapporto che sarebbe riuscito a mantenere con gli Spagnoli, e quindi sul fatto di essere il pffi forte asentista. Ementre il D. si faceva abbellire e dorare la poppa della capitana dall'artista genovese Lazzaro Calvi, tra le corti europee si metteva a punto la "santa lega" che avrebbe dovuto finalmente affrontare in uno scontro frontale la flotta turca.
Il 5 maggio 1571 il D. fu chiamato da Filippo II a far parte del comando del corpo di spedizione spagnolo: al primo posto don Giovanni d'Austria, al secondo L. de Zuñiga y Requeséns e al terzo il Doria. Mentre fervevano i preparativi per l'allestimento della flotta e il trasporto delle truppe in Italia meridionale e in Sicilia, il D. viveva giorni contradditori: agli inizi di agosto era tutto proteso al futuro confronto con il nemico, desideroso di far vedere le proprie capacità, alla ricerca dell'agognato "honore", ma al contempo non aveva certo scordato la "robba". Stipulava così un primo accordo per la vendita delle galere; però, quando venne a sapere che il re aveva intenzione di rivenderle al ricco banchiere Nicola Grimaldi (detto il "Monarca"), cercò ogni modo per ritornare sulla decisione.
Il 5 settembre Andrea Provana di Leynì scriveva ad Emanuele Filiberto di Savoia: "qua è venuto nova che S. M. vende le galee dil signor Gio Andrea Doria al signor Nicolò de Grimaldo, il che ha dato già disgusto et alteratione al detto signor Gio Andrea et a tutti suoi amici, credo che poi non si è ancora fata la consegna, s'andara buscando modo et via di romper la prima vendita acciochè questa non habbi effetto, et pur che si possi fare non mancheranno dinari et amici. Pagano suo fratello per ciò li ha fatto donatione di tutto il suo, et dice di voler andar a Malta et pigliar quel habito" (Promis, p. 625).
Il Provana era ben informato, perché proprio lo stesso giorno il D., in una lettera alla madre (Roma, Arch. Doria Pamphili, 69.24), scriveva che, a fronte della sua decisione di vendere le galere, il fratello Pagano si era offerto di cedergli tutti i suoi beni, e di farsi cavaliere di Malta, non volendo che "cose tanto antiche della nostra casa dovessero cadere in altre mani, che in quelle del Re". Ma è soprattutto in una lettera indirizzata al colto e potente Giulio Claro (ibid.) che il D. palesa i suoi sentimenti (e, di fatto, riconosce di dover subire l'astuta contromossa di Filippo II).
"Estrema fu la necessità et impossibilità che mi astrinse a disfarmi delle galere, ma se mi fosse mai caduto in pensiero che con le medesime si dovesse cercare di far grande nella mia terra persona di così poca parte e di si bassa professione come è Nicola di Grimaldo, et che non ha servito al Re, se non con infinito danno delli regni di S. M.tà o delle rendite di essi, havrei più tosto sofferto (mettendole fuoco) di rovinare a un tempo la casa mia et quelle degli amici et parenti miei, che per haver poste tutte le facultà loro per aiutarmi a sustentarle, corrono meco una medesima fortuna" (ibid.).
Così al D. non restava altro che "correre la sua fortuna"; rotto il contratto, incaricò Agostino e Nicolò Lomellini e Nicola Spinola di assicurare le galere per i mesi di ottobre e di novembre per 100.000 scudi (e il giorno dopo la battaglia di Lepanto si affrettò a scrivere ai Lomellini: "poscia che le cose stanno in questo termine, non accaderà che si prenderà più fastidio di fare assicurare le mie galee per il mese di novembre": ibid., 69.24).
Gli ordini che don Giovanni d'Austria promulgò il 14 settembre sottolineavano l'importanza del ruolo del D.: gli era infatti affidato il corno destro dello schieramento (in cui erano anche tutte le sue galere, oltre a quelle di un nutrito gruppo di altri genovesi).
La battaglia di Lepanto non fece che rinnovare le voci dell'anno prima: il fatto che il D. avesse impostato grandi evoluzioni delle galere a lui affidate, per evitare l'accerchiamento da parte del ben più nutrito e poderoso corno sinistro turco, fece gridare allo scandalo.
Sottilmente velenose sono le parole con cui il pur posato Paolo Paruta commenta la tattica del D.: "quasi uscendo dal pericolo, volesse mettersi in luogo di poter accomodarsi a qualunque evento in quella giornata. Quale in ciò si fusse l'animo di lui è troppo difficile cosa l'investigare".
Anche negli ambienti pontifici gli umori non erano dei migliori nei confronti del D.; e non è da escludere che vi siano state pressioni romane in una decisione spagnola che di lì a poco lo amareggiò non poco. Tra ottobre e novembre, infatti, gli fu si rinnovato l'asiento per le galere (con le prede di Lepanto sperava, tra l'altro, di armarne una dodicesima), ma gli fu anche comunicato che, nonostante L'espresso desiderio di don Giovanni (con cui restò sempre in ottimi rapporti), era tolto dal numero di coloro che dovevano affiancare il giovane principe nelle progettate spedizioni dell'anno successivo (e al suo posto, come era stato suggerito dal papa, venne invece nominato l'anziano Antonio Doria, con il quale i rapporti erano da tempo piuttosto tesi).
Il 1572 passo senza incarichi particolarmente gravosi, in parte a corte a ridiscutere l'asiento (il D. ottenne che le galere impegnate fossero dodici "che si contano per 13"), in parte a Genova dove la situazione finanziaria non si presentava, nonostante tutto, delle più rosee (il D. accese diversi censi sul feudo di Torriglia che gli era stato dato dal fratello Pagano); nell'estate fu presente insieme al duca di Sessa ad alcune fasi della spedizione di don Giovanni d'Austria, spedizione che però non portò a nulla, anche perché i membri del suo consiglio erano divisi tra chi propendeva per una ripetizione delle mosse dell'anno precedente verso Levante e chi voleva, invece, che la flotta si dirigesse in Africa, come in effetti avvenne l'anno successivo con la spedizione di Tunisi.
