Crescimbeni, Giovan Mario
Letterato, critico e poeta (Macerata 1663 - Roma 1728), uno dei fondatori dell'Arcadia, in seno alla quale, in contrasto col programma classicheggiante del Gravina, rappresentò l'indirizzo petrarchesco-chiabreresco ispirato al gusto del grazioso, del piacevole, dell'idillico. Non molte le sue osservazioni su D., ma alcune interessanti, soprattutto per il tentativo d'inserire anche l'opera dantesca, almeno sotto certi aspetti, nel repertorio ideale del passato da porsi alla base della nuova poetica. Nella Istoria della volgar poesia (1698), primo tentativo di sistemare il nostro patrimonio letterario, in strutture, tuttavia, prevalentemente storico-erudite, rivendica a D. il merito d'avere inventato e usato con perizia di stile satirico la terza rima, traccia un breve profilo biografico del Fiorentino, elenca con abbondanza di indicazioni i commentatori e i critici della Commedia, e compie un analitico rendiconto delle contese nate attorno ai " valori " e al " peso " del poema, argomento intorno al quale egli, scrivendo da " storico ", come tiene a dichiarare, non intende esprimere la propria opinione, pur riconoscendo in D. un ingegno " acuto, sottile, robusto, splendido, profondo, evidente e in somma grande ".
Ma questa cautela vien già meno in una pagina de La bellezza della volgar poesia (1700) dove troviamo attribuita alla poesia dantesca una bellezza " interna " (diversa da quella " esterna " cara ai moderni) rintracciabile sotto la stravaganza della macchina, la rozzezza della tessitura, la confusione dei concetti, la durezza dell'elocuzione, quest'ultima dovuta in gran parte all'imperfezione del volgare toscano allora nato; e si tramuta in ferma posizione in un'altra pagina dei Commentari intorno alla sua Istoria della volgar poesia (1702) che confuta il giudizio negativo pronunziato contro D. da Paolo Beni (" Poeta per cento colpe, e bassezze, ma sopra tutto per le sconce, e sforzate rime da abborrirsi e fuggirsi a più potere "): il poema dantesco offre cose buone, anzi ottime, che assorbono " quel poco di cattivo " che vi si può rinvenire da critici appassionati, onde è da considerare alla stregua dei poemi omerici quale fonte di ogni scienza e di ogni pregio poetico, di ogni lume " per qualunque spezie di vita ".
Se la critica del C. mira sostanzialmente a interpretare in chiave di " diletto " la poesia dantesca (sintomatica è a questo riguardo l'abile analisi del sonetto Per quella via che la bellezza corre [Rime CXVII], dal quale sono estratti effetti di " ricchezza " e " leggiadria " anche sul piano della convenienza retorico-stilistica) o a far concordare col buon senso e con la credibilità le più audaci invenzioni del testo medievale, come nel caso del " metacronismo " per cui nell'Inferno sono punite anime di peccatori ancora viventi, sa però andare in qualche occasione assai più in là, e concedere al poeta in genere, e in ispecie a D., " una sfrenata libertà d'operare ", di alterare e mutare la storia anche nella sostanza " facendone tutto ciò che gli torna bene, e che l'aiuta a compiere con felicità il suo proponimento ": punto teorico fra i più avanzati del primo Settecento, e non a caso collaudato al banco della Commedia; destinato fra l'altro a sospingere il concetto della verosimiglianza oltre il limite della razionalità, quasi riducendolo alla coerenza della favola con sé stessa, lungo la direttrice programmatica della seicentesca ‛ maraviglia ', ribattezzata significativamente, ne La bellezza della volgar poesia, " impossibile credibile ".
Bibl. - G.M. Crescimbeni, L'istoria della volgar poesia, Roma 1698; ID., La bellezza della volgar poesia, ibid. 1700; ID., Commentari intorno alla sua Istoria della volgar poesia, I, ibid. 1702; le tre opere furono raccolte insieme nell'edizione del 1730-1731 apparsa a Venezia a c. di A. e P.C. Zeno e di A.F. Seghezzi; G. Getto, Storia delle storie letterarie, Milano 1946, 37-49; L. Martinelli, D., Palermo 1966, 109-110.