MOROSINI, Giovan Francesco
– Nacque a Venezia il 24 settembre 1604, primogenito dei tre figli maschi di Giovanni di Alvise, del ramo di S. Canciano dei Morosini detti dalla Sbarra, e di Maria Bernardo di Anton Maria.
Dopo l’esperienza del prozio omonimo – passato da un prestigioso cursus honorum politico-diplomatico al vescovato di Brescia e al cardinalato – la carriera ecclesiastica aveva assunto rilievo centrale per le generazioni successive della famiglia. Allo zio paterno Agostino, deceduto nel 1628, Morosini subentrò nel possesso della commenda di S. Benedetto di Leno nel Bresciano; a un altro zio, suo omonimo e canonico della cattedrale di Padova, fu invece affiancato, nel 1630, in qualità di coadiutore nell’ufficio, del quale rimase poi titolare nel 1632. Conseguito nell’aprile 1631 il dottorato inutroque iure nel Collegio dei giuristi dello Studio di Padova, Morosini fu nominato nel 1633 cubicularius del papa e si trasferì a Roma, rinunciando l’anno dopo al seggio canonicale. Nel 1639, nella crisi incombente delle finanze veneziane, cedette alla Repubblica le rendite dell’abbazia di Leno, ricevendo l’encomio ufficiale del Senato.
Il 30 aprile 1644 fu eletto dal Senato patriarca di Venezia in luogo del rinunciatario cardinale Federico Corner, con ampia maggioranza di voti favorevoli. La presa di possesso della sede patriarcale ebbe luogo il 20 agosto.
Sullo sfondo della logorante guerra di Candia, il patriarcato più lungo nella storia della Repubblica – ben 34 anni – si aprì all’insegna di un fitto contenzioso incrociato con il governo e il mondo ecclesiastico cittadino. All’indomani del suo ingresso, Morosini si scontrò con il capitolo della cattedrale di S. Pietro di Castello per la scelta del canonico teologo. Mentre veniva faticosamente ricercato un compromesso su un candidato, forti tensioni con il gruppo dirigente si accesero intorno alla disciplina dei numerosi monasteri femminili cittadini. Sollecitato dal Senato, fin dal novembre 1644, a cooperare con l’autorità civile per porre un argine alle spese crescenti delle comunità monastiche, Morosini ne avviò la visita e sostituì diversi confessori, suscitando tra le religiose, molte delle quali appartenevano a famiglie patrizie, reazioni vivaci. In alcuni conventi fu impedito l’accesso ai ministri patriarcali e le celebrazioni liturgiche rimasero sospese. Convocato in Collegio il 4 luglio 1645, Morosini si appellò alle norme canoniche e rivendicò i risultati ottenuti, ma fu energicamente diffidato dal quasi ottantenne doge Francesco Erizzo dal metter mano ad affari «non […] puramente ecclesiastici, ma politici» senza il necessario riguardo per tante donne recluse a pro della «conservatione delle case» (Arch. di Stato di Venezia, Collegio, Espos. Roma, 37, c. 17v).
