LOREDAN (Loredano), Giovan Francesco
Nacque a Venezia il 27 febbr. 1607 da Lorenzo di Giovan Francesco, del ramo dei Loredan da S. Maria Formosa, e da Leonora di Carlo Boldù, che gli imposero i nomi di Giovanni Francesco Pietro Melchiorre. Rimasto orfano di padre nel 1608 e di madre nel 1609, fu affidato allo zio senatore Antonio Boldù, che gli impartì un'educazione consona al suo rango avviandolo agli studi giuridici, filosofici e letterari sotto la guida del siciliano Antonino Collurafi. A parere di Gualdo Priorato (ma la notizia è taciuta dalle biografie ufficiali), il L. penetrò "gli arcani della filosofia sotto l'inimitabile Cremonino", ossia Cesare Cremonini, a Padova.
La carriera politica del L. cominciò al compimento dei 25 anni con l'ammissione in Maggior consiglio e con la triplice nomina, dal 1632 al 1635, alla carica di savio agli Ordini. Sempre al 1632 risalgono le prime testimonianze ufficiali a stampa dell'Accademia degli Incogniti, già fondata nel 1630 e inizialmente presieduta da Guido Casoni, ideatore dell'impresa raffigurante il Nilo con il motto "Ex ignoto notus" (su cui vedi del L. Lettere, I, Venezia 1653, pp. 425-435), che accolse nella sua dimora a S. Zanipolo (Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., cl. XI, 180 [=6523], cc. 130-133; Spini, p. 163).
Al nome e all'ininterrotto mecenatismo del L. fu sempre associata l'Accademia, sebbene l'origine e la fine restino ancora in parte oscure (è attestata, pur se sospetta in quanto unita alla proibita Lucerna, un'edizione veneziana del 1628, della Messalina di F. Pona che si firma "Assicurato Accademico Incognito" (altri indizi per una datazione più alta in Cannizzaro, 2003, p. 389); certi, poi, almeno due cambiamenti di sede, presumibilmente per singole riunioni, nelle dimore di Matteo Dandolo e Giorgio Contarini: cfr. Urbinati, p. 39 e Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., cl. XI, 20 [=6789], c. 161). Nel 1632 risulta già avviata la collaborazione con lo stampatore Giacomo Sarzina, che si fregiava della definizione ufficiale di "stampatore dell'Accademia de gl'Incogniti" e che avrebbe stampato le opere del L., quelle collettive e quelle di altri accademici sino alla morte, avvenuta nel 1641. Le opere degli Accademici Incogniti, tuttavia, furono presenti nei cataloghi di altri stampatori veneziani in quantità tale da far ritenere che in città le principali funzioni editoriali spettassero agli Incogniti e soprattutto al Loredan.
Della sorprendente capacità del L. di aggregare persone e catalizzare interesse intorno al sodalizio è già indice la sapiente politica di dedicatorie della prima opera a stampa, gli Scherzi geniali, editi da Sarzina nel 1632 (parte I) e nel 1634 (II), e destinati a una fortuna editoriale pari soltanto a quella delle Lettere (Lupis, p. 11, ne paragona il successo a quello dell'Adone, inaugurando un parallelismo più volte ricorrente; cfr. anche p. 50).
Gli Scherzi raccolgono e piegano l'intenzione già mariniana, poi realizzata da altri autori, dell'epistola eroica, allontanandosi dal modello ovidiano esclusivamente amoroso e allargando il ventaglio dei personaggi; ne risultano quasi discorsi accademici prestati a figure del passato che in prima persona dimostrano una qualità morale: Cicerone dolente, Xenocrate continente, Frine generosa. Usciti negli stessi anni dei Furori della gioventù di G.B. Manzini e della Scena rettorica di F. Pallavicino (sui quali i biografi rivendicano il primato cronologico datando la composizione del L. agli anni giovanili), gli Scherzi rivelano l'abilità del L. ad annusare le mode letterarie e insieme la tensione verso sperimentazioni e codificazioni di nuovi generi letterari.