Nel 1573 nacque il figlio Giannettino (destinato alla carriera ecclesiastica, dopo gli studi all'università di Salamanca), e don Giovanni d'Austria rinnovò al D. tutta la sua stima, chiedendogli di accompagnarlo appunto nell'impresa di Tunisi (a capo della fanteria andrà il fratello Pagano); ma il 1573 è anche l'anno in cui a Genova vennero a maturazione i processi di crisi all'interno del sistema di potere patriziale e in cui le soluzioni istituzionali escogitate tra il 1527 e il 1547 mostrarono tutti i loro limiti.
Il D. si sentì investito di nuove responsabilità: alle prime notizie che non vi era stato accordo nel rinnovo dei governatori, nel luglio del 1573, scrisse una preoccupata lettera alla Repubblica, lamentandosi della "poca conformità" seguita nelle procedure elettorali (cfr. Arch. di Stato di Genova, Archivio segreto 1967). Nel settembre partì da Savona con venti galere per raggiungere don Giovanni a Tunisi, ma il maltempo impedì il congiungimento delle squadre. E così decise di far svernare le galere nel porto di Genova; e, mentre scriveva a Filippo II di credere che la situazione genovese si sarebbe evoluta per il meglio, al contempo, memore di quello che era successo nel 1547, decise anche di assoldare un centinaio di fanti da porre a guardia delle galere.
Il 1574 si presentò come un anno difficile, nonostante fosse allietato dalla nascita della figlia Artemisia, che sarà poi la sua figlia prediletta (nel 1576 nascerà l'ultimo figlio, Carlo), e nonostante il fatto che il D. ricevesse un importante riconoscimento da parte spagnola, con la nomina a membro del Collaterale di Napoli (cui era legato un compenso di 3.000 ducati, che gli furono però tolti nel 1579 quando fu investito della commenda di Caravaca). Si è detto un anno difficile, in quanto la situazione genovese non evolveva certo per il meglio, anzi, molteplici erano i segni del radicalizzarsi dei rapporti tra nobiltà "vecchia" e "nuova"; e il D. (insieme col suocero Marc'Antonio Del Caretto ed Antonio Doria) si sentì investito di responsabilità di direzione all'interno della nobiltà "vecchia"; per il momento le responsabilità politiche furono assunte maggiormente da Marc'Antonio, il quale infatti elaborò anche un progetto di riforma costituzionale, che fu oggetto di ampie ed aspre discussioni cittadine.
Anno difficile anche per quanto riguardava la questione dell'impresa di Tunisi: infatti, quando agli inizi di settembre il D. partì in soccorso del corpo di spedizione con una flotta di quaranta galere, non sapeva ancora che in realtà il forte era già caduto e il fratello Pagano era morto.
Con la fine del 1574 e gli inizi del 1575 divenne palese a Genova che la situazione non era più risolvibile entro gli schemi del tradizionale conflitto politico; i "vecchi" si armavano e reclutavano uomini nei loro feudi; il D. mantenne la guardia armata alle galere, ma agli inizi di febbraio, insieme agli altri asentistas, decise di non lasciarle più in darsena per non correre troppi pericoli. A quel punto il D. non poteva più restare sullo sfondo dello scontro politico e partecipò così direttamente alle riunioni della deputazione dei "vecchi" (una specie di organizzazione di tipo partitico) e agli incontri che avvennero con la deputazione dei "nuovi", anche perché era opinione diffusa (come pensava ad esempio Marco Gentile) che lui fosse "capo di tutta la Nobiltà"; e delegati dei "vecchi" a trattare espressamente con lui furono Stefano De Mari e Giorgio Doria, entrambi esperti in questioni militari.
Anzi, quando ormai tutto lasciava presagire che si sarebbe arrivati allo scontro, il D. si fece protagonista di un'iniziativa che sarebbe dovuta servire a creare divisione tra ceti popolari e nobiltà "nuova": convocò i consoli delle arti e pronunciò un discorso fortemente ad effetto. Secondo un'altra fonte (la cronaca redatta dall'ex doge G. B. Lercari) con il discorso fatto ai tessitori di seta, la più numerosa e temuta corporazione di lavoranti, entrò ancor più nel merito della polemica, affermando che "con il favore de vecchi havevano ottenuto che non fussero obbligati a lavorare salvo al pretio che convenissero e che dovessero essere pagati in denari e non in grano ne robbe" (essendo a tutti noto che gli imprenditori tessili erano soprattutto tra i nobili "nuovi").
Nonostante questi tentativi, l'insurrezione vi fu egualmente, anche se non accaddero fatti di sangue particolarmente gravi; i soli morti furono proprio alcuni soldati del D., assaliti dalla folla, quando si allontanavano dalla darsena, per ottemperare agli ordini del Senato. Subito dopo l'insurrezione iniziò l'esodo della nobiltà "vecchia" dalla città, e, come annota un'anonimo, "le galere del S. Gio. Andrea sono hora mai diventate le gondole di Venetia poiché ogni giorno non fanno altro che traghettare per la rivera robe, famiglie di questo et di quello" (cfr. Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, Corrispondenze estere, 766).
Il D. non si preoccupò solo di aiutare a mettere in salvo famiglie e masserizie; iniziò subito una articolata manovra di contrattacco politico e, in prospettiva, militare. Trasferitosi a Napoli, insieme con Antonio Doria cercò di convincere il viceré a non autorizzare esportazioni di grano verso Genova. suscitando l'allarmata reazione del nunzio Antonio Sauli (Nunziatura di Napoli, I, Roma 1962, p. 324), che scriveva a Roma: "questo è mettere in disperatione quel popolo ... et sarà interpretato in Genova questo fatto intimatione di guerra". Il D. sviluppò un'accorta propaganda, scrivendo e facendo circolare lettere e corrispondenze, come quella con l'ambasciatore genovese in Spagna, Marcantonio Sauli, in cui metteva in evidenza i pericoli derivanti dall'affermarsi in città dei gruppi radicali ("se quei di S. Luca [i "vecchi"] sono ora fuori, si può temere che un'altra volta vi saranno quei di S. Pietro [i "nuovi"], o saranno tutti insieme a termine che non potranno dire questo è mio!": cfr. Olivieri, 1857, pp. 562 s.). Al contempo il D. riaffermò in ogni modo il principio che nel sistema di governo della Repubblica si doveva trovare un modo di garantire una sostanziale equipartizione tra "vecchi" e "nuovi".