‘Addormentato’ il caso, grazie anche all’offerta da parte del patriarca di un sussidio di 5000 ducati annui per la durata della guerra (Arch. segr. Vat., Segr. St., Venezia, 72, c. 238r, 12 maggio 1646) – una nuova vertenza si aprì nella primavera del 1646, quando Morosini convocò al foro patriarcale un chierico della basilica palatina di S. Marco da lui esaminato e respinto, ma ordinato ugualmente sacerdote, con procedura dubbia, da un vescovo in partibus. Maldisposto dalle dispute cerimoniali che il patriarca andava frattanto sollevando in occasione delle funzioni religiose pubbliche, il governo veneziano fece proprio il parere dei consultori in iure Fulgenzio Micanzio e Gasparo Lonigo, difensori a oltranza della giurisdizione dogale sulla chiesa marciana, e intervenne duramente: nel settembre 1646 Morosini fu costretto da un precetto del Senato a revocare gli atti emanati e a consegnare le relative scritture. La sua risoluta rivendicazione della prerogativa dell’ordinario di consacrare i chierici della diocesi aveva posto le premesse per uno scontro di più vaste proporzioni. Il 30 luglio 1649 il ‘clero universale’ di Venezia denunciò in Collegio una serie d’indebite ingerenze del patriarca nei meccanismi interni al plurisecolare universo delle parrocchie cittadine, in cui pievani eletti dagli abitanti delle contrade condividevano la responsabilità dei servizi liturgici e della cura d’anime con un capitolo di preti titolati, partecipi dei proventi della mensa. Invitato inutilmente da Roma a portare la controversia al tribunale della Nunziatura, Morosini invocò dalla Repubblica, giuspatrona del patriarcato, un rimedio ai colpi inferti alla sua giurisdizione, ma non riuscì a evitare il deferimento della causa a due arbitri nominati dal Senato. La sentenza arbitrale pronunciata il 22 ottobre 1650 avvalorò le istanze del clero: ribadì la libertà delle elezioni ai titoli parrocchiali e la facoltà, per pievani e titolati, di utilizzare come sostituti sacerdoti e mansionari avventizi; confermò inoltre un’interpretazione restrittiva dell’autorità del patriarca nell’esame canonico dei chierici aspiranti agli ordini e dei confessori.
In questa come nelle altre vicende di cui era stato protagonista, Morosini portò lo slancio di un carattere impulsivo e insieme un’alta concezione del proprio ruolo pastorale, che coniugò con un senso spiccato della peculiarità della chiesa veneta. Risoluto nel pretendere decoro e adesione ai propri doveri da un corpo clericale disomogeneo per cultura, livello morale e consistenza economica, ma alieno al contempo dall’impiego di censure e scomuniche, risultò figura scomoda: in sospetto presso i nunzi pontifici, infastiditi dal suo austero patriottismo veneziano, fu fonte d’imbarazzo per il fratello Alvise, procuratore di S. Marco, chiamato a più riprese a moderarne le intemperanze, in nome della linea di conciliazione con la Sede apostolica imposta alla Repubblica dallo scoppio del conflitto con i turchi, dopo le contrapposizioni frontali dell’epoca di Urbano VIII.
La bruciante sconfitta subita nel 1650 impose una battuta d’arresto ai suoi progetti. La visita pastorale indetta nel giugno 1646 e avanzata negli anni successivi rimase sospesa fino al 1658, per proseguire quindi a ritmi rallentati. Gli esiti dello scontro con il clero condizionarono lo svolgimento del sinodo diocesano convocato nel 1653, a oltre 60 anni di distanza dal precedente: Morosini si limitò a riproporre i decreti in materia disciplinare e liturgica già emanati per la visita e rinviò la designazione degli esaminatori sinodali. I rapporti con il ceto di governo rimasero tesi. All’inizio del 1657, giunta in porto la trattativa per il rientro dei gesuiti a Venezia, il nunzio Carlo Carafa ammise d’aver evitato di servirsi del patriarca, il cui palese favore per la Compagnia avrebbe potuto rivelarsi controproducente presso il patriziato. Con il passare del tempo gli echi dei burrascosi inizi dovettero stemperarsi. Nel 1663 i suoi rilievi sull’inosservanza delle norme tridentine in materia di celebrazione dei matrimoni convinsero il Senato a ribadire l’obbligo di attenersi alle formalità previste dal concilio e a regolamentare in maniera più rigorosa la trascrizione nei registri dell’Avogaria di comun delle unioni patrizie. Quattro anni dopo, mentre accompagnava l’effimero rilancio dell’offensiva veneziana a Candia con allocuzioni e lettere pastorali pervase di richiami all’espiazione e al perdono, Morosini riunì un secondo sinodo, durante il quale varò disposizioni sui sacramenti che rivelano un’«accentuata sensibilità liturgica» (Niero, 1992, p. 95) e si distinguono per un richiamo costante alla centralità della parrocchia, valorizzata rispetto alla pervasiva presenza delle chiese dei regolari. La decretazione sinodale del 1667 si caratterizza inoltre per un’opzione tendenzialmente rigorista in tema di confessione, rafforzata dall’aggiunta in calce agli atti del sinodo delle proposizioni relaxativae condannate da Alessandro VII e Clemente IX tra il 1665 e il 1666, e per un’attenzione speciale a regole, tempi e requisiti patrimoniali per il conferimento degli ordini. Quest’ultimo aspetto si correla alle ripetute denunce di un’incontrollata proliferazione di preti moralmente e culturalmente inadeguati, attirati presso le chiese veneziane da una massa crescente di suffragi pro anima, che Morosini propose nelle sue relationes ad limina.
