FIGINO, Giovanni Ambrogio
Figlio di Giovanni Vincenzo, fabbricante di spade e proveniente da una nota famiglia di armaioli, e di Lucia Grassi, nacque a Milano; l'anno di nascita è incerto.
La data del 1557, che si desume da uno Stato d'anime del 1597 che lo dice quarantenne, contrasta con altre notizie ricavate da documenti e da concorde testimonianza delle fonti: il discepolato presso il pittore milanese G. P. Lomazzo, divenuto cieco nel 1571, quando il F. sarebbe stato appena quattordicenne; il fatto che nello stesso anno 1571 il F. risulta essere al seguito, con importanti mansioni, del vescovo di Aleria, A. Sauli, che accompagnò a Genova e a Lucca, quindi, quattro anni più tardi in Corsica (Gatti Perer, 1974, pp. 11 s.). Infine la questione, dirimente, che il ritratto di Angelo Dannona, già nella coll. Baumgartner di Lipsia, firmato e datato 1570 (Perissa Torrini, 1987, pp. 16, 179), per quanto certamente opera giovanile, dimostri una sicurezza di impianto e una padronanza dei mezzi espressivi che appare del tutto improbabile in un tredicenne. Più affidabile, quindi, la datazione che si ricava dall'atto di morte, redatto a Milano l'11 ott. 1608 dove si afferma che il pittore era deceduto a sessant'anni: in ogni caso il 1548 era stato assunto come data di nascita da S. Ticozzi (Diz. dei pitt. dal Rinascimento ... fino al 1800, Milano 1818) e, con lieve approssimazione, 1550 dai vecchi repertori (cfr. Ciardi, 1968).
Per tracciare un profilo storico del F. è indispensabile fare riferimento alla sua ricchissima produzione grafica: oltre 430 fogli sono stati identificati in fondi talora cospicui, come quelli delle Gallerie dell'Accademia a Venezia, della Royal Library di Windsor, della Pierpont Morgan Library di New York, della Biblioteca Ambrosiana di Milano, della Christ Church di Oxford, o sparsi in altre collezioni pubbliche, ancora a Milano, Firenze (Uffizi), Parigi, Lisbona, Amsterdam ecc. (accurato elenco in Perissa Torrini, 1987) e private. Tale produzione appare soverchiante rispetto ad un catalogo di opere dipinte che supera di poco la ventina e non si amplia di molto se vi comprendiamo anche quelle menzionate dalle fonti e dai documenti e fino ad ora non rintracciate. Per di più, il rapporto che può essere istituito tra le così numerose proposte grafiche (nelle quali peraltro si inserisce anche un buon numero di esercizi dichiaratamente finalizzati allo studio e al tirocinio pittorico, come i disegni anatomici, quelli dall'antico e dai maestri canonici cinquecenteschi, in particolare da Michelangelo e, in misura minore, da Raffaello) solo in minima parte trova corrispondenza con le opere finite giunte fino a noi o con quelle ricordate nella letteratura relativa. Si potrebbe perciò supporre che questo impegno grafico, così ampio da costituire un caso eccezionale per quell'epoca e per quell'ambiente, non fosse, in molti casi, finalizzato alla preparazione di singoli dipinti e sia stato invece avvertito come elettiva possibilità di soddisfare volontà espressive che meglio si realizzavano nel mezzo grafico, inteso come veicolo linguistico onnicomprensivo ed anzi di più immediata rispondenza alle tumultuose ideazioni della mente. Tuttavia questi fogli, anche quelli fittamente coperti da schizzi multipli in cui si provano, si articolano e si definiscono, attraverso un gioco serrato di variazioni su tema, soggetti chiaramente identificabili, pur nell'estrema scioltezza del segno vibrante e impetuoso, appaiono comunque sorretti da una sorvegliata predisposizione intellettualistica. Ipotesi da non sottovalutare è che questa strenua applicazione disegnativa possa essere in parte stata finalizzata a progetti ornamentali (alcuni disegni sembrano da porre in relazione con l'esecuzione di vasi di vetro: cfr., ad es., Ciardi, 1968, n. 54 e coll. List di Monaco), forse per armature da parate, spesso arricchite, come è noto, da scene iconografate con soggetti anche complessi; per queste esisteva in Milano una famosa tradizione, particolarmente apprezzata anche nell'ambiente rudolfino, con il quale il F. ebbe contatti, testimoniati documentariamente per quanto riguarda i suoi ultimi anni. È certo, comunque, che, già pittore affermato, egli ideò una di queste decorazioni (Ciardi, 1968, p. 44).