Il concetto è molto ben spiegato in una lettera al cardinale B. Lomellini, che rappresentava gli interessi dei "vecchi" alla corte pontificia (non aliena, in realtà, da simpatie per i "i nuovi"): "non voglio dire ne pretendere che il governo sia partito per metà fra le due parti, ma si bene che si acautelli che alcuna di loro non possa essere esclusa come si va camino manifesto di fare con l'osservatione della nuda legge del 528" (cfr. Roma, Arch. Doria Pamphili, 84.32).
Soprattutto a partire da metà giugno diventò evidente per il D. che l'unica soluzione praticabile era quella militare, sebbene non si presentasse di facile attuazione. Anche perché al momento non era ancora del tutto chiaro l'atteggiamento spagnolo: il D. aveva gia quasi reclutato un reggimento di fanti da tenere sulle galere, ma sollecitava una formale autorizzazione da don Giovanni d'Austria. E con l'arrivo a Genova di due inviati francesi, Gian Galeazzo Fregoso e Mario Birago, diventava evidente la possibilità di una internazionalizzazione del conflitto.
Tardava in realtà l'autorizzazione spagnola, anche perché difformi erano i pareri all'interno del Consiglio di Stato; e se vi era chi, come il duca d'Alba, non sarebbe stato alieno da un colpo di mano, vi era anche chi ricercava una soluzione tutta politica. Il D. in luglio era ormai pronto a intervenire; a Napoli, però, don Giovanni e il Granvelle insistevano per rinviare tutto all'arrivo della formale autorizzazione regia. In agosto il D. ritornò al Nord, dove a Finale erano riuniti i capi dei "vecchi" e li sollecitò a pagare le quote stabilite ("avendo esagerato molto sopra il particolare dei denari", come scrisse un osservatore; cfr. Olivieri, 1857 p. 167), e intanto mandava per il mar Ligure le sue galere a svolgere opera di intimidazione e pressione.
Faceva senz'altro parte dei preparativi politici della guerra anche la lettera che il D. scrisse il 20 agosto al Senato della Repubblica (e che provvide a diffondere in stampa) in cui invitava i "nuovi" al governo ad accettare la proposta di compromesso. E agli inizi di settembre incaricò Giacomo Di Negro di preparare una lettera-manifesto indirizzata al "popolo", da far diffondere in città.
Tutta l'attenzione era pero rivolta ai preparativi militari: i "vecchi" erano ormai riusciti a mettere assieme venti galere, erano riusciti ad assoldare altre fanterie, licenziate temporaneamente dal governatore di Milano; e così il 4settembre il D. stilò gli ordini di combattimento, benché non fosse stato ancora formalmente autorizzato da don Giovanni.
Probabilmente vi fu qualche doppiezza da entrambe le parti nel decidere i tempi della guerra; don Giovanni infatti autorizzò la mossa d'armi il 13 settembre (e decidendo di sospendere da quella data il "soldo" per le galere); ma a Madrid il 1º settembre era già stato stabilito di rimettere in discussione tutti i debiti contratti con i banchieri genovesi, che erano esclusivamente nobili "vecchi", i quali d'altronde non aspettarono l'autorizzazione di don Giovanni.. L'11 settembre il cardinale G. Morone, legato pontificio a Genova, scriveva preoccupato al D., chiedendogli i motivi per cui i deputati dei "vecchi" avevano improvvisamente lasciato la città. E infatti il 12, a Finale, i "vecchi" decisero di aprire le ostilità nominando il D. comandante in capo dell'impresa.Le operazioni militari furono condotte all'inizio con notevole abilità: fu occupata la Riviera di Levante e contemporaneamente fu portato l'assalto da terra contro Novi; all'interno della stessa nobiltà "vecchia" emersero però tendenze critiche (di cui è testimone Giovanni Salvago) per la piega che successivamente presero gli avvenimenti.
"Arrivò Giovanni Andrea nel golfo de la Speza, dove alzò il stendardo de la croce rossa di Sancto Georgio, pottendosi con verità dir quello de la vera republica, essendo nobili più interessati in quella che populari et plebei ... si fermò nel locho di Vado alle speze de poveri nobili, facendo scaramuze vane con quelli contadini et con li soldati erano in Savona".
In effetti, i contendenti in lotta erano poco preparati a condurre una guerra di lungo periodo: i "nuovi" a Genova non disponevano di una flotta militare e avevano problemi politici al loro interno; i "vecchi" sapevano di dover pagar di tasca propria i costi della guerra e la sospensione dei pagamenti voluta da Filippo Il poneva grosse ipoteche alla loro capacità di movimento. Lo schieramento politico italiano si era poi pronunciato unanime contro i pericoli di una guerra che turbava profondamente gli equilibri ormai consolidati degli Stati.
Prevalse così la linea della trattativa diplomatica: dopo che fu stipulato il compromesso e deciso il trasferimento delle trattative a Casale, il D. si spostò a Napoli, da dove, con il consiglio dell'esperto Granvelle, seguiva l'operato dei deputati dei "vecchi", non lesinando loro consigli, come quando scrisse che non era il caso di rendere troppo difficoltoso l'accesso alle magistrature cittadine, ma "già che si vogliono l'unico ordine, sia la riforma tale che l'ordine sia unico in effetto, et per questo è di necessità, a parer mio, che si levino i mecanici" (Roma, Archivio Doria Pamphili, 84-32). Il D. interpretava bene la sensibilità della nobiltà "vecchia"; e l'esclusione delle frange "artigiane" dal corpo della nobiltà fu in effetti uno dei risultati delle Leges novae, stabilite a Casale, che furono poi promulgate nel marzo dell'anno successivo.
