CALIGARI, Giovanni Andrea
Nacque a Brisighella il 14 ott. 1527 da Giuliano e da Comelia Gualamini. Nel 1547 si trasferì a Bologna, dove si addottorò in diritto nel 1554. In questo stesso anno ottenne un modesto incarico presso la Curia pontificia, dove servì per qualche tempo, per passare poi alle dipendenze del vescovo G. F. Commendone. Nel 1561 prese gli ordini sacri ottenendo subito, grazie alla protezione del Commendone, la carica di vicario del card. B. Scotti nell'episcopato di Piacenza. Dopo tre anni di zelante servizio in questa carica, che gli valse l'apprezzamento del duca Ottavio Farnese, e un breve periodo trascorso a Bologna, quale vicario del cardinale arcivescovo Ranuccio Farnese, tornò a Roma dove brigò per ottenere una nuova conveniente sistemazione dapprima presso il cardinale Ippolito d'Este, poi, con più fortuna, presso il suo antico protettore, il Commendone, di recente creato cardinale ed allora nunzio in Polonia. La corrispondenza del C. con il Commendone, tra la fine del 1565 e il gennaio successivo, alternando le querimonie sulla situazione e sulle aspirazioni del C. con le notizie sul conclave seguito alla morte di Pio IV, costituisce una tra le fonti principali per la storia di questo avvenimento.
Dal nuovo papa, Pio V, il Commendone fu inviato di lì a poco in qualità di cardinale legato ad Augusta, dove si riuniva la Dieta dell'Impero. Il C. fu pronto a cogliere la possibilità che la nuova destinazione del suo protettore gli offriva e quando in Curia si decise di inviare al Commendone le istruzioni relative alla sua missione presso l'assemblea imperiale ed il cappello cardinalizio che avrebbe solennizzato la presenza del rappresentante pontificio presso la Dieta, il C. si prodigò quanto poté per ottenerne l'incarico, cosa che gli riuscì infine per la richiesta formale che ne fece in Curia lo stesso Commendone. Il C. poté fare così, alle dipendenze di uno tra i più esperti ed accorti diplomatici pontifici del tempo, le sue prime esperienze internazionali: per breve tempo tuttavia, poiché già nel maggio il Commendone lo rinviava a Roma con una importante missione presso lo stesso pontefice.
Alla Dieta il cardinale legato aveva finito per trovarsi in grave imbarazzo. Egli conosceva l'estremo rigore di Pio V in materia di fede: lo stesso C. da Roma gli aveva scritto di astenersi da ogni contatto compromettente con gli eretici, asserendo che il papa lo "haveria malissimo" e aggiungendo l'esplicito avvertimento che "qui sono molti osservatori delle sue attioni" (Epistolae et acta, p. 200); pare probabile che simili raccomandazioni di prudenza il C. rinnovasse al suo protettore dopo il suo arrivo nella città bavarese. Perciò il Commendone era grandemente incerto sull'atteggiamento da prendere nei riguardi di una conferma da parte della Dieta della pace di Augusta del 1555: se in linea di principio la opposizione pontificia ad essa rimaneva indiscussa, in linea di fatto sembrava inopportuno protestare clamorosamente contro quell'accordo religioso al quale aderivano ormai tutti i principi cattolici.
Il Commendone non volle quindi correre il rischio di una decisione personale ed inviò nuovamente il C. a Roma per esporre al pontefice la situazione e chiedere una precisa indicazione: la delicatezza della missione mostra con evidenza la fiducia nutrita dal Commendone verso il C., che assolse all'incarico nel migliore dei modi, ottenendo per il cardinale legato ampia libertà di azione, così come del resto sollecitavano in Curia e presso lo stesso pontefice quanti avevano più diretta conoscenza dell'opportunità, per gli interessi cattolici in Germania, di non riprodurvi lacerazioni e contrasti, primi tra tutti i gesuiti.
è sorprendente, dopo questo episodio, la modestia del premio ricevuto dal C., che in sostanza lo escluse per alcuni i dal partecipare, così come sembrava ormai possibile dopo la sua missione in Germania, alla politica della Curia romana: dopo aver servito per qualche tempo a Roma gli interessi privati del Conimendone, ottenne nel 1570, per intervento di lui, la parrocchia di S. Giovanni "in Octavo", presso Brisighella, che garantiva una rendita di 300 ducati. Qui il C. rimase alcuni anni, a quanto pare sino al 1574, allorché si trasferì nuovamente a Roma, rinunziando alla sua piccola curia il 21 ottobre del 1575.
