Sempronio, Giovan Leone
Letterato (Urbino 1603-ivi 1646). Si ricorda qui per la tragedia Il Conte Ugolino (Roma 1724) che, barocca nello spirito e nella struttura, quindi sostanzialmente lontana dal mondo dantesco, pur trasse spunto e più di un particolare dall'episodio del XXXIII canto dell'Inferno. Letta nel 1632 in una tornata dell'Accademia degli Assorditi di Urbino, fu pubblicata postuma, in un mutato clima letterario, e non ottenne la notorietà delle altre opere del S., La selva poetica e il fortunato poema Boemondo. Divisa in cinque atti, ciascuno terminante con un coro, rispetta le unità aristoteliche, anche se col ricorso all'artificio delle parti narrative che infrangono di fatto quei limiti.
La trama innesta un intreccio fantasioso e romanzesco sulla linea storica, mescolando al motivo politico quello erotico, che finisce per predominare nell'economia del lavoro: la catastrofe, ad esempio, scaturisce da un odio maturato sì nell'atmosfera delle lotte comunali ma il cui primo movente è in una rivalità amorosa conclusa con un'uccisione. Alla corte di Ugolino della Gherardesca, signore di Pisa, si rifugia alla morte del padre, il re Carlo d'Angiò, la principessa Angioina. Di lei s'innamorano Manfredi, nipote di Ugolino, e Almerigo, nipote di Ruggiero degli Ubaldini. In un duello Manfredi uccide Almerigo: ne nasce una faida familiare, perché Ruggiero imprigiona il conte insieme con quattro figli in ancor tenera età, approfittando della diceria popolare che il conte avesse tradito la patria, cedendo alcune castella tenute dai Pisani ai Fiorentini. Manfredi, che si era volontariamente esiliato, ritorna a liberare Ugolino e a prendere Angioina. Ma, mentre i fuggitivi si dirigevano verso Napoli, vengono scoperti: Ugolino, che nella prigione era divenuto cieco, sarà involontaria causa della morte del nipote e della principessa, facendoli precipitare in un trabocchetto di un suo castello; egli, ricaduto nelle mani del suo avversario, sarà rinchiuso con i suoi bambinelli in una torre le cui chiavi saranno gettate nell'Arno.
In realtà protagonista della tragedia non è il conte Ugolino, che campeggia solo nei due ultimi atti, personaggio elegiaco più che tragico, ripiegato a rimpiangere nel tempo della sventura un passato di potere e di fasto; ma Angioina, la cui femminilità richiama certe eroine del Tasso, anche se non ne ha il rilievo artistico: è lei, infatti, che scatena involontariamente quelle passioni fatali, che mettono in moto tutto il romanzesco e macchinoso della tragedia. Anima, però, morbidamente sentimentale, più che vivere si contempla vivere e sospira e riflette sul destino umano nei lunghi colloqui con la nutrice Dalinda.
Il motivo politico che è al centro della rappresentazione dantesca di quell'odio bestiale che lega per sempre i due avversari, qui diventa cornice e, per giunta, non ha più un'esatta coloritura storica: guelfi e ghibellini sono come trasportati in una temperie non loro, e più del mondo comunale traspare il mondo manierato e sofista delle corti del Seicento.
Bibl. - P. Provasi, G.L.S. e il Secentismo ad Urbino, Urbino 1901, passim; E. Bertana, La tragedia, Milano 1906, 149.