La fine della guerra civile permise al D. di dedicarsi con maggiore tranquillità a problemi patrimoniali, e anche domestici: pensò di ingrandire i propri possedimenti appenninici, mettendo gli occhi sul marchesato di Santo Stefano, allora infeudato all'anziano Antonio Doria (riuscirà ad acquistarlo solo nel 1592, per più di 290.000 lire, grazie anche al fatto che nel 1591 la popolazione del luogo si era ribellata a G. B. Doria, e il D. era riuscito ad impedire che se ne impadronisse la Repubblica di Genova). Fece eseguire diversi lavori di ristrutturazione e di decorazione alla villa di Fassolo: si ampliò l'ala occidentale, si iniziarono a costruire le logge laterali (lavori che farà poi eseguire anche nella villa Centurione di Pegli e nel palazzo Grimaldi di strada Nuova, acquistata l'una nel 1584, e l'altro nel 1596; l'acquisizione di questo palazzo, destinato al figlio Carlo, rappresenta molto bene il permanere di un interesse per gli investimenti immobiliari di grande prestigio). Commissionò a Lazzaro Calvi cicli di affreschi, e allo stesso (insieme a Luca Cambiaso) darà l'incarico negli anni successivi di preparare cartoni per arazzi, che risultano essere una delle forme d'arte da lui preferite: dai "libri d'azenda" così come dagli inventari post mortem risulta evidente come di non grande importanza fosse la quadreria, mentre risaltavano per il loro valore sia le collezioni di arazzi sia quella di oggetti d'oro e d'argento.
Gli anni successivi non si segnalano per episodi di rilievo: il D. continuò a ricoprire l'incarico di maggior asentista di galere e ad essere a Genova il punto di riferimento centrale per la Spagna: le sue galere, oltre ad essere impegnate nella normale attività di salvaguardia delle coste nella lotta contro la pirateria barbaresca e turca, contribuirono al trasporto di contante per l'esercito spagnolo impegnato nella guerra delle Fiandre (dalle quali don Giovanni d'Austria gli scriverà accorate lettere, lamentando lo stato di isolamento politico e diplomatico in cui si trovava); servirono a traghettare personaggi di prestigio, come l'imperatrice (e tutti ammirarono lo sfarzo esibito nelle livree delle ciurme, tutte vestite di velluto verde); o servirono a trasportare con sicurezza e discrezione le reliquie di s. Lorenzo destinate all'Escorial.
Certo è che non c'era più spazio a grandi iniziative militari e il D. si rendeva conto che forse un ciclo della storia economico-militare delle galere si stava per concludere: agli inizi degli anni Ottanta il fulcro della guerra spagnola si spostò verso il Mare del Nord e l'Atlantico, in cui le galere non erano facilmente impiegabili. All'interno della stessa amministrazione spagnola si confrontavano le diverse posizioni di coloro che erano favorevoli al sistema degli asientos e di chi invece pensava che fosse più conveniente dare le galere, proprie, in administración; si aggiunga poi che i ritardi nei pagamenti erano ormai tali da rendere non sempre appetibile per un privato la gestione di uno stuolo di galere.
Così nel 1582 il D. si liberò di quella che era stata considerata fino ad allora la principale base del suo potere: vendette dieci galere alla Spagna, che provvide poi a cederle a tre genovesi (due a G. A. De Marini e quattro ciascuno ad Agabito Grillo e Cosma Centurione). Per sé ne riservò due (pagate "come tre") e si orientò verso una partecipazione più personale alla politica spagnola.
Era stato lo stesso Granvelle ad osservare che il D. sarebbe stato utile anche senza lo stuolo delle dodici galere e che avrebbe potuto essere un buon "consigliere". E infatti nel 1582 iniziarono a circolare le voci di una possibile nomina del D. a "generale del Mare". Nel febbraio del 1583 Filippo II gli scrisse prospettandogli, finalmente, l'agognata nomina. Nel settembre il D. si trasferì in Spagna e tra novembre e dicembre la pratica, grazie anche al fattivo contributo del Granvelle, venne conclusa. Il D. fu così nominato generale del Mare con le stesse "preminenze" che avevano avuto don Giovanni d'Austria e don Garcia de Toledo; gli fu dato allora un assegno di 12.000 scudi per sé, Più 4.000 per i suoi gentiluomini (a Madrid, in effetti, aveva un piccolo seguito composto da un numero imprecisato di "intrattenuti", diciotto "creati", la guardia, un medico e una persona di fiducia, che era allora il genovese Pietro Serra).
Tra gli anni Ottanta e Novanta il D. condusse un'accorta politica matrimoniale per figli e figlie: Vittoria sposò Ferrante Gonzaga, ad Andrea andrà Giovanna Colonna, Artemisia si unirà con Carlo Borgia di Gandia e solo Carlo sposerà una genovese, Placidia Spinola. Nonostante il chiaro impianto politico di questi matrimoni, il D. si manifesta nelle lettere (come poi nei testamenti) un padre molto affettuoso e attento, preoccupato di tutto ciò che succedeva nelle famiglie, in specie delle figlie.
Nonostante questa proiezione italiana ed europea del D. e della famiglia, restavano però anche problemi connessi alla presenza in città di un potere personale così chiaramente "ingombrante" nella piccola, e pur faziosa, Repubblica genovese.
Questioni puramente protocollari si intrecciavano con temi di maggiore rilevanza politica. Ad esempio l'annalista Antonio Roccatagliata (un nobile "nuovo") scriveva che, nel 1584, in città vi era "odio universal de cittadini verso del Doria" per i suoi portamenti altezzosi, susseguenti appunto alla nomina a generale del Mare (e un altro incidente protocollare avvenne nel giugno dello stesso anno nel mar Ligure con Marcantonio Colonna, allora in trasferimento verso la Spagna). Ma insieme con questioni puramente di forma si trovano questioni più iniportanti: ora gli si vietava di entrare in città scortato dai suoi alabardieri (soprattutto finché non avesse dato del "serenissimo" al doge), ora si apriva addirittura un procedimento penale contro uno dei suoi ufficiali, Leonardo Spinola, perché aveva minacciato la galera capitana della Repubblica, sempre per questioni di saluti.