Il fatto più rilevante di questo periodo parrocchiale del C. sono i suoi rapporti con l'arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, che pare avesse conosciuto già nel suo periodo piacentino: da lui ebbe l'incarico di istruire il processo contro un carmelitano bolognese, tale padre Frumento, accusato di eresia, e nel 1572 fu invitato a Milano per collaborare all'organizzazione del sinodo provinciale. Ma l'esempio del Borromeo non valse a rafforzare nell'ambizioso prelato le scarse inclinazioni alla missione pastorale ed è significativo che il C., che pure professò sempre grande venerazione per il Borromeo, dovette cercare altrove un nuovo protettore. Questa volta fu il turno del cardinale Antonio Carafa, al quale dovette il ritorno e il definitivo inserimento nei ranghi della burocrazia e poi della diplomazia pontificia.
Ottenuto per intervento di quell'eminente porporato l'ufficio di referendario delle due Segnature nel 1574, il C. fu inviato in quello stesso anno a Siena, con l'incarico della esazione dei contributi che il clero della città toscana doveva alla Camera apostolica, incarico che il C. assolse rapidamente.
Al ritorno dalla missione senese Gregorio XIII, con breve del 16 ott. 1574, nominò il C. commissario apostolico e collettore di Portogallo, in sostituzione di Flaminio Donato d'Aspra: oltre alle normali funzioni connesse con queste cariche, il C. aveva incarico di portare al re Sebastiano, reduce da una spedizione in Marocco, la spada ed il cappello benedetti dal pontefice, segno del compiacimento papale per le benemerenze cattoliche acquistate dal fedelissimo a danno dei Mori. Durante la sua breve pennanenza in Portogallo il C. collaborò all'organizzazione di una nuova spedizione africana, che lo stesso Gregorio XIII promosse ed in parte finanziò: non ebbe tuttavia modo di vederne la realizzazione e la disgraziata conclusione (i Portoghesi furono sconfitti e lo stesso Sebastiono ucciso nella battaglia di Alcázarquivir, presso Tangeri, il 4 ag. 1578), poiché nel settembre del 1577 fu richiamato a Roma e sostituito con Roberto Fontana.
In Curia si cominciava ad apprezzare il C., tanto che una richiesta di Carlo Borromeo, il quale al ritorno del C. dal Portogallo lo avrebbe voluto a Milano con funzioni di vicario generale, non fu esaudita. Gregorio XIII lo aveva infatti già destinato al ben più cospicuo incarico di nunzio in Polonia, con facoltà di legato a latere, il 28 dic. 1577.
Dopo l'iniziale freddezza di rapporti tra la S. Sede e Stefano Báthory, contro il quale la Curia romana ed il nunzio Vincenzo Laureo, predecessore del C., avevano sostenuto l'elezione al trono di Polonia dell'imperatore Massimiliano II, le relazioni tra la Chiesa ed il sovrano erano notevolmente migliorate, anche in virtù della morte dell'Asburgo. Il richiamo del Laureo e l'invio del C. sancivano, nelle intenzioni romane, questa cordialità nuova, alla quale del resto Stefano I corrispondeva largamente per proprio coito, come il C. ebbe presto modo di constatare.
I sospetti provocati a Roma dall'adesione del Báthory alla confederazione di Varsavia tra nobili cattolici e protestanti del 1573, che i vescovi polacchi avevano apertamente disapprovato, finirono infatti per cadere di fronte alla chiara intenzione dimostrata da Stefano di favorire in ogni modo il cattolicismo nel paese, sostenendo l'applicazione dei deliberati tridentini, che era compito preminente del Caligari. Il nunzio dovette in misura rilevante all'appoggio del re se riuscì ad ottenere che i benefici ecclesiastici fossero attribuiti soltanto a coloro che accettavano la professione di fede tridentina ed osservavano l'obbligo della residenza. Le stesse condizioni furono imposte ai professori dell'università di Cracovia, mentre la riforma del clero secolare e regolare fu sostenuta da Stefano, il quale era costantemente consigliato dai gesuiti, con tutto l'impegno desiderabile. Le stesse cariche dello Stato furono attribuite prevalentemente, secondo le richieste del C., ad esponenti cattolici, cosicché né il nunzio né la Curia ebbero mai occasione di lamentarsi in proposito del Báthory.