Non facile da delineare – allo stato degli studi – il suo apporto alla ricca stagione spirituale della Venezia seicentesca. Tra gli elementi che ne connotarono la fisionomia vi fu certamente, oltre allo zelo filogesuitico ricordato dal nunzio, l’avversione al devozionismo promosso dagli ordini mendicanti. Non rimase estraneo al suggestivo mondo delle estatiche e delle aspiranti alla santità: difese dalle accuse dei confessori la cappuccina Maria Felice Spinelli, che appoggiò nell’acquisto dalla Repubblica del soppresso convento di S. Maria delle Grazie, riadattato e riaperto nel 1671; ne avrebbe ricordato i consigli e gli indirizzi la ‘finta santa’ Cecilia Ferrazzi, deferita nel 1664 all’Inquisizione, ma apprezzata, in precedenza, dallo stesso futuro cardinale e vescovo di Padova Gregorio Barbarigo. Morosini fu inoltre tra i sostenitori dell’oratorio di S. Filippo Neri, istituito a Venezia nel 1663.
L’ultimo tratto del suo mandato si svolse in un clima di progressivo deterioramento dei rapporti veneto-pontifici. Dopo l’abbandono di Candia nel 1669, la volontà di rivalsa della Repubblica diede luogo a un riavvicinamento alla Francia di Luigi XIV e a un rilancio di spiriti giurisdizionalistici, alimentato da dissensi sulle modalità di collazione dei vescovati veneti e da contestazioni sull’immunità del quartiere diplomatico veneziano a Roma. In questo quadro tornarono ad acuirsi gli annosi problemi di governo della chiesa veneziana. Verso la fine del 1677, ancora a seguito d’interventi sulla durata in carica e l’esame dei confessori, Morosini si trovò a fronteggiare un disagio diffuso nei monasteri femminili, mentre lo strato superiore del clero organizzava una nuova levata di scudi. Si aggiunse un altro caso spinoso: la probabile successione, nella guida spirituale della comunità greca di Venezia, del deposto arcivescovo di Costantinopoli, lo scismatico Metodio Maroni.
Riammesso il 20 novembre 1677 – dopo quasi 30 anni – all’udienza in Collegio, il patriarca dichiarò sentimenti di profonda preoccupazione sia per il pericoloso indipendentismo dei greci sia per i comportamenti tenuti dal clero veneziano, che sperava d’aver ridotto «con desterità e con l’insistenza nelle forme canoniche […] a qualche conveniente coltura a gloria di S.M.D. et a decoro […] di questo religiosissimo governo» (Arch. di Stato di Venezia, Collegio, Espos. Roma, 44, cc. 229v-232r).
Morì il 5 agosto 1678 a Venezia.
Inumato nel presbiterio della chiesa dei Tolentini, fu onorato da un’iscrizione magnificante i suoi sforzi «pro disciplina ecclesiastica» e il generoso impiego di sostanze familiari in appoggio alle armi venete, nonché da un fastoso monumento funebre, opera dello scultore genovese Filippo Parodi.
