ANGUILLARA, Giovanni Andrea dell'
Nacque a Sutri intorno al 1517, come si deduce da un capitolo autobiografico indirizzato al card. C. Madruzzo.
Incerta è anche la famiglia cui l'A. appartenne, sebbene egli fosse solito richiamarsi alle glorie di quel casato che aveva dato i natali all'illustre ospite del Petrarca. Mancando sicuri documenti comprovanti una tale discendenza, si può credere che l'A. facesse parte di un ramo cadetto della famiglia Anguillara: tipico rappresentante di quella nobiltà provinciale scaduta nel sec. XVI da ogni effettiva funzione di comando, ma orgogliosa degli antichi privilegi.
A Roma, dove crebbe e fu educato, l'A. dovette assistere nel 1527 al saccheggio della città per opera del connestabile di Borbone. In una canzone diretta Alla regina di Francia e a Madonna (databile forse al 1555) il poeta rievocherà pateticamente l'avvenimento più importante della sua adolescenza ed esorterà Caterina de' Medici ad allontanare da Roma il pericolo luterano. Non è improbabile che il problema dell'ortodossia cattolica (che rappresenta una costante nella tematica delle Rime in aperta polemica con le forze disgregatrici interne ed esterne) tragga dal ricordo della strage romana la sua prima origine. Per ora l'A. attende, poco asiduamente, agli studi di giurisprudenza e al periodo romano si fanno risalire i suoi primi tentativi di poesia nell'ambito dell'Accademia dello Sdegno, mentre gravi difficoltà di carattere economico e una vita disordinata e oscura mettono a dura prova le ambizioni dello scrittore. L'innata vocazione artistica e un fervido desiderio di onori inducono sovente il poeta, in contrasto con l'intrapresa carriera giuridica, a sostare di preferenza presso la libreria del Blado o del Salamanca, nel quartiere di Parione, ricercando amici influenti nell'ambiente dei critici e degli eruditi ai quali domanda consigli e sollecita incoraggiamenti. Il risultato di queste incerte e affrettate esperienze letterarie sarà l'Anfitrione (1548), commedia cui l'A. dovette affidare molte giovanili speranze, se all'indomani del clamoroso insuccesso riportato dalla rappresentazione il poeta si convinse ad abbandonare il soggiorno romano per tentare altrove la protezione dei principi, a saggiare più attentamente i gusti e le inclinazioni dei maggiori letterati italiani per un'opera che avrebbe dovuto conferirgli una notevole fama.
Al seguito del card. Farnese l'A. si reca a Parma, ove sembra aver collaborato alla difesa durante l'assedio posto da Ferrante Gonzaga, e di lì a Venezia dove lavora alla traduzione in ottave delle ovidiane Metamorfosi: nel 1551 è pronto per la pubblicazione il primo libro e sono probabilmente tradotti i due successivi che l'A., trasferitosi a Parigi, stampa nel 1554 con un'ampia dedica a Enrico II (De le Metamorfosi d'Ovidio libri III di Giovanni Andrea dell'Anguillara, Parigi 1554). In questo periodo l'A. spera in una rapida conclusione dell'opera e in un successo immediato favorito dal consenso della corte francese; senonché la materia ovidiana assume proporzioni vastissime nella fantasia del traduttore che inventa favole nuove liberamente rielaborando le parti originali del testo; cominciano a giungere dall'Italia le prime critiche, non sempre spassionate, tese a sottolineare polemicamente la scarsa aderenza della versione al poema di Ovidio: elementi che ritardano il lavoro dell'A. costringendolo a lunghi e imprevisti periodi di stasi creativa. Soprattutto con la morte di Enrico II venne improvvisamente a mancare l'ambiziosa speranza dello scrittore di essere annoverato fra i cortigiani del re, e con essa l'illusione di un'esistenza protetta dal pericolo della povertà e confortata dalla serena consuetudine degli studi. Ciò nonostante l'epoca del soggiorno francese è da ricordare come il periodo di più fervida attività dell'A.: egli attende alla traduzione delle Metamorfosi (l'opera sarà compiuta probabilmente a Lione nel 1560 sotto gli auspici del lucchese Matteo Balbani), assimila ed approfondisce i caratteri della poesia romanzesca italiana e francese (frutto di tale lavoro sarà L'Orlando Furioso dell'Ariosto con gli argomenti di Gio. Andrea dell'Anguillara, Venezia 1563, 1566, 1568, e i Nuovi argomenti fatti da M. Giovan' Andrea dell'Anguillara sopra Orlando Furioso di M. Lodovico Ariosto, Firenze 1570); ottiene l'amicizia di personaggi influenti tra i quali la stessa Caterina de' Medici; compone alcune tra le Rime più suggestive come quelle Stanze per lo natale di Monsignor lo duca d'Anjou (1555), notevoli soprattutto per alcune delicate scene di raffinato gusto classicistico. Il poeta stesso rievocherà questo periodo con un senso di sincera e profonda commozione indicando nei disordini creati dagli ugonotti i motivi che lo convinsero ad abbandonare la Francia.
