STARACE (Storace), Giovan Vincenzo
STARACE (Storace), Giovan Vincenzo. – Nacque forse nella prima metà del Cinquecento, a Napoli o a Piano di Sorrento, «da famiglia honorata». Era figlio «d’Andrea Starace, mercante di drappi di seta nel piano di Sorrento», stabilitosi a Napoli ove fu pure console dell’arte della seta, morto «molto vecchio e colmo di ricchezze» (Summonte, 1675, p. 457).
Ereditate le sostanze paterne e quelle di uno zio, Starace abbandonò il commercio per la speculazione finanziaria e divenne ancor più ricco, mirando all’ascesa sociale: «Vivendo nobilissimamente, con desiderio d’ingrandire e nobilitare Martio, suo unico figliolo» (ibid.). Marzio, infatti, impalmò la nobile Diana d’Afflitto, figlia di Mazzeo, nipote dell’omonimo giurista e alto magistrato.
La carriera politica di Starace fu legata agli investimenti finanziari e sociali. Nominato eletto del popolo napoletano nel 1576 (ibid.) o nel 1578 (Capasso, 1899), «governò due anni» (ibid.). Nel 1580 divenne governatore dell’Annunziata, importante istituzione assistenziale. Dal novembre 1583, infine, fu di nuovo eletto del popolo.
Si è discusso se il cognome fosse Starace o Storace, poiché egli si firmò Storace da eletto e fu chiamato così dall’ambasciatore veneto e dal viceré. Le fonti napoletane coeve, però, scrivono sempre Starace; e tra esse Summonte – ascritto come il padre all’arte della seta – ne conosceva, di certo, il cognome. Nessuno tra quanti hanno preferito la forma Storace si è posto il problema dell’uso costante del cognome Starace nelle fonti locali. La questione, pertanto, è irrisolta. Sappiamo però che l’eletto era animato da un’ansia di nobilitazione. Egli appariva tronfio e altezzoso, con il «mostrarsi dissimile da gli altri [e] con la pratica de’ grandi» (Costo, 1588, p. 135v), sicché «troppo altiero e superbo divenuto era» (Summonte, 1675, p. 457). Sintomatico, il rifiuto di una carica minore offertagli dopo il primo elettato: «Essendo chiamato al governo della Chiesa e Conservatorio dello Spirito Santo, luogo di gran divotione ma poverissimo a’ quei tempi, egli ricusò d’andarvi [...]. Ma poco appresso, essendo chiamato al governo della Chiesa et Hospitale dell’Annuntiata, essendo quel luogo ricco e di grandissima preminenza et autorità, vi andò volentieri» (p. 458). È probabile dunque che, per cancellare le proprie origini nella mercatura, egli ostentasse pubblicamente il cognome mutato in Storace. A Napoli, però, tutti sapevano donde venisse e come si chiamasse l’eletto del popolo. In seguito l’oblio ebbe la meglio: nel 1636 uscì Della Musa lirica di un don Giuseppe Storace d’Afflitto che nel 1646, con l’anagramma Felippo Sgruttendio de Scafato, pubblicò pure De la tiorba a taccone. L’unione dei cognomi Storace e d’Afflitto tradisce la discendenza di questo Giuseppe da Marzio e Diana, di cui era figlio; e, appunto, il cognome era ormai Storace d’Afflitto, segno di come la forma Storace svelasse la smania di nobilitazione dell’eletto.
A ogni modo, egli passò alla storia per la sua morte, avvenuta a Napoli il 9 maggio 1585. Un evento che segnò l’immaginario, tanto che nel dialetto napoletano si diffusero i verbi «staraceare» (D.F. Casanova, Il perdere, per vincere, nel martirio di santa Caterina vergine e martire della città di Alessandria, Napoli 1723, p. 67), «staracejare o storacejare» (Rocco, 1886, p. 47), nel senso di trucidare, fare a pezzi, linciare. È questa, infatti, la fine che fece Starace, vittima di un tumulto popolare.