Là dove i compiti affidati al C. si rivelarono di più difficile soddisfazione, fu per quanto concerneva le relazioni internazionali del re polacco. Il nunzio era stato incaricato da Gregorio XIII di indurre Stefano a riavvicinarsi all'Impero, denunciando gli accordi che lo legavano ai principi protestanti di Germania, ed al re di Svezia Giovanni III. Ora un accordo tra il Báthory e Rodolfo II d'Asburgo era impossibile, finché ciascuno dei due avesse continuato ad aspirare alla corona di Ungheria, e d'altra parte gli accordi di Stefano con i principi luterani e con gli Svedesi erano una evidente funzione dello stato di ostilità con l'Impero. Su questo punto il C., sebbene moltiplicasse i tentativi, lavorando anche di concerto con il nunzio a Vienna Orazio Malaspina, non ottenne alcun risultato soddisfacente. Del resto nel corso stesso della nunziatura del C - il problema del riavvicinamento del Báthory, alle potenze cattoliche (comprese tra queste la Francia e la Spagna, i cui rapporti con la Polonia erano in questo periodo tutt'altro che cordiali) venne ad inserirsi nel più ampio contesto dei progetti pontifici per una nuova alleanza della cristianità contro il Turco.
Le corti europee si rimandavano sempre più frequentemente le notizie delle gravi sconfitte turche nella guerra intrapresa dal sultano Murad III contro la Persia, notizie che l'antico odio e la paura perdurante anche dopo Lepanto volentieri ingigantivano. La possibilità di sferrare, contemporaneamente alla guerra in Asia, un colpo decisivo contro il sultano nei Balcani e nel Mediterraneo era troppo seducente perché la diplomazia pontificia non vi si impegnasse con tutte le proprie risorse: si pensava persino a Roma che l'Impero ottomano avrebbe potuto facilmente essere annientato se la lega si fosse realizzata con tempestività sufficiente per sfruttare la favorevole congiuntura asiatica. L'impegno dei Polacchi nella crociata apparve subito alla Curia come una condizione necessaria alla effettuazione del grande disegno: si conosceva la forza militare polacca, che qualche osservatore riteneva potenzialmente capace di 400.000 cavalieri e di 100.000 fanti, si aveva la più grande considerazione delle virtù gueriere del Báthory, e si riteneva che una spedizione, opportunamente sussidiata da Roma, contro la Transilvania, la Moldavia e la Valacchia avrebbe potuto persino concludersi con la conquista di Costantinopoli. Perciò nel giugno del 1579 il segretario di Stato Tolomeo Galli investiva il C. del compito di convincere Stefano ad accettare il comando della crociata, rinunziando per il momento alla propria ostilità contro i Moscoviti e rivolgendo ogni sforzo ed ogni energia alla distruzione del secolare nemico della cristianità.
Ma per quanto potesse essere suggestivo il progetto della Curia, esso si scontrava con una difficoltà insormontabile: l'effettiva situazione politica della Polonia e dello stesso Báthory, che la Curia pontificia si rivelava incapace di apprezzare convenientemente, legata come continuava ad essere ad un anacronistico sogno di preminenza dei valori della fede sugli interessi particolari degli Stati. Soltanto l'inguaribile utopismo di Gregorio XIII, non diverso in questo da tanti suoi predecessori e successori, poteva ignorare o sottovalutare il fatto che i grandi nemici del regno polacco erano, nella circostanza, non i Turchi, ma i Moscoviti, ed illudersi che l'appello ai buoni sentimenti cattolici di Stefano fosse sufficiente a distogliere il sovrano dall'impegno preso nel giurare i pacta conventa al momento dell'elezione al trono, di mantenere cioè la pace con i Turchi e di muovere contro i Moscoviti per riconquistare la Lituania e vendicare le stragi compiute in Polonia da Ivan il Terribile. Così, mentre il C. riceveva dalla segreteria di Stato i dispacci che lo officiavano ad offrire a Stefano il comando dell'impresa contro gli infedeli, le armate polacche invadevano la Russia Bianca e mettevano a sacco Polozk e Sokol.
