ROMANELLI, Giovan Francesco
– Figlio di Bartolomeo di Angelo e di Laura De Angelis, nacque verosimilmente a Viterbo tra il 1608 e il 1613, come si evince (nella persistente mancanza dell’atto di battesimo) da un documento notarile del 27 ottobre 1633 in cui – nominato suo tutore il cognato Ascanio Ceciliani in presenza del testimone Carlo Honorati – Giovan Francesco viene definito di età «minore di venticinque e maggiore di venti» (Archivio di Stato di Viterbo, notaio Scipione Pollastri, prot. 1920, c. 55v.). La nascita tra il 1610 e il 1612 sembrerebbe la più probabile nell’ipotetica successione ai natali dei fratelli e sorelle (le cui date sono anch’esse incerte e approssimative), né a maggiore puntualità ci conduce la generica indicazione di «annis quinquaginta» riportata nell’atto di morte del 9 novembre 1662 (Angeli, 2003, p. 446), verosimile arrotondamento al quinto decennio applicato dall’estensore dell’atto anche agli altri decessi.
Il padre, nato il 24 giugno 1571 a San Giovanni Valdarno (Bruno, 2006, p. 45) e di professione sarto, si era trasferito nella città tuscense negli ultimi anni del Cinquecento – dove altri mercanti di origini fiorentine e più in generale toscane avevano spostato le loro attività – e dove nel 1592 risultava possedere dei terreni (Angeli, 2003, p. 444). Dei figli nati dall’unione con Laura De Angelis, viterbese di origini romane sposata nel 1595, soltanto quattro raggiunsero la maggiore età (ibid.): giacché sono stati esplorati tutti i registri dei battesimi celebrati nelle parrocchie cittadine, questi vennero probabilmente officiati nella chiesa carmelitana intitolata a S. Giovanni Battista degli Almadiani, a cui si rivolgevano molte famiglie di nuovo insediamento a Viterbo (e i cui registri di nostro interesse sono scomparsi, ibid., p. 447 n. 8).
Dopo la morte precocissima del padre avvenuta il 20 agosto 1617 (p. 836; Bruno, 2006, p. 47), Romanelli venne inviato a Roma presso l’avvocato e zio materno Gaspare De Angelis (Baldinucci, 1681-1728, 1845-1847, V, p. 416), ma, rientrato poco dopo a Viterbo, completò la propria educazione nell’oratorio dei gesuiti (istruzione garantita dalla pregiata calligrafia che qualifica le sue lettere), verosimilmente sostenuto dal religioso Marsilio Honorati (Bruno, 2006, p. 47), fratello del sunnominato Carlo e suo parente di parte materna, nonché futuro confessore di Pietro da Cortona. Dopo un tempestivo passaggio nella bottega del Domenichino – la cui memoria grafica si potrebbe individuare nel precoce e amichevole Ritratto di Giovann’Angelo Canini di Rennes (p. 48) – venne introdotto da Honorati o da un membro della famiglia Magalotti (ibid.) nella bottega di Pietro da Cortona.
La presenza tra i collaboratori di Pietro da Cortona attivi dal 1631 nelle decorazioni del palazzo Barberini alle Quattro Fontane segna l’avvio di un lungo e inesauribile rapporto con la famiglia di Urbano VIII, e in particolar modo con il cardinale e vicecancelliere Francesco Barberini, che sarebbe rimasto un riferimento primario per l’artista e per i suoi stretti familiari. Le decorazioni parietali nella dimora alle Quattro Fontane (Vulcano indica il luogo in cui fondare Preneste, gallerietta di Anna Colonna e almeno Adorazione dei pastori nella cappella dell’appartamento della medesima) precedettero il suo verosimile intervento nella volta del salone, dove Romanelli – collaborando con Giacinto Gimignani (questi almeno fino al 1634), Pietro Paolo Baldini e Giovanni Maria Bottalla – prese parte fino alla maturazione della propria personalità.