Tale attività contribuì ad assicurare al pittore quella agiatezza economica e quella notorietà diffusa di cui godette, essendo celebrato non solo da letterati di minore levatura, come G. Borgogni, G. Comanini oE. Tesauro (vedi, di quest'ultimo, il confronto ideale tra due figure femminili, una di B. Zenale, l'altra del F., in Il cannocchiale aristotelico, Torino 1670, p. 582), ma persino da grandi poeti come T. Tasso e G. B. Marino. In ogni caso la vasta produzione grafica offre elementi insostituibili per ricostruirne la personalità, integrando le indicazioni sulla formazione e i referenti culturali che si ricavano dall'analisi delle non molte pitture superstiti.
In un certo senso figlio d'arte (la bottega paterna anche se non offrì l'occasione per un vero e proprio apprendistato, era comunque coinvolta in questioni attinenti l'ambito figurativo), il F. apprese dal Lomazzo il culto della tradizione leonardesca, che il maestro promosse, in particolare, con la sua attività di trattatista.
Era, peraltro, una tradizione che si era da tempo innestata sul filone del manierismo internazionale, che nell'accezione più propriamente romana e in chiave di michelangiolismo riformato, era approdato a Milano, intorno alla metà del secolo soprattutto con l'attività di P. Tibaldi e di G. Demio. Così i giovanili disegni anatomici, anche se tengono presenti, nelle scelte tematiche e nei modi di presentazione, i celebri prototipi leonardeschi, li interpretano, per la conduzione grafica incisa e risentita e per l'avvalorato contrappunto chiaroscurale, in una declinazione che appare perfettamente allineata agli esiti tardocinquecenteschi della maniera tosco-romana. Altrettanto può dirsi, per esemplificare, delle numerosissime variazioni sul tema di una tipologia particolarmente cara al F. e sulla quale egli continuerà a confrontarsi fino agli anni tardi, quella del cavallo in rapido movimento isolato o con cavaliere e solo in parte ricollegabile all'ideazione di composizioni pittoriche note, quali il S. Ambrogio che sconfigge gli ariani o il S. Giorgio - dichiaratamente connessa ai celebri esemplari tramandatici nei fogli vinciani, da cui vengono ripresi moduli, ideazioni e persino metodi di impaginazione. Ma il segno, turbinoso e spesso esaltato, resta lontano dalla trepidante evocazione leonardesca e si attesta su una resa analitica e descrittiva di raffinato e sapiente contrappunto decorativo. Non è un caso, quindi, che il pittore indugi a tradurre graficamente quello tra i discepoli di Leonardo che meglio seppe inserirsi nella maniera, cioè Cesare da Sesto (riecheggiamenti nei fogli di Windsor catalogati in Ciardi, 1968, nn. 1 s., copie dall'Erodiade in quelli di Milano, Arcivescovado, nn. 31 s., 151, su cui Marani, 1986, pp. 60-65) al quale, del resto, si era direttamente ispirato per la pala d'altare della distrutta chiesa milanese di S. Giovanni alle Case Rotte, non rintracciata.