Alle controversie inerenti l'Adone e in genere la figura di Giambattista Marino, oltre che a una precoce predisposizione per la narrazione biografica in stile laconico e sentenzioso, va riportata la Vita del cavalier Marino, uscita a Venezia presso Sarzina nel 1633 e onorata della pubblicazione in calce alla Lira mariniana a partire dal 1653. Essa anticipò un analogo scritto, poi mai pubblicato, di G.B. Manso, già protettore di Marino e biografo di T. Tasso oltre che dedicatario di uno degli Scherzi geniali (Lettere, I, p. 58).
Composta senza un supporto documentario di prima mano, la Vita si distingue per la vivacità e la parzialità degli aneddoti sul poeta napoletano: derivati al L. dai racconti di G. Strozzi e F. Belli, essi ritraggono un Marino antispagnolo e filoveneziano, improbabilmente entusiasta delle Rime di Pietro Michiel (p. 37), mai morigerato nei costumi, celebrandone prima ancora che le opere la centralità nel mondo accademico (sono ricordati gli omaggi in vita e in morte degli Umoristi di Roma e degli Oziosi di Napoli) e l'abilità a guadagnarsi stima e pensioni dai potenti, quasi a fungere da modello comportamentale ai letterati (Benzoni, 2001, pp. 12 ss.). Soprattutto, è da notare l'assunzione di Marino entro l'orbita veneziana, a partire dal soggiorno del 1602, in cui egli si presenta recitando un sonetto proprio a Casoni - tramite questi tra la generazione di Marino e quella del L. -, sino al già ricordato elogio al Michiel poco prima della morte, quasi a costituire un fulcro attorno al quale ruotano i fondatori e i principali membri dell'Accademia (cfr. Baldassarri, pp. 223 s., 228).
Si spiega così anche l'attività degli Incogniti, da credersi ben più fervida di quanto sinora noto, entro la polemica sull'Adone. Alle schiere dei filomarinisti, che nel 1629-30 si erano arricchite a Venezia degli scritti di G. Aleandro, si aggregò il L., denigrando senza mai farne il nome T. Stigliani; e si consideri l'invito a scrivere contro il materano rivolto al L. da Andrea Barbazza nelle Strigliate di Robusto Pogommega (pubblicate, con falsi dati di stampa, a Norimberga nel 1619 e a Spira nel 1629, Strigliata III, sonetto Su su, Bruni, Achillino, ai sassi, ai sassi, v. 7), a suggerire forse un coinvolgimento diretto del L. nella stampa, quasi certamente veneziana. Fuor di dubbio è invece la successiva attività di promotore editoriale in favore delle opere filomariniane di A. Aprosio, uscite a Venezia per gli eredi di Sarzina; e un costante interesse per la polemica sull'Adone è dato vedere nelle lettere.
Echi di polemica antistiglianesca sono anche nel Cimiterio (centuria II, 4-5, 41), raccolta di epitaffi giocosi in prima persona scritta insieme con Pietro Michiel (autore anche di un'ode in calce alla Vita del Marino e dell'epistola eroica Idraspe a Dianea in calce al romanzo). La prima centuria, uscita nel 1634 in un'edizione tascabile e assai nascosta, si accrebbe di altre due (attribuite al pittore Giovanni Antonio Maria Vassalli, ma ristampate tra le opere del L., cfr. Menegatti, pp. 105-111) intorno al 1645 e di una quarta del solo L. nel 1653.
Gli epitaffi, in quartine di endecasillabi a rima chiusa, accostano a soggetti giocosi e satirici squarci su personaggi storici mitologici o letterari e aperture pericolose alla contemporaneità (II, 63: Wallenstein morto "non so dir se tradito, o traditore: / perché nuoce anco a i morti il dir il vero").