Accertata dal 1632 al gennaio 1646 la sua presenza nei ruoli stipendiati del nipote più anziano del pontefice (Merz, 1991, p. 330; Bruno, 1999, p. 37), come pure il suo domicilio nel palazzo della Cancelleria almeno fino al 1644 (Bruno, 1999, p. 35), la sua produzione scorre stilisticamente parallela a quella del maestro almeno fino al 1635 (Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia di Oslo, 1632 ca., e La costruzione dell’arca per Amedeo dal Pozzo, dello stesso anno), vicino al quale figura piuttosto come collaboratore, non già allievo o scolaro (Lo Bianco, 2000, pp. 276-278).
Con i primi incarichi pubblici per la basilica Vaticana e per il palazzo apostolico (da citare almeno il S. Pietro che libera l’energumena, 1635-37, disperso, la Presentazione della Vergine al tempio, 1638-42, oltre al Pasce oves meas del 1637 nella Galleria delle carte geografiche, e alle decorazioni parietali eseguite tra il 1637 e il 1641 con episodi tratti dalla Vita di Matilde di Canossa nella galleriola omonima), Romanelli cominciò a mutare sensibilmente il proprio linguaggio barocco, né la frequentazione (e levis imitatio) di Gian Lorenzo Bernini arrestò il suo percorso. Ispirandosi a un codice più semplice e funzionale, quasi neorinascimentale, egli guardò a Raffaello (realizzando per Urbano VIII la ‘serie araldica’ dei cartoni per arazzi raffiguranti i Giochi dei putti, 1637-42: cfr. Weddigen, 1999), a Francesco Albani (La Vergine in lettura con Gesù bambino e s. Giovannino, di cui si conoscono diversi esemplari, cfr. da ultimo Fagiolo dell’Arco, 2001, tav. XXV, n. 45) e a Guido Reni (Riposo nella fuga in Egitto del 1644 in S. Carlo alle Quattro Fontane), inserendosi in un classicismo più diffuso e promosso dal 1636 fino al decennio successivo anche dalla decorazione seicentesca del battistero lateranense eseguita da Andrea Sacchi, Andrea Camassei, Gimignani, Carlo Magnone e Carlo Maratta (Fischer Pace, 1989, II, pp. 866 s.).
Tra l’aprile e il maggio del 1638 è documentato il breve soggiorno a Napoli al seguito del cardinale Francesco Maria Brancaccio (Pollak, 1913, p. 49), durante il quale Romanelli salì sui ponteggi della volta della certosa di S. Martino e periziò per Giovanni Lanfranco la conduzione a ‘buon fresco’ della decorazione a questi contestata dai monaci partenopei (Bottari - Ticozzi, 1822-1825, I, p. 313), a testimonianza di una popolarità raggiunta anche tra i maggiori artisti del suo tempo, e sancita nell’Urbe il successivo 30 maggio dalla nomina a principe dell’Accademia di S. Luca.
I continui spostamenti tra Roma e la sua verosimile città natale (che di fatto egli chiamò sempre ‘patria’) sono certificati – oltreché dalle nozze con Beatrice Tignosini celebrate a Viterbo il 10 aprile 1640, dalla cui unione nacquero almeno quattro figlie femmine e sei figli maschi, tra i quali Urbano (1650-1682), anch’egli pittore (Angeli, 2003, p. 836) – dalla costante partecipazione ai fatti principali della vita cittadina (Fioravanti, 2005). Tali impegni consolidarono le sue abilità oratorie e diplomatiche, che in futuro egli mise al servizio non solo della Tuscia, ma anche della famiglia pontificia.
Al pari di Pietro da Cortona e Bernini, Romanelli fu un autore completo, e seppe immedesimarsi pienamente nella poliedrica creatività barocca, controllando con padronanza campi diversi dell’espressione artistica, dall’architettura alle arti minori. Così si esplicita la sua costante collaborazione con l’arazzeria Barberini, come pure la direzione degli allestimenti scenografici eseguiti da Giovan Francesco Grimaldi per il S. Bonifatio (dramma redatto da Giulio Rospigliosi, musicato da Virgilio Mazzocchi e tra il 1638 e il 1639 rappresentato almeno sei volte a Roma e a Palestrina), e l’attività progettuale svolta per la costruzione di porta Romana a Viterbo (Carosi, 1981), a cui unire ancora la sua disinvoltura nell’ideazione di arredi di culto (da citare almeno i lanternoni disegnati per la chiesa del Gonfalone di Viterbo: cfr. Angeli, 2015, p. 66), quella di altari ecclesiastici (l’iconostasi dell’abbazia di S. Nilo a Grottaferrata realizzata da Antonio Giorgietti: cfr. Montagu, 1986, p. 10, fig. 8) e di monumenti sepolcrali (Bruno, 2007, p. 322).