L'ipotesi, dunque, di un viaggio del F. nell'Italia centrale, ed in particolare a Roma, per il quale si trovano accenni generici già nella letteratura antica (lo Scaramuccia e il Resta, che vi aggiunse anche il riferimento a Parma, cfr. Ciardi, 1968, pp. 40 s.) acquista consistenza, anche se, come si è accennato, esperienze della maniera erano possibili anche a Milano e, in misura più sostenuta e qualificata, a Genova, che abbiamo visto essere stata tappa certa di un viaggio del F.; la tappa genovese ben serve, tra l'altro, a spiegare quelle desunzioni da Perin del Vaga, poi da L. Cambiaso, che avviene di rintracciare in alcuni disegni, soprattutto di argomento profano. Né si deve dimenticare la vasta circolazione delle stampe di cui anche il F. seppe fare buon uso (disegni da stampe di M. Raimondi e di Agostino Veneziano [A. De Musi] sono nei fogli regestati in Ciardi, 1968, nn. 129, 131 s.; in altre situazioni la derivazione dalla grafica di invenzione michelangiolesca e raffaellesca è probabile).
Ma le stampe o la ripresa mediata da altre testimonianze derivative non riescono a spiegare i casi molteplici in cui i grandi modelli canonici antichi e moderni - il Laocoonte, il Torso del Belvedere; Michelangelo, Raffaello - vengono analizzati in modo estremamente parcellizzato, privilegiando particolari insoliti e, per le statue, inusitati punti di vista, da tergo, di profilo, in scorcio, che postulano la ripresa diretta dagli originali, e scegliendo, nel caso degli affreschi, in particolare le zone inferiori della composizione, quelle cioè manifestamente più accessibili da parte del copista sottostante. Soprattutto la diretta autopsia di quei modelli famosi è accertata dalla natura di queste trascrizioni liberamente interpretative e personalizzate e dal sottile gioco di rimandi e di allusioni eclettiche che determinano una sensibile variazione nel registro espressivo di opere che è possibile datare, direttamente o indirettamente, agli inizi del nono decennio.
Il soggiorno romano va quindi posto, in base a tali risultanze stilistiche, confortate anche da considerazioni di ordine esterno, alla fine dell'ottavo decennio; tenendo presente, in ogni caso, che non sono da escludere possibili successivi ritorni nella città papale, anche se sia del primo soggiorno sia degli altri non sono state finora rintracciate testimonianze dirette. Antecedente al viaggio a Roma è il già ricordato ritratto di Angelo Dannona, dal quale prende avvio la produzione di un genere nel quale il F. fu impegnato nel corso di tutta la sua attività, acquistando particolare fama. L'interpretazione delle tipologie consuetudinarie del ritratto a mezzo busto o a figura intera, impostato di fronte o di profilo, avviene con una sensibilità nuova che prelude all'introspezione intimista del Seicento (ritratto di S. Carlo, Milano, Pinacoteca Ambrosiana, ante 1584) e si mantiene anche nel registro più aulico e compassato dello State-portrait (ritratto del Maresciallo di campo Lucio Foppa, Milano, Pinacoteca di Brera, databile 1585 c., da confrontare con un forte Ritratto virile, passato nell'asta della villa Bellini a Marignolle nell'ottobre 1976).
Questa via mediana tra partecipazione commossa e sostenutezza classicista conduce a risultati di singolare nitore e pacatezza espressiva, le cui prove migliori sono, ancora una volta, rappresentate da numerosi disegni (Milano, Castello Sforzesco e Biblioteca Ambrosiana, New York, Pierpont Morgan Library e coll. Scholz, ma in particolare Autoritratto e il ritratto di CaterinaFigino [sorella del F.], Milano, Pinacoteca di Brera), e induce ad escludere molte disinvolte attribuzioni, come quella del ritratto di Cesare Cavalcabò (Roma, Museo di palazzo Venezia), che al di là di generiche analogie nelle (peraltro diffusissime) sigle di impostazione, appare estraneo al F. per la propensione ad ammiccamenti veristici e per la qualità della pasta cromatica singolarmente scintillante e di vibrante luminismo.