Di nuovo in Italia nel 1560, l'A. sottopone il manoscritto della traduzione al giudizio del Varchi, e a Firenze (forse per iniziativa dello stesso Varchi) è introdotto alla corte di Cosimo I: l'A. ripone grandi speranze nella generosità del duca forse pensando di ritrovare quell'ambiente di mecenatismo che aveva caratterizzato la corte di Enrico II. Ma l'amicizia, dopo due anni di attese e di inutili sollecitazioni, si risolverà in maniera poco vantaggiosa per l'A. lasciando nel suo animo l'amarezza di un inatteso rifiuto. Testimonianza dei rapporti intercorsi tra Cosimo I e l'A. è una lettera del 1563 in cui, deposto ogni falso atteggiamento di adulazione, il poeta accusa il duca di ipocrisia e di avarizia.
Nel 1561 l'A. pubblica la versione dell'intero poema ovidiano con una nuova dedica a Carlo IX (Le Metamorfosi di Ovidio di Gio. Andrea dell'Anguillara, Venezia 1561) e a Venezia, tra il 1561e il 1564, si accinge a una nuova opera di grande impegno: la traduzione in ottave dell'Eneide. Immensi sono i privilegi che l'A. pensa di ottenere con questo lavoro: a tale scopo indirizza il primo libro tradotto ai maggiori principi italiani perché concorrano ad aiutarlo. Non sembra tuttavia che l'espediente riscuotesse il successo sperato; l'opera inoltre presentò delle difficoltà impreviste in sede di preparazione arrestandosi alla traduzione del II libro (Della Eneida di Virgilio libro primo ridotto da Giovanni Andrea dell'Anguillara in ottava rima, Padova 1564, e Il secondo libro della Eneida di Vergilio ridotto da Giovanni Andrea dell'Anguillara in ottava rima, Roma 1566), né maggior fortuna aveva ottenuto il poeta dalla rappresentazione del suo Edipo (Padova 1560, ma la tragedia era stata composta quattro anni prima: Edipo tragedia di Gio. Andrea dell'Anguillara, Padova 1556), opaca imitazione di Sofocle e Seneca.
Da questo periodo l'A. considera la traduzione dell'Eneide come il compito più alto della sua poesia, l'opera degnamente conclusiva di una lunga carriera letteraria. Molte tra le più significative poesie di questo periodo (Canzone ad Alfonso II d'Este,1562; A Massimiliano II imperatore dei Romani, 1564; Alla Serenissima Principessa di Fiorenza, 1566) rivelano nel tono talora apertamente adulatorio, talora audace e risentito, dello scrittore il desiderio di suscitare un'eco sempre più vasta di consensi per il suo "Virgilio". A Roma, dove l'A. si trasferisce nel 1566 dopo un breve soggiorno fiorentino, egli pensa ancora di portare a termine la traduzione sotto gli auspici del cardinale C. Madruzzo; non restano tuttavia tracce della prosecuzione dell'opera, tranne un breve accenno in un sonetto per Castore Durante; rimangono dell'ultimo periodo romano alcune minori poesie, tra cui una canzone dedicata a Pio V, nella quale l'A. lamenta le sue precarie condizioni di salute, e l'altra, più importante, che celebra la vittoria delle armi cristiane nella battaglia di Lepanto. Morì probabilmente a Sutri, forse nel 1572, dal momento che il Franceschi, ristampando proprio in quell'anno la traduzione delle Metamorfosi,poteva sostituire (certo di sua iniziativa) alla dedica originale dell'A. quella dell'editore a un certo Lodovico Malaspina.
Notevole fu la fortuna dell'A. legata principalmente alla traduzione delle Metamorfosi. Tra le numerose ristampe cinquecentesche dell'opera (tutte veneziane) basta ricordare, oltre la menzionata edizione del 1572, quella del 1563 con le annotazioni di G. Orologi; l'altra del 1575 con le annotazioni di G. Orologi e gli argomenti di F. Turchi, quella infine del 1584 (riprodotta nel 1592) curata da B. Giunti e riconosciuta generalmente come la migliore. Nel Seicento le Metamorfosi furono ristampate da M. Zaltieri (Venezia 1607 e ancora 1613, 1614) e da Z. Conzatti (Venezia 1669, 1677): edizioni che preludono all'enorme diffusione dell'opera nel primo trentennio del sec. XVIII cui accenna F. Argelati (Biblioteca dei volgarizzatori, III, Milano 1767, p. 133). La ristampa veneziana del 1799 (Parnaso de' poeti classici d'ogni nazione, XXVIII) venne ad interrompere un periodo di stasi nella fortunata storia editoriale delle Metamorfosi, che si accentuò nei primi decenni del secolo scorso con una serie di edizioni atte ad introdurre la conoscenza dell'A. presso un più vasto pubblico di lettori. L'opera fu pubblicata a Venezia nel 1804 presso G. Orlandelli e nel 1825 (ed. tip. Rizzi); a Milano nel 1805 (Classici italiani antichi, LI), nel 1827 (Raccolta di poeti classici italiani antichi e moderni, LVIII), nel 1828 per N. Bettoni; a Firenze nel 1828 per L. Ciardetti e nel 1832 per V. Batelli con annotazioni e testo latino a fronte. Minor fortuna ebbe la traduzione dell'Eneide cui dovette non poco nuocere il confronto con la versione del Caro: il primo libro fu ristampato da D. Farri (Venezia 1565), ma del secondo libro ignorarono l'esistenza l'Argelati, il Mazzuchelli, il Fontanini, il Poggiali, tratti probabilmente in errore dalla scarsità di esemplari dell'edizione romana. Ne rinvenne una copia G. Tubarchi e una seconda G. Manzi: esemplari di cui si servì il Paganino per l'unica edizione che possediamo comprendente entrambi i libri tradotti dall'A. (Il libro primo e il secondo dell'Eneida di Virgilio ridotti in ottava rima da G. A. dell'Anguillara, Parma 1821).