La miccia che innescò il tumulto fu una richiesta di grano del re Filippo II al viceré di Napoli, Pedro Girón duca d’Osuna, che inviò in Spagna circa 400.000 tomoli di grano, causando penuria a Napoli. Per fronteggiare la crisi, il 7 maggio 1585, si riunirono gli amministratori locali, e i 5 eletti dei nobili proposero di diminuire il peso di vendita del pane, con aumento del prezzo e «stravagante guadagno de’ baroni del Regno, che tenivano detti grani» (Summonte, 1675, p. 447). Però, due delegati del popolo intervenuti in luogo di Starace – assente perché malato – si opposero e la decisione fu rinviata, mentre «il popolo cominciò a far strepito» (ibid.) e «s’incominciò a generare mala digestione del popolo verso l’eletto di esso [...], uomo di molto ricapito, ricco, buon parlatore, bianco e pieno di carne» (La morte..., 1876, p. 131).
Poiché «tutto ’l bollimento della rabbia si rivolgeva pure contro all’eletto Starace» (Costo, 1588, p. 136rv), questi convocò un’assemblea del popolo per il giorno dopo, invitando la rappresentanza ufficiale – i 29 capitani del popolo e i 10 consultori – più due altri delegati per quartiere. Tuttavia, «questo movimento insospettì fuoradimodo gli animi della plebe, onde in un tratto si sparse la voce [...] che s’havev’à mancare il pane» (p. 136v). Pertanto, con i convocati, si presentò «grandissima moltitudine della bassa plebe» (Summonte, 1675, p. 448), e «tanto fu il concorso delle genti d’ogni sorte in quel luogo che, venendo l’eletto, hebbe grandissima difficoltà a potervi entrare, anzi nell’intrare buona parte di quella plebe con empito se gli avventò sopra con le mani alzate» (ibid.), accogliendolo «con grida e minacce, mescolate con villanie» (Costo, 1588, p. 137r). Starace avvertì di non concordare con l’aumento del prezzo del pane, cercando di rassicurare la folla ma invano. Propose, allora, di andare l’indomani in delegazione dal viceré.
Il 9 maggio, «non solo quella moltitudine concorse» all’appuntamento, convocato a S. Maria la Nova, «ma molti altri, che fu un numero quasi infinito» (Summonte, 1675, p. 450). Giunto l’eletto «su una sedia portata da due huomini con le stanghe» (Costo, 1588, p. 138r), trovò i convenuti che gli «dissero, gridando [...], che quello non era luogo di far parlamento, ma che si dovesse andar al solito luogo di S. Agostino» (Summonte, 1675, p. 450). Starace protestò che non si era convocato un parlamento; ma la moltitudine lo sollevò di peso sulla sedia, portandolo a S. Agostino «sospeso con le spalle voltate, senza baretta» (ibid.). Il trasportarlo così – di spalle rispetto alla direzione di marcia e senza berretto – rivelava «un simbolo di negazione dell’autorità» (Villari, 2012, p. 32), oltre a disprezzo, manifestatogli da improperi e dal lancio di «sporcizie nel viso» (Costo, 1588, p. 138r). Il corteo si diresse verso la sede dell’amministrazione popolare e il clima si surriscaldò sempre più, risuonando il grido di rivolta: «Serra, Serra» (Summonte, 1675, p. 451). I manifestanti saccheggiarono, poi, «una bottega d’arme» (Costo, 1588, p. 138r), mentre il corteo s’ingrossava procedendo nel suo rituale sovversivo.
A S. Agostino i tumultuanti «trovarono altrettanta moltitudine di gente, che con pari sdegno e rabbia attendevano il misero Starace» (p. 138v): segno di una certa organizzazione del moto, poiché se l’impegno era di andare dal viceré, non si comprende perché la folla attendesse l’eletto da tutt’altra parte della città. Di fronte agli strepiti, Starace cercò rifugio in una cappella ma fu raggiunto e colpito da «un pezzo di mattone nel fronte» (Summonte, 1675, p. 451). La folla era incontenibile: «Con pugni e con sassi lo tornarono a ferire» (p. 452), e «fu con rabbia spogliato di propri vestimenti, e quelli ridotti in mille parti» (ibid.). A quel punto, non è chiaro se «lo buctorno vivo dentro una sepoltura» (Il tumulto..., 1886, p. 437) o se fu lui, per sfuggire al linciaggio, che «si fe’ calare [...] in una sepoltura» (Costo, 1588, p. 138v). In ogni caso, giunsero due magistrati con «genti e guardie per aiutarlo» (ibid.), ma «lo popolo disse: andatevene, se no ve amaczamo» (Il tumulto..., 1886, p. 437).