Dell'altro genere in cui pure il F. fu, stando alle fonti, celebre, quello della natura morta, il fatto che solo un esemplare, il Piatto con pesche (Bergamo, gall. Lorenzelli; cfr. Ciardi, 1968, pp. 104 s.), sia stato rintracciato, rende difficile avanzare giudizi di carattere generale.
Precedenti alla prima esperienza romana sono il Cristo e il fariseo nella sagrestia del duomo di Monza, inserito nella tradizione lombarda del leonardismo riformato, e l'Agonia nell'orto degli ulivi (già a Vienna nella coll. Matsvansky, firmata e datata 1577, non rintracciata e nota solo da riproduzione fotografica, peraltro confrontabile con disegni preparatori esistenti: ibid., fig. 3); queste due opere chiariscono, soprattutto la seconda (più direttamente legata agli insegnamenti del Lomazzo, anche per la ormai lontana ripresa di derivazioni mantegnesche e giambelliniane verso le quali il Lomazzo si dimostrò, a più riprese, sensibile), il senso e la portata del tirocinio romano. Illuminante il confronto con l'altra Agonia nell'orto, dipinta per la chiesa milanese di S. Maria della Passione più di dieci anni dopo (non convincente l'anticipazione al 1586 circa in Perissa Torrini, 1987, pp. 19, 118 s.), a sua volta da confrontare con l'analogo soggetto del Museo civico di Busto Arsizio. Nel dipinto milanese le manifeste deferenze alla cultura romana (oltre gli ovvi riferimenti al lessico michelangiolesco e raffaellesco, ormai di routine, si osserva l'attenzione nei confronti di F. Zuccari e di G. Muziano), vengono a patti con suggestioni culturali diverse, di tradizione lombarda (l'ambientazione notturna esemplata su A. Campi) e di matrice fiamminga e fiammingo-italiana, costante punto di riferimento per l'oeuvre del periodo maturo o tardo, che diviene pienamente avvertibile nel Giove, Giunone e Io del Museo civico di Pavia, firmato e datato 1599, che non a caso il pittore aveva pensato di inviare a Praga all'imperatore Rodolfo II.
Questa capacità di inserirsi, in modo consapevole e personale, entro la raffinata cultura della maniera mitteleuropea rappresenta l'esito di un lungo periodo di progressivo adeguamento, in cui il pittore assume, rielabora e anche rifiuta (le prove grafiche ne sono testimonianza) tutta una serie di suggestioni figurative di matrice sostanzialmente eclettica. Il ciclo dei dipinti per la chiesa milanese di S. Fedele è da datare entro i primi due o tre anni del nono decennio, dunque poco dopo il rientro da Roma: l'Incoronazione della Vergine (ora nell'attigua casa dei gesuiti) è un testo di complessa e meditata impostazione struttiva in particolare, nelle figure dei Ss. Pietro, Paolo, Maria Maddalena e Marta, rimaste in loco e di recente individuate e illustrate (Bona Castellotti, 1989), si fa evidente il riutilizzo di moduli raffaelleschi e michelangioleschi, ancora aderenti ai prototipi, e soprattutto nel disegno preparatorio per il S. Pietro (Venezia, Gallerie dell'Accademia) e nella S. Marta, variazione su tema dalla Rachele per la tomba di Giulio II, esemplare che, come dimostrano le prove grafiche (ibid.), fu attentamente studiato dal Figino. L'ispirazione raffaellesca, intesa come recupero tipologico, costituisce l'innesco per l'invenzione compositiva della Madonna del serpe, già in S. Antonio Abate a Milano (ora nella attigua casa Ildefondo Schuster), databile al 1586 c. (Perissa Torrini, 1987, p. 20), versione successiva di altra opera, citata dalle fonti e non rintracciata, eseguita per S. Fedele (Coppa, 1977). Il riferimento alla Madonna del cardellino, evidente nella sigla del piede della madre soprammesso a quello del figlio, che tanta fortuna avrà in ambito lombardo (dalla Sacra conversazione di A. Campi nella Pinacoteca di Brera fino alla Madonna dei palafrenieri del Caravaggio, alla Gall. Borghese), resta sopraffatto dall'esaltazione plastica e dalla dilatazione volumetrica, che derivano da suggestioni di diversa matrice (Madonna di Bruges, e parziali citazioni dal David del Buonarroti). Non diverso il processo di ricontestualizzazione che si avverte nel S. Paolo e nel S. Matteo nella chiesa milanese di S. Raffaele, databili in questo arco di tempo. Il primo, studio accademico di stretta aderenza, anche nell'austerità della resa cromatica, condotto sul celeberrimo esempio del Mosè; il secondo, invece, consapevole esercizio intellettuale nel quale l'accoglimento di un'altra impaginazione raffaellesca (dal gruppo di Pitagora nella Scuola d'Atene) arreca solidità ed evidenza compositiva ad una scena già partecipe della luminosità drammaticamente chiaroscurata di invenzione protoseicentesca.