Dell'Edipo (ristampato a Venezia nel 1565 e a Brescia nel 1605) tentarono una rivalutazione il Quadrio e il Tiraboschi dopo il severo giudizio espresso da Giasone di Nores (v. per l'argomento G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 2, Brescia 1753, pp. 789-790), ma l'opera rimase scarsamente conosciuta nel corso del Settecento e del secolo successivo. Può leggersi ora in Teatro italiano antico, VIII, Milano 1809, pp. 3-132.
La traduzione delle Metamorfosi rappresenta l'opera in virtù della quale il nome dell'A. occupa ancor oggi un posto di assoluto rilievo nella schiera dei poligrafi italiani del Cinquecento. Composta in polemica con le altre traduzioni del poema ovidiano intraprese in Italia in quegli anni (celebre fra gli altri il tentativo di Ludovico Dolce), sollecitata dagli interventi di alcuni letterati autorevoli dell'epoca quali il Varchi e il Ruscelli, l'opera, che nelle ambizioni dell'A. avrebbe dovuto trascendere il modello latino nella stessa misura in cui l'invenzione ariostesca aveva superato la materia del Boiardo, assume una originale fisionomia grazie alla fantasia feconda e bizzarra dello scrittore, creatrice di nuovi miti e leggende. Questa caratteristica, tuttavia, se sottolinea una innata vocazione ad un più vasto sentire e descrivere rispetto ai rigidi dettami dell'imitazione classicista ed avvicina sensibilmente lo scrittore agli interessi e alle curiosità del pubblico contemporaneo, accentua d'altro canto quel senso di frammentarietà già insito nel poema latino e conferisce all'opera il segno di una sostanziale inorganicità e incongruenza stilistica difficilmente spiegabile sulla base di una concezione rigorosa dell'opera letteraria.
Di altre traduzioni da Ovidio (Ars amandi) e da Plauto (il menzionato Anfitrione) abbiamo qualche notizia, ma nulla dei testi. Un cenno soltanto meritano le altre opere di derivazione classica viziate da uno stile pretenzioso e retorico.
Più interessanti sono le Rime: non tanto i sonetti e le canzoni di argomento politico o apologetico, quanto taluni capitoli garbatamente giocosi (come quello Sul pagar la Sensa o l'altro In lode del vino), ovvero d'ispirazione autobiografica in cui il poeta rappresenta sovente se stesso, le sue miserie di poeta cortigiano, le sue speranze nella prodigalità dei potenti. Deposta la retorica classicista, il modello per queste poesie è costantemente il Berni, e nell'ambito di una letteratura più dimessa e raccolta, in un tono assorto e talvolta sinceramente commosso, l'A. trova l'esatta dimensione di una forma d'arte lungamente e faticosamente vagheggiata. Soluzione questa caratteristica di molta letteratura cosmopolita del tempo che, mancando d'un centro oggettivo d'ispirazione, giunge all'espressione autobiografica come a un punto naturale di approdo. Le migliori Lettere si pongono in questo stesso clima spirituale.
Bibl.: G. Brambilla, Le trasformazioni di Ovidio e i traduttori di esse, in Il Politecnico, XVIII(1863), pp. 242-255; F. D'Ovidio, Due tragedie del Cinquecento, in Saggi critici, Napoli, 1878, pp. 272-311; C. Lozzi, Versione dell'A. dell'Eneide di Virgilio e curioso dono degli esemplari della prima edizione, in Il Bibliofilo, VI, 7 (1885) pp. 102 s.; M. Pelaez, La vita e le opere di G. A. dell'A., in Il Propugnatore, n.s., IV, 1(1891), pp. 40-124; V. Rossi, Nuovi documenti su G. A. dell'A., in Giorn. stor. d. letter. ital., XVIII(1891), pp. 435-438; F. Beneducci, Una traduzione bizzarra, in Scampoli critici, Oneglia1899, pp. 35-41; G. Mancini, Lettera satirica di G. A. dell'A., in Arch. stor. ital., LXXIII(1916), pp. 353-364; G. Lorini, Per la biografia di G. A. dell'A., in Giorn. stor. d. letter. ital., CVI(1935), pp. 81-93. Le edizioni delle opere minori si trovanoindicate nel cit. articolo del Lorini.