Si capisce bene quale potesse essere il risultato dei sondaggi affidati al C.: quando Stefano abbandonò il campo, nelle more invernali della campagna, e gli accordò finalmente udienza egli non solo non trovò resistenze al grande progetto di lega, ma sollevò il più vivo entusiasmo del re all'idea della grande impresa militare che sollecitava ugualmente i suoi spiriti guerrieri ed il suo ardore cristiano. Ma quando il nunzio tentò di ottenere un più preciso impegno la realtà riprese il sopravvento: le esigenze della guerra contro i Russi si riproponevano in tutta la loro urgenza ed il Báthory aveva buon gioco nel fronteggiare le istanze del nunzio rilevando i mille ostacoli che si opponevano al progetto pontificio.
Le potenze cattoliche occidentali, osservava il re, avevano già dimostrato la loro incostanza, la loro incapacità di portare sino in fondo l'offensiva contro l'Impero ottomano dopo Lepanto: i Polacchi non avrebbero corso il rischio di rimanere isolati contro i Turchi. Ma furono soprattutto le proposte avanzate dal C. per una pacificazione con Mosca che consentisse al Báthory di impegnarsi nell'impresa contro Costantinopoli a far cadere la trattativa. Stefano non avrebbe accettato di discutere di pace con lo zar se non con la spada alla mano e per trarre vendetta di tutte le offese, anche personali, che egli riteneva di aver subito: tanto era costretto a scrivere sconsolatamente il nunzio a Roma, e doveva aggiungere, dopo la Dieta del 23 nov. 1579, che la nobiltà polacca era disposta in questo a sostenere sino in fondo il re. Ancora di più: nella prospettiva della nuova campagna contro i Moscoviti, Stefano riprendeva con rinnovato calore i contatti con Murad III, stimolando il sultano a scatenare i Tartari contro i Russi. In sostanza l'iniziativa pontificia in Polonia si concludeva con un clamoroso fallimento.
Il quadro della situazione cambiò in seguito alla campagna del 1580: le "buone battiture" inflitte dal Báthory ai Russi, come si esprimeva il Galli scrivendo al C. (P. Pierling, Papes et tsars, p. 162), indussero lo stesso Ivan IV a ricercare la mediazione pontificia per aprire trattative di pace con i Polacchi. Naturalmente la Curia, ed a rimorchio di essa il C., fu pronta a stravolgere il significato di questa iniziativa, vedendo nelle trattative iniziate dallo zar un'ottima occasione per riguadagnare all'ortodossia i fratelli separati (e venne perciò proposta ad Ivan l'unificazione della Chiesa ortodossa a quella cattolica sulla base delle conclusioni del concilio di Firenze) e, naturalmente, per allargare il fronte della lega contro il Turco, chiamando a parteciparvi gli stessi Moscoviti.
Illusioni e aberrazioni che si trascinarono a lungo e che, se non cambiarono e non potevano cambiare il corso degli avvenimenti, tuttavia accentuarono il carattere di irrealtà della politica pontificia. Per quanto riguarda il C., che tali illusioni condivise pienamente, esse servirono soltanto a scoprire sino in fondo la sua scarsa levatura di diplomatico, ad impedirgli di comprendere la situazione in cui si trovava ad operare ed infine a concludere con una esplicita sconfitta la sua nunziatura polacca.
Forte di una tiepida, ma non dubbia adesione del Báthory, il quale vedeva nella richiesta di pace del suo grande rivale un segno chiaro di debolezza e quindi riteneva che la mediazione pontificia fosse per consentirgli di ottenere in pieno quei risultati che si era ripromesso dalla sua campagna contro i Moscoviti, il C. fece quanto poté per appoggiare la missione di pace di cui era stato incaricato il gesuita Antonio Possevino in Polonia e poi a Mosca, sebbene in un primo tempo avesse sperato di essere egli stesso incaricato di trattate sia con il Báthory sia con lo zar. Ma quando il gesuita raggiunse la corte polacca, la disparità di vedute col nunzio apparve nettissima e tale che avrebbe potuto concludersi soltanto con il richiamo di uno dei due: il gesuita, con il relativo realismo politico che distingueva il suo Ordine, riteneva che obbiettivo principale della sua missione dovesse essere quello di arrivare alla pace tra Russia e Polonia. preliminare ad ogni più ambizioso progetto; il C. opponeva invece la necessità di approfittare delle circostanze per ottenere dallo zar sconfitto la sospirata unificazione delle Chiese e l'impegno a partecipare alla crociata: questa posizione corrispondeva del resto alle direttive ufficiali della segreteria di Stato e se il Possevino era capace di mostrare indipendenza di fronte ad esse, tale non era il caso del Caligari. Nessun dubbio che di fronte al tanto più duttile ed abile gesuita il C. dovesse rimanere soccombente: il 10 apr. 1581 egli fu richiamato in Italia e sostituito nella nunziatura di Polonia da Alberto Bolognetti.