Alla fine del nono decennio, quando l'importanza e la qualificazione delle committenze ricevute lo segnalano come una delle figure di primo piano nell'ambiente artistico milanese, gli viene allogata la pala, ora nella Pinacoteca di Brera, per la cappella del Collegio dei dottori di Milano, rappresentante la Madonna colBambino e i ss. Giovanni Evangelista e Michele Arcangelo, nella quale una complessa struttura di legature chiastiche, di torsioni e di vorticose esibizioni muscolari, immersa in una inquieta luce temporalesca, decontestualizza e rende meno decifrabili le riprese dalla cultura figurativa romana della metà del secolo, dai pittori dell'oratorio romano di S. Giovanni Decollato, da Perin del Vaga, da Marco Pino, dal Tibaldi di Castel Sant'Angelo. Nel 1591 era completato il S. Ambrogio che sconfigge gli ariani per la cappella del Collegio dei mercanti (ora nel Museo d'arte antica di Milano), opera cresciuta su una quasi interminabile e arrovellata progettazione grafica, che si esaurisce in una fredda ferocia neoclassica e che troverà un suo ideale pendant, nei primi anni del Seicento, nella composizione, convulsa e contratta, del S. Giorgio nel santuario di Rho.
Il F. raggiunse l'apice della fama agli inizi dell'ultimo decennio del Cinquecento, quando risultò vincitore, superando C. Procaccini, S. Peterzano e A. Luini, nel concorso per l'esecuzione delle ante d'organo del duomo di Milano.
Dopo gli ultimi eventi bellici sussistono in situ la Natività di Cristo e una parte del Passaggio degli Ebrei attraverso il mar Rosso (perduta l'altra parte del Passaggio degli Ebrei e l'Ascensione, documentata da fotografie e da disegni preparatori), enormi tele alle quali il pittore lavorò tra il 1590 e il 1595. I dipinti possono essere in un certo senso considerati riassuntivi del procedimento di stilizzazione del F., del suo particolare modo di riproporre le esperienze figurative di cui si è detto (da aggiungere qui, in particolare nella Natività, un più puntuale rapporto con le fonti fiamminghe, segnatamente con M. Coxie e con M. van Heemskerk), forzando le forme in direzione di un gigantismo di superficie che rinuncia al saldo possesso dello spazio. La Natività di Maria in S. Antonio Abate a Milano, dei primi anni del Seicento, è opera di estremo interesse per quello stiparsi in primo piano delle comparse, a stento contenute nei limiti dell'incorniciatura, e per quell'affidare l'illusione prospettica del digradare dei piani alla progressiva consunzione plastica delle figure, come avviene nei rilievi scultorei dell'epoca. La formula avrà largo impiego nella decorazione della basilica milanese di S. Vittore al Corpo, eseguita tra il 1603 e il 1608 (Ward Neilson, 1968). Nella volta del presbiterio il F. eseguì l'affresco (l'unico che conosciamo di lui, peraltro assai deperito) con l'Incoronazione della Vergine. Successivamente dipinse nell'ala sinistra del transetto otto tele, tre alle pareti con Fatti della vita di s. Benedetto e nella volta cinque medaglioni con Dio Padre e Angeli in volo. Completò quindi la decorazione del presbiterio con sei medaglioni con Putti alati e quattro tele sottostanti con Angeli musici. L'insistita definizione lineare che esaspera l'andamento del panneggio, avvalora in queste opere, ancora una volta, la finzione scultorea delle forme, evidente, ad esempio, nel Cristo alla colonna del Museo civico di Busto Arsizio, quasi interpretando in termini di raggelato plasticismo quella ridondanza e quasi caparbia esuberanza del segno che aveva trovato largo impiego negli esercizi grafici.