Prescelto dal pontefice e dai nipoti per la realizzazione di ‘doni diplomatici’ che dichiaravano apertamente l’utilità politica delle opere d’arte, Romanelli eseguì nel 1640 il coltissimo Sposalizio di Peleo e Teti conservato a Roma presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale dell’EUR (già originario e perfetto pendant del Bacco e Arianna di Guido Reni e anche raffinatissima alternativa a quest’ultimo: cfr. Montanari, 2004; Curti, 2009), nel 1643 il S. Giorgio di Bondeno (Bruno, 1997), e nel 1645 l’Assunzione della cattedrale di S. Gallo (Vogler, 1979), rivelando sempre più la propria adesione ai modelli emiliani conosciuti a Roma, a cui si unisce un accentuato chiaroscuro prossimo al Guercino.
Al 28 settembre 1640 risale il suo primo contatto diretto con il cardinale Giulio Mazzarino (Bruno, 2007, p. 318), da questi richiesto per l’esecuzione di alcuni dipinti destinati a Michel Particelli d’Émery, futuro ministro delle finanze della Corona francese. Dell’interesse per un vero e proprio soggiorno a Parigi diede notizia l’8 dicembre 1641 lo stesso Romanelli all’agente romano del porporato, l’abate Elpidio Benedetti (Laurain-Portemer [1975], 1981, I, p. 221 n. 1), che indicava nella «facilità» e «speditione» le qualità vincenti dell’artista (Laurain-Portemer [1973], 1981, I, p. 246). Dopo il fallimento (dicembre 1642) delle trattative avviate precedentemente dai cardinali Richelieu e Mazzarino con Pietro da Cortona, il viaggio di Romanelli in Francia poté concretizzarsi tra il giugno 1646 e il settembre 1647, quando gli scenari politici erano ormai bruscamente mutati e i nipoti di Urbano VIII costretti all’esilio dall’inchiesta promossa dal nuovo pontefice Innocenzo X.
Preceduta dall’esecuzione di due tele ovali destinate ai soffitti lignei di alcune camere del palazzo Duret-Tubeuf, residenza parigina del primo ministro francese (Allegoria della Prudenza, collezione privata: Bruno, 2007, pp. 319 s.), la decorazione della galleria al piano nobile – dedicata principalmente alle Metamorfosi di Ovidio (Oy-Marra, 1994), ispirata alla Galleria Farnese e caratterizzata da quadrature neoraffaellesche – respinge nettamente gli aspetti più innovativi della pittura barocca, espressi nella prospettiva aerea e nella dilatazione spaziale. Romanelli considerò le delimitazioni della vasta superficie come una scelta efficace per predisporre un’eventuale azione collettiva, e adottò colori pallidi e delicati per adeguarsi al gusto francese contemporaneo (Milovanovic, 2002, p. 281), imponendosi come modello per la perduta galleria di Apollo decorata da Pierre Mignard nel castello di Saint-Cloud e per quella di Charles Le Brun a Versailles. Nella tela eseguita per il cabinet dell’Hôtel Lambert (Rosenberg, 1971, p. 163) raffigurante Il medico Japis che guarisce le ferite di Enea (Parigi, Louvre) Romanelli si misurò invece abilmente con François Perrier ed Eustache Le Sueur.
Il successo conseguito ebbe un riflesso immediato al ritorno nel Paese natale, dove negli otto anni di attività antecedenti al secondo soggiorno alla corte d’Oltralpe si datano imprese pubbliche e private di grande prestigio sia nella città pontificia (l’Arione sul delfino di palazzo Costaguti, gli affreschi con episodi tratti dall’Eneide e dalle Storie di Tito Livio nel salone di palazzo Lante della Rovere, conclusi nel 1653, e il fregio mitologico nel salotto privato della duchessa Isabella Lante Altemps, eseguito l’anno successivo), sia a Viterbo (lo stendardo con il Battesimo di Cristo e la Madonna della Misericordia, dipinto nel 1649 per la confraternita del Gonfalone, e il S. Lorenzo per l’altare maggiore della cattedrale, del 1653).