Ma nonostante questi attriti la presenza del D. nella vita cittadina restava dominante, nonostante l'informalità degli interventi: nell'elezione di dogi e governatori l'appoggio del D. diventava necessario, o, al contrario, ci si schierava contro questo o quello, proprio perché appoggiato da lui. Certo è che pure alcuni esponenti della nobiltà "nuova" (un David Vaccà o un Matteo Senarega) raggiunsero la carica di doge grazie anche ai buoni rapporti che avevano saputo mantenere con il D., nonostante il loro passato di capifazione; mentre il D. entrerà in aperto dissidio con altri esponenti dei "vecchi", come un Giorgio Doria, uno Stefano De Mari o un Ambrogio Spinola.
Ma al D. si guardava come interlocutore possibile anche dalla lontana Inghilterra: quando l'abile, e transfuga, Orazio Pallavicino nel 1586 cercò di riattivare canali di comunicazione con la Spagna, per discutere delle possibili condizioni di pace, mandò il fratello Fabrizio, rimasto a Genova, con il potente suocero di questo, Lazzaro Grimaldi, a discutere proprio con il D.; il quale farà sapere che finché fossero continuate le scorrerie di F. Drake, sarebbe stato molto difficile intavolare serie trattative.
Con gli anni Novanta iniziarono a palesarsi nel D. i primi segni di invecchiamento, legati anche alla salute malferma; tanto che fu lui stesso a chiedere nel 1594 di essere sostituito al comando delle galere, ma per il momento non se ne parlò più oltre; anzi, proprio in quell'anno il D. aggiunse una nuova e ambita qualifica al suo cursus honorum. essendo stato nominato membro dei Consiglio di Stato.
Si può dire che a questo punto il D. aveva raggiunto l'ambito obbiettivo di avere "honore et robba". Ascoltato membro del Consiglio di Stato, generale del Mare, insignito di onorificenze e titoli (ma non ebbe il Toson d'oro, che andò invece al figlio Andrea), aveva saputo mantenere, prima, e mettere assieme, poi, un ingente patrimonio. Il suo patrimonio immobiliare era estesissimo: andava dallo Stato di Melfi (di cui era entrato nel pieno possesso alla morte di Zenobia, avvenuta il 18 dic. 1590) ai numerosi feudi appenninici, a Loano; in città e dintorni non sembra avesse una proprietà immobiliare diffusa, ma questa era concentrata attorno alla villa di Fassolo (dove a partire dagli anni '90 lavorarono Marcello Sparzio e il Brandimarte), il palazzo di strada Nuova, la villa di Pegli, oltre alle due case avite di "piazza Doria"; nel 1593 i soli "mobili di casa" erano valutati a più di 500.000 lire (più del doppio in valore, per fare un paragone, del feudo di Tursi, o del palazzo di strada Nuova).
Meno presente, ovviamente, sul fronte militare navale, partecipava però - se così si può dire - alla vita politica spagnola stilando relazioni, pareri, consigli, come quelli pubblicati nell'Ottocento nella Colección de documentos inéditos... relativi a questioni di armamento, o al problema dell'oro e dell'argento americani (in uno di questi, nonostante l'ufficialità del rapporto, affermava che nel Consejo de hacienda "no hay hombre ninguno que sepa de la materia que alli se trata" cfr. Codoin, II, pp. 171-74).
Le condizioni di salute, però, spingevano il D. a ritirarsi, tanto che nel 1599 (morto nel frattempo Filippo II) ne chiese l'autorizzazione al nuovo re; ma Filippo III per il momento respinse le dimissioni; e, anzi, circolò a Genova la voce che gli fosse stato raddoppiato lo stipendio (sarebbe stato portato alla cospicua cifra di 40.000 scudi annui). Fedele all'immagine di difensore degli interessi spagnoli (anche i più miopi), nel 1600 fece si che si giungesse all'espulsione da Genova di monsignor Goffredo Lomellini, ben noto per le sue iniziative in favore di Enrico IV (e così negli anni successivi metteva in guardia il Senato sulle relazioni di Claudio De Marini con il granduca di Toscana, a suo parere troppo strette).
Ma fu col 1601 che si prospettò al D. la possibilità di legare il proprio nome a qualcosa di veramente "honorato". A giugno chiese al Senato il permesso di far transitare da Vado 4.500 fanti per imbarcarli sulle galere; per il momento era tutto segreto ("disegnando fare un'impresa non penetrata" annota Giulio Pallavicino), e tale resterà almeno fino a metà luglio. Il progetto, per riuscire, doveva rimanere il più possibile riservato, trattandosi, in effetti, di un'impresa altamente difficile e rischiosa, vale a dire occupare Algeri.
I preparativi per armare un'armata di circa 70 galere e 10.000 fanti non potevano passare del tutto inosservati; ben presto si conobbe anche l'obbiettivo (ed Enrico IV commentò: "j'ay l'opinion que le bruit en sera plus grands que l'effet"). In realtà, sembra che anche i preparativi non fossero all'altezza dell'impresa (il Conestaggio nella sua Relazione insisté molto sulle gelosie dei viceré spagnoli), ma, nonostante ciò, il D. non desistette. Secondo il Conestaggio, "in ogni luogo conobbe che non si corrispondeva a gl'ordini del Re ne a' suoi ... ma come la cupidità della gloria si stenda più oltre che quanto è lungo lo spatio dell'humana vita, il Principe (se ben vecchio) avido di gloria volle superar con la diligenza e con la virtù quando fosse possibile ogni difficultà".