La folla, quindi, recuperò Starace e tornò a colpirlo «con coltelli e spiedi, e con bastoni e con pietre, e con ciò che lor venne alle mani» (Costo, 1588, p. 139r). Poi «li legarono il collo con una fune» (La morte..., 1876, p. 133) e lo portarono in giro per la città, «strascinandolo con la faccia alla terra» (Il tumulto..., 1886, p. 437); e «strascinando il corpo [...], andavano gridando: mora il mal governo, e viva la Giustizia» (Diurnali..., 1891, p. 36). Intanto, i tumultuanti «trovarono per camino maggior novità, cioè che gli artisti havevan [...] chiuse le botteghe [e] prese l’arm’in mano: ogni contrada era piena di tumulto» (Costo, 1588, p. 139r). Iniziò allora un macabro corteo, «portando lo corpo [...] pe’ tutte le strati della città, et in ogne strata tagliando[ne] uno peczo: chi se piglio una zicza [mammella] in mano, chi lo core, et chi le celleverelle [cervella]» (Il tumulto..., 1886, p. 437). «Lo sbranarono in molti pezzi, tagliandogli chi una mano, e chi un pie’, chi un pezzo di gamba o di braccio, chi gli orecchi, chi il naso, chi un membro e chi un altro. Poi gli cavaron le budella, il cuore, e l’altre interiora, le quali ridotte in piccoli minuzzoli se le divisono avidamente infra di loro» (Costo, 1588, pp. 139v-140r). «Et uno del popolo diceva che se voleva cocere le celleverelle et magnarsele, et chi se magno lo core, et uno se piglio uno peczo della cammisa insanguilentata et se la magno [...], et un altro se zuco [succhiò] lo sangue» (Il tumulto..., 1886, p. 437). Dunque, «alcuni d’essi l’addentavano così crude [le spoglie], succhiandone inumanamente il sangue; ed a chi havesse havuto ardir di riprenderneli, o mostrato un piccolo segno di compassione, davano senza riguardo o ferite o bastonate» (Costo, 1588, p. 140r).
Dopodiché, «quasi a dare alla manifestazione il suo compiuto sbocco politico» (Villari, 2012, p. 33), i tumultuanti giunsero al palazzo del viceré e «lo strascinorno doj bolte [due volte] avante de esso, dicendo: ecco lo male guberno, et li tagliorno la testa, et la buctorno avanti dello vicerre; et lo signor vicerre disse: viva il re, et il popolo diceva: pane» (Il tumulto..., 1886, p. 437). Né la cosa finì lì, poiché «pe’ Napole li plebei portorno con le picche parte de suo corpo: chi uno braccio, chi le stentine [interiora], chi uno dito, chi lo pede, et avante loro andavano sei carrettonj [...] con strepito e polverata che pareva che lo mundo zoffondasse» (p. 438). Alcuni insorti, poi, si diressero a casa di Starace, saccheggiandola «insino a sera» (Costo, 1588, p. 141r).
Il clima restò torrido per settimane, e in strada apparvero manifesti con scritto: «Populo, diamo fine a quello che habbiamo principiato, et se il viceré anderà in collera che si apparta con li suoi Spagnuoli» (Mutinelli, 1856, p. 148). Oppure: «O, popolo storduto, hai incominciato et non hai fenuto. / Al dì dello corpo de Christo, ogne homo stia listo, / al dì de santo Joanne, ogne homo lassa le panelle et piglia l’arme» (Il tumulto..., 1886, p. 439).
Rosario Villari (1967) lesse l’episodio in chiave antropologica, forse troppo in anticipo sui tempi, poiché suscitò varie critiche; ma ormai «il significato di questi rituali di giustizia popolare appare abbastanza ovvio» (Burke, 1987; trad. it. 1988, p. 244). Inoltre, Villari colse la cifra politica della rivolta, che rivelava – pur embrionali – tendenze antispagnole e un’organizzazione autonoma del popolo. Non era stato un mero tumulto plebeo: la plebe operò materialmente il linciaggio, ma a esso avevano concorso esponenti del ceto medio. «La moltitudine adunatasi a Santagustino il mercoredì, ed a S. Marianova il gioveddì, e poi di nuovo a S. Agustino fu grandissima, e non era però tutta di fanti, di bottegai, di mascalzoni ed altri simili [...], ma eran’huomini la maggior parte di cappanera [legati al mondo del diritto] e napoletani» (Costo, 1588, p. 142r).