Del resto, all'arrivo del Possevino, la posizione del C. in Polonia si era già fatta difficile per circostanze estranee alle questioni politiche principali: il grande rigore mostrato nell'applicazione dei deliberati tridentini gli aveva creato numerose inimicizie tra i vescovi ed il clero polacco e finì col rendergli ostili gli stessi gesuiti, che lo avevano dapprima largamente affiancato, ma che con maggiori cautele ritenevano di raggiungere risultati migliori: poiché l'Ordine godeva di grande influenza in Polonia e presso lo stesso Stefano, la sua ostilità dovette nuocere non poco al nunzio. Ma il C. aveva pregiudicato le proprie relazioni con il sovrano polacco anche prendendo troppo bruscamente una posizione negativa sul progetto di divorzio del re dalla regina Anna che per qualche tempo era stato ventilato alla corte polacca per garantire a Stefano, attraverso nuove nozze, una successione che l'anziana principessa non lasciava più sperare: poiché al progetto, rimasto senza seguito, il re non si era all'inizio mostrato sfavorevole, la drastica ripulsa non aveva potuto che dispiacergli. E, infine, il C. compromise l'appoggio riservatogli dalla Curia, prendendo a proposito della questione della corona d'Ungheria una posizione che da Roma non poteva non essere disapprovata. Nel contrasto tra il Báthory e Rodolfo II d'Asburgo, infatti, egli non solo sostenne apertamente le ragioni del sovrano polacco, ma quando nel 1581 corse voce della morte imminente dell'imperatore egli incitò Stefano a proclama si unilateralmente re d'Ungheria: l'iniziativa del C. si spiega con il disegno di indurre il Báthory alla guerra col Turco che occupava il regno conteso, ma non trovò alcuna giustificazione alla corte romana.
Il C., che durante la sua permanenza alla corte polacca era stato nominato vescovo della modesta diocesi romagnola di Bertinoro (14 ott. 1579), partì dalla Polonia per Roma nel settembre 1581. Dopo essersi trattenuto per qualche tempo presso la corte pontificia, si recò a prendere possesso della sua diocesi, dove rimase per un triennio e donde fu richiamato nei ranghi della diplomazia pontificia nell'ottobre del 1584, per succedere nella nunziatura di Graz a Germanico Malaspina.
La missione del C. si collocava nell'ambito della forte iniziativa della Curia romana per ftonteggiare la diffusione del luteranesimo in Germania, che aveva portato negli anni precedenti alla moltiplicazione delle nunziature tedesche, delle quali l'ultima, quella appunto alla quale veniva ora destinato il vescovo di Bertinoro, era stata istituita nel 1580. Essa era destinata a promuovere ogni possibile difesa del cattolicismo negli Stati dell'arciduca Carlo di Steiermark, la Stiria, cioè, la Carnia e la Carinzia. Contando sulla protezione di quel principe cattolico, la Curia sperava anche di poter recuperare il terreno perduto, riguadagnando alla fede cattolica i transfughi che in quelle regioni non erano mancati.
In effetti il C. riuscì ad ottenere dall'arciduca alcuni importanti provvedimenti a favore dei cattolici e a danno dei luterani: questi ultimi furono esclusi dal Consiglio segreto del principe a vantaggio degli ortodossi e fu proibito l'esercizio del culto riformato in Graz e nelle principali città dello Stato. Non contento di questi brillanti risultati iniziali della nunziatura, il C. vegliava per impedire l'esercizio delle attività religiose dei luterani anche fuori di Graz.
Aiutarono validamente il C. nella sua missione i vescovi di sicura osservanza designati da Sisto V per le diocesi vacanti di Lavant e Seckau, Giorgio Stobäus e Marino Bremer: le difficoltà che localmente sorsero contro queste designazioni erano state superate grazie alle zelanti pressioni del nunzio sul duca. Un decisivo contributo all'opera del C. venne dal vescovo di Lubiana, Giovanni Tautcher, presidente del governo a Graz: specialmente in questa città la restaurazione cattolica e la riforma dei religiosi conseguirono risultati rilevanti. Ma quanto alla repressione del luteranesimo nei territori su cui il C. esercitava la sua giurisdizione, i risultati rimanevano non solo modesti, ma addirittura negativi: mentre la maggioranza dei contadini rimaneva fedele a Roma, la nobiltà ed i ceti borghesi erano in larga parte definitivamente conquistati al luteranesimo. Contro di loro il C. non vedeva altra possibilità se non quella di "procedere criminalmente", affidandosi cioè al braccio secolare. Il nunzio poteva sì vantare qualche sporadico successo, come l'arresto dell'eretico Aurelio Vergerio, nipote di Pier Paolo, ma in realtà quella massiccia azione che egli avrebbe desiderato da parte dello Stato contro i riformati non si realizzò mai.