Il progetto era di giungere nei pressi di Algeri, sbarcare di notte compagnie scelte di archibugieri che occupassero una delle porte della città, e poi intervenire massicciamente con la flotta. Giunti però in vista della città nemica, si alzò una bufera di vento, e, scrive ancora il Conestaggio, "convenne ... correr anche con le galee dove il maledetto vento voleva"; la flotta si ritrovò il 3 sett. 1601 nuovamente a Maiorca, da cui era da poco partita, senza poter concludere niente.
E cosi svanì l'ultima speranza di una "notabile fattione". Le conseguenze furono rapidamente tratte; il D. presentò nuovamente le dimissioni da generale del Mare (chiedendo però che gli fosse conservata più della metà dello stipendio, affinché Potesse far vedere al "mondo" di essere ancora in grazia del re), e questa volta furono accettate. Il 12 dicembre il Senato di Genova gli decretò onori particolari, tra cui l'erezione di una statua analoga a quella di Andrea, con il titolo di "patriae libertatis conservator" (la statua fu scolpita da Taddeo Carlone, che già aveva lavorato per lo stesso D., ad esempio nei lavori di abbellimento del palazzo di strada Nuova).
La vita del D. lentamente si chiudeva, anche se occupava sempre la scena politica: nel 1602 ereditò il marchesato di Finale, ma essendo già occupato dagli Spagnoli, non poté venime in possesso (e sarà quindi solo rimborsato); nel 1604 si occupò ancora per conto degli Spagnoli dei disordini scoppiati a Monaco dopo l'uccisione di Ercole Grimaldi; ma le sue giornate passavano prevalentemente tra Fassolo e la bella villa di Loano.
Nel gennaio del 1606 le condizioni di salute si aggravarono; dettava incessantemente codicilli e codicilli, ricordando e raccomandando i suoi segretari e collaboratori ai figli, disponendo lasciti (per la figlia Vittoria, che non doveva avere avuto un matrimonio felice; 1.000 scudi per Artemisia per le spese che avrebbe affrontato per il lutto). Morì a Genova nella notte del 2 febbr. 1606.
Al primogenito Andrea andava il fedecommesso (comprensivo, tra l'altro, di Melfi, Fassolo, i feudi appenninici), a Carlo il palazzo di strada Nuova, il ducato di Tursi, le due galere; a Giannettino, ormai cardinale, diverse rendite. Il patrimonio complessivo viene valutato in 1.620.000 scudi d'oro.
Fonti e Bibl.: La vita del D. copre tempi e spazi politici molto vasti; in questa sede si daranno solo alcune indicazioni sulle principali fonti inedite. In particolare presso l'Archivio Doria Pamphili di Roma è conservato quanto resta dell'archivio del D., che è di dimensioni straordinarie, per cui se ne è potuta consultare solo una piccola parte, vale a dire: Bancone: 62.29, 65.1-65-9, 68.7-68.10, 72.1, 72.4-72.6, 73.17, 75.4, 79.35-36; Scaffali: 18.26-27, 22.40, 38.32, 38.43 (l'int. 16 contiene l'autobiografia del D.), 38.44, 39.6, 64.69, 69.12, 69.24-69.25, 69.29-69-30, 69.32-69-33, 70.24-70.25, 75.1, 75.4-75.5, 75.11-75.13, 75.15, 75.25, 75.36-75.37, 75.40, 76.26, 76.37, 77.25, 77.36, 77.39, 77.50, 79.53, 80.22, 81.15-81.16, 81.36-81.37 (questa serie delle lettere ricevute continua ancora per diverse dicine di numeri ed è di grande interesse, come quella qui ricordata successivamente che contiene una parte delle minute delle lettere in partenza), 84.30-84-32, 93.35, 93.37, 93.39-93.40.
Un discorso analogo va fatto sia per i fondi conservati all'Archivo general de Simancas, ricchissimi, naturalmente, di materiale relativo al D. e ai suoi rapporti con la Corona spagnola sia per quelli conservati a Genova. Centinaia e centinaia sono, ad esempio, le lettere conservate nella sola serie Estado dal n. 1400 al 1433 (cfr. R. Magdaleno, Papeles de Estado. Genova, Valladolid 1972).
Segnaliamo qui solo alcuni documenti utilizzati per la redazione di questa voce: Archivo general de Simancas, Estado 1384, 1388, 1389, 1401, 1403, 1408, 1420, 1422, 1425, 1431, 1433, 1544; Archivio di Stato di Genova, Archivio segreto 818, 844, 1960A, 1965-1972, 2328; Ibid., Senato, Sala Senarega 1563; Ibid., Notai: G. Villamarino sc. 191 f. 22; G. G. Cibo Peirano, sc. 195 ff. 20-22; D. Conforto, sc. 272 f. 30; A. Vernazza, sc. 278 f. 1; L. Chiavari, sc. 288 ff. 22-24; sc. 289 f. 29; D. Tinello, sc. 384 ff. 10-11; sc. 385 f. 19; G. A. Morinello, sc. 436 f. 3; A. Casareggio, sc. 531 f. 5; G. B. Cangialanza, sc. 583 f. 15; ibid., mss. 437, 801, 859 (p. 234); Archivio storico del Comune, mss. 92, 337, 339, 415; ibid., Mss. Brignole Sale, 103.A.3, 109.D.4; Genova, Univ., facoltà di econ. e commercio, Archivio Doria: sc. 646, n. 1: G. Salvago, Historia di Genova, cc. 95v, 107, 132r, 136v, 138r, 146r, 151v, 152v; Ibid., Biblioteca civica Berio, m. r. XIV, 3, 13 (vi è conservata una copia dell'autobiografia del D.); Ibid., Biblioteca Durazzo Giustiniani, mss. A.IV.2, AA.VI.9; Ibid., Bibl. giuridica P. E. Bensa, ms. 92.4.10: M. Gentile, Diario, pp. 27 s., 35, 37, 39, 45, 50, 58 ss., 255, 301, 373 ss., 383 ss.; Ibid., Biblioteca universitaria, ms B.I.19 (c. 34v), B.VI 29, C.IV.22; Archivio di Stato di Firenze, Malaspina 190, cc. 23v e ss., 298v e ss.; Ibid., Mediceo del principato 2834; Ibid., Miscell. Medicea, 97/8, 97/13; Ibid., Carte Strozziane 269; Ibid., Urbino, CI. I, Div. G, 249; Firenze, Bibl. naz., Palatino Graberg 11, vol. V; Londra, British Library, mss. Add. 28416-28417; Madrid, Biblioteca nacional, ms. 783, cc. 647-674; Milano, Bibl. naz. Braidense, ms. AE.XII.31, e. 74rv; Ibid., Bibl. Ambrosiana, mss. D 191 inf, cc. 4r-19v, G.151 inf, G. 169 inf, G. 170 inf, G. 191 inf; Modena, Bibl. Estense, Fondo Campori, Y.4.14; Ibid., Autografoteca, sub voce; Arch. segr. Vaticano, Segreteria di Stato, Genova, 4 e 6; Ibid., Miscell., Arm. II, 130; Bibl. ap. Vaticana, Barb. lat. 5302, 5303, 5367; Ibid., Chigi F.V.27; Ibid., Urb. lat. 816 II, 818 II, 848, 873, 874, 1044, 1115; Savona, Bibl. civica, ms. IX.III.2.3: P. Tomacelli, Ragionamenti morali... all' ill.mo Sr G. A. D.; Archivio di Stato di Torino, Lettere particolari, D.22.