Che non fosse un mero tumulto plebeo, lo notò già il viceré, che parlò di «nefandi et enormissimi delitti in dispregio di nostro signor Iddio, Sua Maestà et poco rispetto nostro et de la giustizia» (Villari, 2012, p. 562). D’altronde, gli fu intimato «che doverà haver d’innanzi gli occhi le cose di Fiandra» (Mutinelli, 1856, p. 145), la coeva rivoluzione antispagnola delle Province Unite. Nei giorni seguenti circolarono rivendicazioni come quella tesa a ottenere la parità dei voti fra i nobili e il popolo nell’amministrazione locale.
Le richieste non ebbero seguito, ma l’ebbe comunque il tumulto, con oltre ottocento processi, centinaia di torturati e condannati alle galere o all’esilio, decine di pene capitali con tormenti e cortei analoghi a quelli del popolo, che, del resto, sui rituali dei supplizi capitali aveva imbastito il proprio canovaccio. Fu rasa al suolo e cosparsa di sale la casa di chi apparve il principale organizzatore del moto: lo speziale e capitano del popolo Giovan Leonardo Pisano, riuscito a fuggire. In suo luogo sorse un monumento con una serie di nicchie ove furono poste teste e mani di 24 giustiziati.
Fonti e Bibl.: Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XV.G.23: Istorico ragguaglio dell’infelice morte di Giovan Vincenzo Starace eletto del fedelis. Popolo di Nap. nel dì 8 magio [sic] del 1585, cc. 91r-117r; ms. X.C.51: Della morte di Starace eletto di Nap., cc. 283r-287v; ms. X.B.64: Relazione della giustizia fatta fare da S.E. per il successo in persona dell’eletto Giovan Vincenzo Starace 1585, cc. 287r-296v; ms. Branc.III.D.6, cc. 192r-193r.
T. Costo, Giunta di tre libri [...] al compendio dell’istoria del Regno di Napoli..., Napoli 1588, pp. 130v, 134v-143r, 146r-147r; F. Imperato, Discorsi intorno all’origine, regimento e stato della gran Casa della santissima Annunziata di Napoli, Napoli 1629, p. 106; G.A. Summonte, Dell’historia della città e Regno di Napoli (1643), IV, Napoli 1675, pp. 445-479; F. Mutinelli, Storia arcana e aneddotica d’Italia raccontata dai veneti ambasciatori, II, Venezia 1856, pp. 140-158; La morte di G. V. S. eletto del popolo di Napoli nel maggio 1585, a cura di N. De Blasiis, in Archivio storico per le province napoletane, I (1876), pp. 131-138; Il tumulto napolitano dell’anno 1585, a cura di N.F. Faraglia, ibid., XI (1886), pp. 433-441; E. Rocco, Starace. Staracejare, in Giambattista Basile. Archivio di letteratura popolare, IV (1886), 6, pp. 46 s.; Diurnali di Scipione Guerra, a cura di G. de Montemayor, Napoli 1891, pp. 35-40, 42 s., 178-182; L. De la Ville sur-Yllon, Un monumento infame a Napoli nel secolo XVI, in Napoli nobilissima, III (1894), pp. 161-163; B. Capasso, Catalogo ragionato dei libri registri e scritture esistenti nella sezione antica o prima serie dell’Archivio municipale di Napoli, II, Napoli 1899, p. 330; M. Mendella, Il moto napoletano del 1585 e il delitto S., Napoli 1967; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini, Bari 1967, ad ind.; E. Malato, Nuovi documenti cortese-sgruttendiani, in Filologia e critica, II (1977), pp. 417-443; P. Burke, The historical anthropology of early modern Italy, Cambridge 1987 (trad. it. Scene di vita quotidiana nell’Italia moderna, Roma-Bari 1988, ad ind.); S. Di Franco, La monarchia, il popolo e la morte dell’eletto S. (1585), in Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche, CXVII (2006), pp. 183-206; R. Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero, Milano 2012, ad indicem.