Il C. era pronto a vedere le cause di questa scarsa assistenza del braccio secolare nella venalità dei consiglieri arciducali: "Qui è hora tanto manco speranza di convertir gli heretici, quanto che li ministri del arciduca sono fuori di speranza di liaver a cavare da N. Signore danari, come si erano imaginati" (Die Grazer Nuntiatur, p. 460). In realtà era l'esigenza stessa di sopravvivenza dello Stato che costringeva l'arciduca e i suoi consiglieri a cercare di raggiungere un punto di equilibrio tra cattolici e luterani, e quindi a resistere alle drastiche richieste del rappresentante di Roma: era la politica, insomma, che rivendicava ancora una volta i propri diritti contro l'astrattismo di chi continuava a muoversi esclusivamente nella dimensione della difesa della "vera" fede. Sia pure confusamente il C. se ne rendeva conto: "Fra tutti i libri che uscirono mai di qualsivoglia perverso heretico o empio atheo, - scriveva il 7 ott. 1585al cardinale Rusticucci - non credo siano li peggiori né li maggiori nimici a cotesta S. Sede et a tutta la religione christiana, che li libri di Niccolò Macchiavelli Fiorentino, et per nostra mala ventura hoggidì non è libro niuno più letto" (A. Caligari nuntii apost. in Polonia, p. XXXIX).
Ancora una volta, come già in Polonia, l'intransigenza fanatica del C. doveva scontrarsi con le arti più sottili dei gesuiti, la sua impazienza con la loro lungimiranza. La riconquista delle zone invase dall'eresia si proponeva nei piani della Compagnia come una sotterranea opera di penetrazione, soprattutto politica e culturale, tra i ceti dirigenti di quelle regioni: grande importanza perciò i gesuiti attribuirono alla istituzione dell'università di Graz, che fu realizzata nel 1588 nonostante l'ostilità del nunzio, e che dai gesuiti fu diretta e destinata alla educazione delle classi politiche dello Stato nella prospettiva della "conservazione dell'ereditata religione cattolica" (Pastor, X, p. 344). Quando il contrasto divenne troppo esplicito non rimase al C. che richiedere il proprio richiamo, che infatti già il 9 genn. 1586 sollecitava presso il cardinale Rusticucci.
Ma prima che il C. potesse venire via da Graz gli era riservata una nuova personale delusione. Ormai egli cominciava a pensare di aver ampiamente meritato con il suo zelo la promozione al cardinalato; lo stesso Stefano Báthory, che ambiva ad ottenere per l'ex nunzio polacco il riconoscimento che si attribuiva a coloro che cessassero dalla nunziatura presso le principali corti cattoliche, la richiedeva a Sisto V ed il pontefice era disposto ad accordarla, tanto più che sembravano ormai arrivati a buon punto gli accordi col Báthory per una spedizione contro i Turchi finanziata dalla S. Sede non appena si fosse conclusa la pace tra Polacchi e Russi. Ma la morte di Stefano, il 12 dic. 1586, fece tramontare ogni speranza del Caligari. Egli ottenne il proprio richiamo ai principio dell'anno successivo e fece ritorno nella propria diocesi dove rimase per tutto il 1587.
Sul finire di questo anno il cardinale di Montalto Alessandro Peretti, nipote di Sisto V, rimasto solo alla guida della segreteria di Stato, dopo la morte del cardinale Decio Azzolini ed il ritiro del Rusticucci, chiamò presso di sé il C. con funzioni di consigliere e di segretario. Il vescovo di Bertinoro divenne così uno dei più vicini collaboratori dello stesso pontefice, che di fatto dirigeva tutta la politica della Curia, e suo confidente in parecchie importanti circostanze. Per esempio, poté partecipare da vicino alle trattative tra Sisto V e Filippo II a proposito della spedizione contro l'Inghilterra della Invincibile Armada e raccogliere tutta la delusione del pontefice per gli interminabili ritardi di quella disgraziata iniziativa.