Fonti e Bibl.: Padova, Arch. stor. Università, ms. 148, pp. 1015 s. (9-12 aprile 1631); Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 57, Libro d’oro nascite, VII, c. 218v; Misc. Codd., s. II, 23, Storia veneta: M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, V, pp. 346 s.; Collegio, Esposizioni Roma, regg. 36, cc. 248v-249r; 37, cc. 16v-20r, 16v-20r, 27rv; 38, cc. 24v-25r; 39, cc. 63r-68r, 106v-109r., 110r, 121rv; 40, cc. 26v-31v, 46r-48r, 206r; 44, cc. 229v-232r; Consultori in iure, 550, cc. 95r e ss.; Venezia, Arch. della Curia patriarcale, Arch. segr.,Visite pastorali, 12-13; Arch. segr. Vaticano, Segr. St., Venezia, 70, cc.127v-128v, 134v; 72, cc. 68r-69r, 96r-97r, 124rv, 235r-238r; 76, c. 374r; 77, c. 38rv; 77a, cc. 65r, 373r; 89, c. 56rv; 107, cc. 120r-121r; 119, cc. 5r, 15rv, 75r, 111rv, 319r, 371r, 393r, 448r, 618r, 622r-623r; Congr. Conc., Relat. Dioec., 860a; Lettera pastorale di Mons. Ill. e Rev. G.F. M. [...] al clero e popolo suo, Venezia 1665; Ordeni di Mons. Ill. e Rev. G.F. M. [...] al suo diletto clero, monache e popolo, Venezia 1667; Synodus Dioecesana veneta ab Ill. et Rev. […] Io. Fr. Mauroceno […] Patr. Venet. celebrata diebus 18, 19 et 20 mensis iunii 1653, Venezia 1668; Synodus Dioecesana veneta secunda ab. Ill. et Rev. […] Io. Fr. Mauroceno […] Patr. Venet. […] celebrata diebus 18, 19 et 20 mensis aprilis 1667, Venezia 1668; S. Cosmi, Memorie della vita di Gio. Franc. Morosini card. della S.R. Chiesa e vescovo di Brescia, Venezia 1676, p. 725; Capitoli stabiliti tra Mons. Ill. e Rev. G.F. M. Patriarca di Venetia, et il ven. suo clero universale, Approbati nell’Ecc. Senato L’Anno 1650, Venezia 1677; G. Marciano, Memorie historiche della Congregatione dell’Oratorio, V, Napoli 1702, pp. 360, 363, 365; F. Corner, Ecclesiae venetae, XIII, Venezia 1749, pp. 188 s.; G.B. Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, Venezia 1795, IV, pp. 345-346; VII, pp. 181-186; F.S. Dondi dall’Orologio, Serie cronologico-istorica dei canonici di Padova, Padova 1805, p. 129; G. Cappelletti, Storia della chiesa di Venezia, II, Venezia 1851, pp. 47-53, 280, 340; E. Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, Venezia-Roma 1960, pp. 366 s., 376; A. Niero, I patriarchi di Venezia, Venezia 1961, pp. 127-130; C. Ferrazzi, Autobiografia di una santa mancata, a cura di A.J. Schutte, Bergamo 1990, pp. 37, 101; A. Niero, I sinodi del secolo, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, Venezia 1992, pp. 93-104; A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo XVII. I vescovi veneti fra Roma e Venezia, Bologna 1993, pp. 46, 170, 202 s.; G. Cozzi, Dalla riscoperta della pace all’inestinguibile sogno di dominio, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, VII, La Venezia barocca, a cura di G. Benzoni - G. Cozzi, Roma 1997, pp. 61 s.; A. Pizzati, Commende e politica ecclesiastica nella Repubblica di Venezia tra ‘500 e ‘600, Venezia 1997, pp. 174, 217, 265, 296; P. Gios, Il giovane Barbarigo: dal contesto familiare al cardinalato, in Gregorio Barbarigo patrizio veneto vescovo e cardinale nella tarda Controriforma, a cura di L. Billanovich - P. Gios, Padova 1999, pp. 11, 19 s.; G. Cozzi, La società veneta e il suo diritto, Venezia 2000, p. 37; A.J. Schutte, Aspiring saints, Baltimore-London 2001, pp. 35, 90, 92, 123, 130, 168; A. Barzazi, Dialogo familiare, governo diocesano, «negotio publico»: la corrispondenza romana di Gregorio Barbarigo, in Ricerche di storia sociale e religiosa, XXXIX (2010), 77, pp. 273 s.