La varietà delle prime opere rende testimonianza dell'inclinazione del L. per la sperimentazione delle più diverse forme letterarie, documentata negli stessi anni (1633) dai Sensi di devozione sovra i sette salmi della penitenza di Davide, divagazioni sul testo sacro in forma di preghiere rivolte a Dio da un "cuore invecchiato nelle brutture del peccato" (Opere, III, 1653, p. 335). L'operetta devozionale fu a lungo considerata un tardivo atto di pentimento seguito al matrimonio (1638) o alla morte dell'amico Michiel (1651), ma la data alta della princeps consente di rilevarne il carattere tutto letterario. Degli stessi anni le traduzioni (stampate a Venezia) del Quadragesimale, parte I, e del Santuario, parte II, del carmelitano Cristóbal de Avendaño (1634-35), e del Quaresimale di Diego Niseno, p. II (1636), confermano tale varietà d'interessi e d'iniziative editoriali, forse alla ricerca di una maschera d'ortodossia.
Preceduto di pochi mesi da una Lettera di ragguaglio della battaglia seguita tra 'l re di Svezia e 'l general Volestain (Venezia, 1633, poi in Lettere, I, pp. 133-139), comparve nel 1634 a Venezia, sotto lo pseudonimo assai trasparente di Gneo Falcidio Donaloro, il resoconto in forma epistolare della Ribellione e morte del Volestain, che costò al L. un richiamo degli inquisitori di Stato (Menegatti, pp. 121 s.) per l'inopportunità di tale pubblicazione mentre deteneva la carica di savio agli Ordini.
Le vicende del condottiero protestante, oggetto dell'interesse di altri storici veneti (e antiasburgici) quali G. Gualdo Priorato, sono narrate senza celare né una grande ammirazione per Wallenstein né un'interpretazione tutta politica, in termini di eccessiva ambizione da parte del generale e all'inverso di eccessiva delega di potere da parte dell'imperatore: largamente disattese le questioni religiose. All'operetta, lodata in termini non generici da C. Achillini (Marino, Epistolario, II, p. 196), risale il primo intervento del L. nel dibattito contemporaneo sulla narrazione storica, destinato a riverberarsi anche sulla narrativa d'invenzione, con lo schieramento del L. tra gli storici che ripudiano una "simplice narrazione" preferendole l'impegno interpretativo in forma vuoi di massime politiche vuoi di sfilze di ipotetiche, a proporre un ventaglio di opzioni che diviene il sistema stesso dell'analisi politica.
Del 1635 è la nomina a tesoriere della fortezza di Palmanova, nel Friuli, dove il L. si recò accompagnato da Sarzina (Aprosio, 1993, p. 339) e donde ritenne senza fatica le redini dell'Accademia, proprio nello stesso anno impegnata nella prima opera collettiva, i Discorsi accademici dei signori Incogniti, dedicata al Loredan. Tornato a Venezia, l'8 giugno 1638 sposò Laura di Giovanni Valier, dalla quale ebbe Antonio (I) nel 1641, Antonio (II) detto Alberto nel 1644, Ottavio nel 1648, Lorenzo nel 1649 ed Elena, andata in sposa a Pietro Correr nel 1664.
All'incarico di tesoriere allude il libro III della Dianea (Venezia 1635), romanzo di grandissimo successo esemplato sull'Argenis di J. Barclay, tradotta nel 1629 dal futuro Incognito F. Pona.
Nel genere del romanzo decisivo fu il ruolo degli Incogniti, impegnati non solo nella produzione originale ma anche in un'opera rilevante di traduzione dei romanzi di altre nazioni europee: alle versioni di M. Bisaccioni e G. Brusoni vanno aggiunte proprio quelle del L., da J.-P. Camus (Istoria catalana, 1641) e da Jean Le Maire (Prasimene, 1654-56). Proprio nell'ambito della narrativa si colloca una cospicua porzione dell'impegno del L. presso gli stampatori e in genere una ricerca di contatti e di testi risalente già ai primissimi tempi dell'Accademia (Armanni, p. 535).