Nei testi (e negli indici dei nomi) si confonde spesso Giovanni Andrea con Andrea; in questa bibliografia i rinvii sono solo alle opere e alle pagine in cui si tratta effettivamente del D.: Lettere di principi... libro primo, Venetia 1564, cc. 209v-212v; libro secondo, ibid. 1575, cc. 247v e ss.; G. A. Doria, Lettera scritta ... All'ecc.mo duce e ill.mi governatori della Rep. di Genova, s.n.t. [Lucca 1575]; M. A. Sauli, Lettera ... scritta a l'illustriss. Sig. G. A. D., Milano 1575; Lettere di principi... libro terzo, Venetia 1581, cc. 233v-242r; J. C. Lünig, Codex Italiae diplomaticus, Francofurti-Lipsiae 1725-1726, I, coll. 1963-1974; II, coll. 2374-2407; G. Molini, Documenti di storia italiana, Firenze 1836, II, pp. 481-484; Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, V, Firenze 1841, pp. 282, 294; Colecciòn de documentos inéditos para la historia de España, Madrid 1843, II, pp. 171-195; III, pp. 17, 20, 36, 39, 45, 68, 184 s., 196, 358 s.; VI, pp. 106 ss.; XI, pp. 362, 369, 395, 401; XXVIII, pp. 196, 220 ss., 231, 251-262; XXIX, pp. 34, 65, 218, 238, 246, 263, 479-482; XXX, pp. 25, 87, 142, 237, 288, 293, 328, 331 ss., 336, 392 s., 395; XXXVII, pp. 8, 13; XLII, p. 308; LI, p.231; XCVII, p. 495; CII, p. 179; E. Charrière, Nègociations de la France dans le Levant, Paris 1848, III, pp. 116, 118 ss., 124 s., 127, 145, 159, 187, 189, 263, 617, 619; IV, pp. 303, 634, 687 s.; A. Theiner, Annales ecclesiastici, Romae 1856, I, pp. 363 s., 487; II, pp. 140 s., 143 ss., 147, 516-520; Calendar ofState papers. Foreign series..., Elizabeth, London 1865-1927, 1560-61, pp. 148, 157, 255; 1561-62, pp. 132-139, 142 s., 146, 242, 254 s.; 1562, p. 38; 1563, pp. 131, 357, 490; 1564-65, pp. 36, 194; 1569-71, p. 349; 1572-74, pp. 286, 421, 437; 1578-79, pp. 225, 513; 1579-80, p. 254; January 1581 - April 1582, pp. 381, 535; May-December 1582, pp. 104, 111; 1583-84, pp. 107, 133, 229, 585, 608, 643, 650; 1585-86, ad Indicem; 1586-88, ad Indicem; V. Promis, Cento lettere concernenti la storia del Piemonte dal MDXLIV al MDXCII, in Miscell. di storia patria, IX (1870), pp. 611, 616, 625, 627 s.; E. Poullet, Correspondance du cardinal Granvelle, Bruxelles 1877, II, IV, VI-XII, ad Indices; A. Ceruti, Gabriele Salvago patrizio genovese. Sue lettere, in Atti d. Soc. lig. di st. patria, XIII (1880), pp.759 s., 827 ss., 831 s., 834, 852, 885; P. Paruta, La legazione di Roma, in Deputazione veneta di st. patria, s. 4, Miscellanea, VII-IX, Venezia 1887, ad Indicem; Documentos escogidos del Archivo de la casa de Alba, Madrid 1895, pp. 305, 308, 341, 349, 358, 373 s., 377; Documents historiques relatifs à la Principauté de Monaco, a cura di G. Saige, III, Monaco 1891, pp. CXIV, CXXVII, 301, 354, 367 s.; G. B. Carinci, Lettere di Onorato Caetani capitano generale delle fanterie pontificie nella battaglia di Lepanto, Roma 1893, pp. 67, 77, 97-100, 103; Lettere di D. Giovanni d'Austria a G. A. D., I, a cura di A. Doria Pamphilj, Roma 1896; L. Serrano, Correspondencia diplomatica entre España y la S. Sede durante el pontificado de s. Pio V, Madrid 1914, ad Indices; J. Lefevre, Correspondance diplomatique de Philippe II sur les affaires des Pays. Bas, Bruxelles 1940, I, pp. 222, 227, 298, 343; V. Fernandez Asis, Epistolario de Felipe II sobre asuntos de mar, Madrid 1943; J. Olarra Garmendia-M. L. Larramendi, Indices de la correspondencia entre la nunciatura en España y la Santa Sede, durante el reinado de Felipe II, Madrid 1948-1949, ad Indices; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, I, Spagna (1494-1617), a cura di R. Ciasca, Roma 1951, ad Indicem; Epistolario del III duque de Alba don Francisco Alvarez de Toledo, Madrid 1952, ad Indices; Nunziature di Napoli, I, a cura di P. Villani, Roma 1962, ad Indicem; G. Oreste, Una narrazione inedita della bataglia di Lepanto, in Atti d. Soc. lig. di st. patria, LXXVI (1962), 2, pp. 220-223, 228, 230; La corrispondenza da Madrid dell'ambasciatore Leonardo Donà (1570-1573), a cura di M. Brunetti-E. Vitale, Venezia-Roma 1963, ad Indicem; Nunziature di Napoli, III, a cura di M. Bettoni, Roma 1970, ad Indicem; Nunziature di Venezia, IX, a cura di A. Stella, Roma 1972, ad Indicem; XI, a cura di A. Buffardi, ibid., ad Indicem; G. Pallavicino, Inventione ... di scrivere tutte le cose accadute alli tempi suoi (1583-1589), Genova 1975, pp. 14, 30, 45, 49, 53, 79, 108 s., 141-146, 151, 157, 232, 242; R. Magdaleno, Titulos y privilegios de Napoles. Siglos XVI-XVIII, I, Onomastico, Valladolid 1980, ad Indices.