Già nel 1605 il F. era entrato in rapporto con Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e mentre completava la decorazione di S. Vittore al Corpo era contemporaneamente impegnato a Torino in un'impresa di grande prestigio, la decorazione della grande galleria di palazzo reale alla quale partecipavano alcuni degli artisti più in voga del momento.
Nessuna delle numerose opere torinesi del F. (particolarmente importanti perché in gran parte di soggetto profano), ricordate dalle fonti (cfr. Schede Vesme, II, Torino 1966, p. 472) è stata rintracciata. Da quanto possiamo arguire dai disegni preparatori superstiti (persuasiva la ricostruzione della Perissa Torrini, 1987, pp. 24 ss.), la configurazione lessicale e stilistica non si distanziava molto dalle proposte, già note, degli ultimi anni.
Forse ammalato, il F. rientrava però a Milano nel 1608 e moriva l'11 ottobre di quell'anno. Non risulta che abbia avuto discendenza diretta. La sua eredità, nella quale figuravano anche dipinti e disegni autografi, toccò al nipote Ercole Bianchi, figlio della sorella Caterina.
Fonti e Bibl.: R. P. Ciardi, G. A. F., Firenze 1968 (con la bibliogr. precedente); N. Ward Neilson, Some documents for the paintings and choir decorations in S. Vittore al Corpo, Milan, in Artelombarda, XIII(1968), 1, pp. 133 s.; J. H. Turnure, The organ shutters of Milan cathedral, in Il duomo di Milano, Milano 1969, pp. 219-30; G. Bora, Disegni di manieristi lombardi, Vicenza 1971, ad Ind.; R. P. Ciardi, Addenda figiniana, in Arte lombarda, XVI(1971), 36, pp. 267-74; G. Neerman, Disegni del manierismo e barocco nell'Italia settentrionale (catal.), Milano 1971, pp. 42 s.; G. Bora, I disegni di figura, in Il Seicento lombardo (catal.), Milano 1973, pp. 17 s.; M. L. Gatti Perer, Un ciclo inedito di disegni per la beatificazione di A. Sauli, in Arte lombarda, XIX(1974), 40, pp. 11 ss.; S. Coppa, Due opere di A. F. in una donazione del 1637, ibid., n.s., 1977, n. 47-48, pp. 143 ss.; A. Perissa Torrini, Tre disegni inediti di G. A. F., in Prospettiva, 1985, n. 40, pp. 75-81; S. Coppa, in Disegni lombardi del Cinque e Seicento nella Pinacoteca di Brera e nell'Arcivescovado di Milano (catal., Milano), a cura di P. C. Marani, Firenze 1986, pp. 58 s., 128; P. C. Marani, ibid., pp. 60-65; A. Perissa Torrini, Disegni del F., Milano 1987; V. Natale, Un quadro dal Tibaldi al Peterzano, in Paragone, XXXIX(1988), 457, pp. 15-28; G. Berra, Contributi per la datazione della "Natura morta di pesche" di A. F., ibid., XL (1989), 469, pp. 3-13; M. Bona Castellotti, Cinque inediti di A. F., in Arte cristiana, LXXVII (1969), pp. 104-109.