Nei quattro libri della Dianea, di cui il L. aveva disegnato un seguito, l'Erisandra, mai venuto alla luce, sono dispiegati i più comuni e ricchi espedienti del romanzo secentesco: dall'inserimento nel narrato di lettere o di immaginate concioni, alla discussione sentenziosa o precipuamente politico-morale; dall'ampio passaggio allusivo alla contemporaneità o autobiografico, all'impiego di tecniche narrative proprie del riscoperto romanzo alessandrino (la tempesta, il naufragio il travestimento, il racconto secondo, lo scambio e il ritrovamento di persone credute morte). La scelta del romanzo a chiave (cfr. Ch. Gryphius, Apparatus, seu Dissertatio isagogica de scriptoribus historiam saeculi XVII illustrantibus, Lipsiae 1710, p. 166) rivela la costante attenzione del L., anche in generi apparentemente d'evasione, per le vicende della guerra dei Trent'anni (ricompare nel romanzo Wallenstein, col nome di Lovastine) e per la propria appartenenza territoriale e politica: violenta, pur se espressione di un antipapismo sostanzialmente integrato nel clima ufficiale della Venezia secentesca, è nel libro III la condanna della Roma papale.
L'impegno in campo narrativo proseguì con due opere di simile impianto ma di differente motivazione: la Vita di Alessandro III (Venezia 1637) e il romanzo biblico L'Adamo (ibid. 1640).
La prima cede apparentemente al richiamo degli inquisitori di Stato, applicando l'indagine storico-politica a un personaggio del passato secondo la convinzione che è bene evitare l'inaggirabile dialettica tra adulazione e maldicenza cui soccombe ogni storico della contemporaneità. In realtà la Vita include una lode a Venezia per l'aiuto offerto al pontefice contro Federico Barbarossa, in linea con le proteste venete contro Urbano VIII che aveva modificato l'iscrizione vaticana in lode di Alessandro III (pp. 128-130; proprio nel 1637 vigeva l'interruzione dei rapporti diplomatici tra Venezia e la S. Sede a causa di questa vicenda), talché essa risulta "tutta intessuta di frecciate anticlericali" (F. Croce, p. 536) e precisamente antibarberiniane ("un prencipe pio, e capo della Chiesa non deve parlar d'altro, che di pace", p. 62).
La seconda opera si inserisce invece in un panorama assai costipato: seguito in alcune edizioni dall'Eva di Federico Malipiero, l'Adamo fu occasione di confronto per l'omonimo romanzo di F. Pona (1651); e va avvicinato ai romanzi biblici di V. Malvezzi, di G.B. e L. Manzini, di F. Pallavicino soprattutto. Di quest'ultimo è allegata all'Adamo un'importante corrispondenza con T. Tomasi sull'opportunità di adoperare un canovaccio preso dalle Sacre Scritture come fondamento di una narrazione analitica e sentenziosa, a confermare la presa di posizione degli Incogniti entro la polemica, arricchitasi nel frattempo dell'Arte istorica di A. Mascardi, sul rapporto tra storia e narrazione. Nell'Adamo, tradotto in tutta Europa, il procedimento dilemmatico già riscontrato nel Volestain e nelle altre opere narrative sommerge e dilata lo scarno filo narrativo, con esiti ai limiti dell'eterodossia ma anche abili nel rileggere la vicenda del primo uomo alla luce dell'etica e della politica secentesche, senza però giungere all'intensità spirituale e alla forza ideologica di coeve rivisitazioni del mito adamitico.
In anni prossimi all'incarico di Palmanova A. Lupis colloca la pubblicazione delle Bizzarrie accademiche, pur se le ricerche bibliografiche fermano la prima parte al 1638 e la seconda al 1646 (entrambe stampate a Venezia). I testi in esse contenuti costituiscono la testimonianza più cospicua del contributo del L. all'Accademia degli Incogniti e alle altre accademie cui fu ascritto (attestata l'ascrizione agli Svogliati di Firenze il 19 giugno 1637): è plausibile, e risulta avvalorato dalla dedicatoria di Sarzina nella princeps (c. π3r), che la loro redazione preceda anche di molto tempo la stampa.