Cfr. inoltre: A. F. Cimi, Successi dell'armata della Maestà cattolica. Destinata all'impresa di Tripoli di Barberia, della presa delle Gerbe, e progressi dell'armata turchesca, Venetia 1560, passim; G. Mutio, Fonte di nobiltà, Genova 1570, passim; L. Pallavicino, Lettera... sopra la vittoria di Don Giovan' d'Austria, s.n.t. [Genova 1571-1572], passim; M. A. Montiflori, De pugna navali cursularia, Genuae 1572, passim; U. Foglietta, Clarorum Ligurum elogia, Romae 1573, cc. n.n. e 160 ss.; Id., De sacro foedere in Selimum ... Variae expeditiones in Africa ... Obsidio Melitae, Genuae [1585], passim; G. Catena, Vita del gloriosissimo papa Pio quinto, Roma 1587, pp. 170 s., 212, 218, 222; G. Conestaggio, Relazione dell'apparecchio per sorprendere Algieri, Genova 1601, passim; M. Merello, Della guerra fatta da' Francesi e de' tumulti suscitati poi da Sampiero della Bastelica nella Corsica, Genova 1607, pp. 240, 242, 295, 336; P. Paruta, Della historia vinetiana parte seconda, Vinetia 1645, pp. 37, 39, 46, 72 s., 145, 154 ss., 160; C. Sigonio, De vita et rebus gestis Andreae Doriae, in Opera omnia, III, Mediolani 1739, coll. 1221 ss., 1259 ss.; G. B. Spinola, Commentarii delle cose occorse a Genovesi dal 1572 al 1576, Genova 1838, pp. 30, 55, 62, 80, 83, 86, 90, 92 s., 96 ss.; A. Roccatagliata, Annali della Rep. di Genova dall'anno 1581 all'anno 1607, Genova 1873, ad Indicem; A. Jal, Archéologie navale, Paris 1840, I, pp. 13 s., 405; C. Rosell, Historia del combate naval de Lepanto, Madrid 1853, pp. 34-37, 44, 46, 167 s ., 171-180; A. Olivieri, Le discordie e le guerre civili dei Genovesi nell'anno 1575 descritte dal doge G. B. Lercari. Arricchite di note e documenti inediti, Genova 1857, pp. 32, 47, 50, 76, 126, 137, 144, 146 s., 151-167, 263 s., 268 ss., 285, 292 s., 407, 556-567, 705; Id., Monete medaglie e sigilli dei principi Doria che serbansi nella Biblioteca della R. Università ed in altre collezioni di Genova, Genova1858, pp. 9 ss., 30-33, 59 s.; A. Guglielmotti, Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto, Firenze 1862, ad Indicem; M. Spinola, Considerazioni su vari giudizi di alcuni recenti scrittori riguardanti la storia di Genova, in Atti d. Soc. lig. di st. patria, IV (1867), pp. 376, 412; N. Giuliani, Notizie sulla tipografia ligure sino a tutto il secolo XVI, ibid., IX (1869), pp. 176, 203, 266, 357 ss., 365-369, 374, 382 s., 389, 394, 396, 504 ss.; M. Spinola, Relazione sui documenti ispano-genovesi dell'Archivio di Simancas, ibid., VIII (1872), pp. 388, 402; G. Avìgnone, Medaglie dei liguri e della Liguria, ibid., pp. 521 s.; A. Merli-L. T. Belgrano, Il palazzo del principe D'Oria a Fassolo in Genova, ibid., X (1874), pp. 45-82, 93-96; A. Guglielmotti, La guerra dei pirati e la marina pontificia dal 1500 al 1560, Firenze 1876, ad Indicem; Id., La squadra permanente della marina romana. Storia dal 1573 al 1644, Roma 1882, pp. 11, 17, 119 s., 150-154; B. Veroggio, G. D. alla battaglia di Lepanto, Genova 1886; C. Manfroni, La lega cristiana nel 1572. Con lettere di M. A. Colonna, in Archivio della Soc. romana di st. patria, XVI (1893), pp. 349-352, 382, 387; XVII (1894), pp. 52 s., 57; Id., Le relazioni fra Genova, l'Impero bizantino e i Turchi, in Atti d. Soc. lig. di st. patria, XXVIII (1896), pp. 760, 768, 774, 782; Id., Storia della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto, Roma 1897, pp. 366, 390, 394 ss., 411 ss., 425 ss., 431 ss., 447 ss.; A. Neri, Andrea Doria e la corte di Mantova, in Giorn. ligust. di archeol., storia e lett., XXIV (1898), pp. 116-121; G. Ceci, I feudatari napoletani alla fine del sec. XVI, in Arch. st. p. le provv. napol., XXIV (1899), p. 125; C. Manfroni, G. A. D., in Rassegna nazionale, 1º luglio 1901, pp. 25-43; L. 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