Nessuna evidente trasformazione interviene nell’elegante formula compositiva e ornamentale raggiunta dall’artista, salvo un progressivo allungamento delle figure, che dimostra un rinnovato studio della statuaria antica e l’osservazione di un consiglio riportato nel 1665 da Bernini a Paul Fréart de Chantelou, «di fare le gambe piuttosto lunghe che corte, perché per poco che si fanno più lunghe si accresce la bellezza e per un tantino che si fanno più corte la figura diventa greve e pesante» (P. Fréart de Chantelou, Viaggio del Cavalier Bernini in Francia, 1665-1671 ca., a cura di S. Bottari, 1988, p. 203).
Preceduto da un nuovo carteggio intercorso tra il cardinale Mazzarino e l’abate Benedetti (Laurain-Portemer [1969], 1981, I, pp. 279-291), il secondo soggiorno parigino di Romanelli (1655-57) assecondava un espresso desiderio della regina madre Anna d’Austria, che indicò il viterbese per la decorazione di quattro stanze del proprio appartamento d’estate nel palazzo del Louvre (trasformato tra il 1799 e il 1800 nella galleria delle antichità), con episodi tratti dal mito, dalla storia biblica e da quella romana. Per questa decorazione fastosa e considerevolmente remunerata Romanelli progettò anche le partizioni in stucco delle volte, eseguite dal connazionale Pietro Sasso e dorate da Ottaviano Ottaviani, e anche i disegni (‘modelli in piccolo’) delle figure in stucco eseguite da Michel Anguier (Milovanovic, 2002, p. 287). Al pari delle Aedes Barberini ad Quirinalem di Girolamo Tezi, che nel 1642 avevano celebrato nell’Urbe il grandioso apparato decorativo del palazzo alle Quattro Fontane, il libretto redatto dal cortigiano Ascanio Amalteo e pubblicato a Parigi nel 1657 (La regia habitazione dell’augustissima Anna d’Austria…) guidava alla comprensione dei soggetti dipinti e di quelli plastici dell’appartamento della regina madre (Bodart, 1974), che illustravano allegoricamente i doveri essenziali e il buon governo di un sovrano. Al viterbese venne affidata anche la decorazione di un quinto ambiente, il Petit cabinet sur l’eau, per il quale egli eseguì una tela ovale collocata ab origine nella boiserie del soffitto (Il trionfo di Minerva, Lille, Musée des beaux-arts), oltre a sette dipinti con le Storie di Mosè divisi oggi tra varie sedi museali (Loire, 2009, pp. 91-98) e il cui ultimo invio da Roma (con i due soprapporta raffiguranti Mosè e le figlie di Jethro e Il miracolo delle quaglie, Parigi, Louvre) si data al 13 settembre 1660 (Bruno, 2007, p. 329 n. 113).
Tra le opere che caratterizzano l’attività estrema del pittore è da ricordare l’elogiatissima Deposizione di Cristo dipinta tra il 1661 e il 1662 per la cappella del Crocifisso in S. Ambrogio alla Massima a Roma: recentemente recuperata nel palazzo reale di Aranjuez (Redín Michaus, 2014), venne considerata dal Luigi Lanzi l’opera con la quale Romanelli si sarebbe confrontato con il suo antico maestro Pietro da Cortona (Lanzi, 1795-1796, 1968-1974, I, p. 394), il cui Martirio di s. Stefano (San Pietroburgo, Ermitage) era in origine di fronte alla pala d’altare del viterbese.
Depositato il proprio testamento il 26 marzo 1658 presso il notaio Cosimo Pennacchi, suo procuratore e compare, Romanelli morì il 9 novembre 1662 a Viterbo nella propria abitazione in Strada Nova, e venne sepolto nella cappella dell’Annunziata che aveva fatto edificare nella chiesa dei Ss. Teresa e Giuseppe (Angeli, 2003, p. 446).
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