Ancora a fianco del pontefice il C - figura durante la crisi dei rapporti tra Sisto V e Filippo II nel 1590, allorché il papa, nonostante la dura opposizione dell'ambasciatore spagnolo a Roma duca di Olivares, allacciò trattative con Enrico di Navarra, correndo anche il rischio dello scisma religioso minacciato dal sovrano asburgico. Il C. continuò a servire nella segreteria di Stato anche durante il breve pontificato di Urbano VII; Gregorio XIV lo scelse come segretario particolare e questa carica diede al vescovo di Bertinoro un posto di grande rilievo alla guida della politica pontificia, poiché sia il papa sia il cardinal nepote Paolo Emilio Sfondrati mancavano completamente di esperienza negli affari politici: così, anche se ufficialmente egli rimase un personaggio di secondo piano nella corte romana, in realtà larga parte delle iniziative politiche di questo pontificato deve essergli attribuita. Fu confermato in queste eminenti funzioni anche da Innocenzo IX, che gli attribuì la direzione di una delle tre sezioni in cui il nuovo pontefice aveva suddiviso la segreteria di Stato, quella preposta agli affari di Francia e di Polonia. La brevità del pontificato non gli consentì tuttavia di prendere alcuna particolare iniziativa nei settori che gli erano stati affidati, tanto più data l'estrema cautela di Innocenzo IX per quello che riguardava un impegno pontificio nella questione ancora aperta della successione francese.
Il C., che veniva ormai considerato un personaggio inamovibile dalla segreteria di Stato, vi fu confermato anche da Clemente VIII, ma ne fu allontanato, nella riforma della Curia intrapresa da questo stesso pontefice, nel 1593, senza quel premio che sotto molti rispetti gli sarebbe senza dubbio spettato: l'entrata nel Sacro Collegio. Si ritirò quindi a Bertinoro, e qui occupò gli anni ancora numerosi che gli restavano in pacifiche attività di ricerche erudite e di promozione degli studi, con una sola parentesi nel 1597, allorché fu del seguito del cardinale Aldobrandini quando questi si recò a Ferrara per prenderne possesso in nome della Chiesa in seguito all'estinzione del ramo principale di casa d'Este.
Degli studi del C. nell'ultimo periodo della sua vita rimane una traccia in una lettera da lui indirizzata da Bertinoro a Gerolamo Mercuriali di Forlì, professore di medicina nello Studio di Pisa, il 15 dic. 1594, lettera che riassume le notizie raccolte dal C. "con lo studio, et diligentia di molti anni" per la storia di Brisighella, compito che il C. si era assunto "per pagare a la Patria quel debito di gratitudine che le devo" (la lettera fu stampata in un opuscolo dedicato Al sig. avvocato Teodorico conte Raponi governatore di Brisighella nell'occasione delle sue nozze, Faenza 1842).
Il C. fu tra i promotori della storia delle spedizioni di Stefano Báthory scritta da Uberto Foglietta. Anche il Sigonio si giovò della collaborazione del vescovo di Bertinoro per la compilazione del suo De regno Italiae, secondo quanto riferiva in quest'opera lo stesso storico modenese, ma di tale collaborazione non si hanno più precise notizie.
Fonti e Bibl.: Die Grazer Nunziatur unter G. A. C., in Nuntiaturberichte aus Deutschland, II, Die Nuntiatur am Kaiserhofe, a cura di R. Reichenberger, I, Paderborn 1905, pp. 431 ss.; A.Caligarii nuntii apost. in Polonia epistolae et acta 1578-1581, in Monumenta Poloniae Vaticana, IV, a cura di L. Boratyński, Cracoviae 1915; Bathory et Possevino. Documents inédits sur les rapports du Saint-Siège avec les Slaves, a cura di P. Pierling, Paris 1887, passim;P.Mac Swiney de Mashanaglass, Le Portugal et le Saint-Siège, I, Paris 1898, pp. 54 ss.; P. Pierling, Papes et tsars (1547-1597), Paris 1890, passim;L. von Pastor, Storia dei papi, VIII, Roma 1929, pp. 25, 31, 200, 412, 441; IX, ibid, ad Indicem;X, ibid. 1928, ad Indicem;XI, ibid, pp. 40, 635.