Ai quesiti di natura amorosa, mitologica ed erudita (inseriti questi soprattutto nella parte II) si aggiungono problemi propriamente bizzarri, al confine con l'elogio paradossale, difesi con dovizia d'erudizione sacra e profana. Ai pochi quesiti di ordine morale e civile se ne sommano alcuni inerenti agli usi, alle leggi, alla vita dell'Accademia, dai quali è possibile ricostruire alcune alternanze di cariche e i convincimenti alla base dell'istituzione stessa (ragguardevole, a esempio, il quesito Qual cosa pregiudichi maggiormente alla conservazione delle Accademie, parte I, pp. 125-128, in cui si instaura un parallelo tra l'Accademia e la Repubblica).
Su questa falsariga, rafforza l'impressione di un gruppo assai coeso la ricorrenza degli stessi nomi che segneranno la fama degli Incogniti anche in altre accolite veneziane, tra cui va ricordata l'Accademia degli Unisoni riunita in casa di G. Strozzi, cui il L. prese parte insieme con A. Rocco, F. Pallavicino, P. Vendramin e altri sul finire del 1637 (interventi del L. nelle ufficiali Veglie de' signori Unisoni, Sarzina, 1638, I, pp. 25-29; II, pp. 56-63; III, pp. 54-56, e nelle anonime Satire contro gli Unisoni, in Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., cl. X, 115 [=7193], per cui cfr. anche Genova, Biblioteca universitaria, Mss., E.VIII.17: Lettera dell'Incognito, Venezia 21 dic. 1637; e Aprosio, Biblioteca Aprosiana parte seconda, p. 459).
Le Bizzarrie si presentano come collettore nel corso degli anni di componimenti dalla fisionomia non netta o troppo brevi per meritare un'edizione individuale. Alla prima parte vennero allegate dal 1642 le vite di Marino e Wallenstein, mentre alla seconda parte si unirono sin dalla princeps i Ragguagli di Parnaso e Gli amori infelici, che non ebbero, per quanto si sa, edizione indipendente. Questi ultimi, con il sottotitolo di Narrazione favolosa, riscrivono in prosa l'episodio ovidiano di Piramo e Tisbe. L'allusione ovvia all'idillio VIII della Sampogna mariniana rende evidente, per contrasto, la lettura "moralizzante" del L. in chiave di dissidio tra sentimento e autorità familiare. Edizione autonoma (Venezia 1637), ma senza indicazione di autore, ebbe invece la Contesa delle tre dee, riscrittura dell'episodio del giudizio di Paride allusiva al canto II dell'Adone.
Nelle Bizzarrie e soprattutto nei Ragguagli di Parnaso tornano a dichiararsi la conoscenza e l'apprezzamento dell'opera di Marino. Nel ragguaglio Apollo libera il cavalier Marino accusato di furto l'argomento già mariniano dell'abilità nel "furto" poetico viene a scusare alcuni plagi del napoletano da Lope de Vega (Opere, II, 1649, parte II, pp. 586-588; cfr. Mancini, 1981, p. 40). Altro discorso richiede il ragguaglio Aprosio Vintimiglia accusato di mandatario viene assolto da Apollo (ibid., pp. 603-608), in cui l'agostiniano è finto mandante di un attentato contro Stigliani e in cui senza troppo riguardo per l'amico (in favore delle cui opere, come detto, il L. si era mosso presso gli stampatori) il L., per voce di Marino, taccia gli scritti aprosiani di solerzia non richiesta. Il ragguaglio incrinò i rapporti tra il L. e Aprosio, il quale promosse la stampa romana di una lettera denigratoria da lui scritta a Francesco Maria Gigante; il L., dal canto suo, respinse ogni accusa, non senza vantare una personale amicizia con Stigliani (sul ruolo del L. nel boicottaggio di edizioni stiglianesche cfr. una lettera di Stigliani stesso in Marino, Epistolario, II, pp. 326-332, e lettera del L. del 25 ott. 1659). Da notare anche un ragguaglio sull'eccessiva prolificità di F. Pallavicino, rimproverato da P. Bembo. Più che all'illustre modello boccaliniano, pure esplicitamente richiamato, l'incursione del L. nella forma dei ragguagli sarà da avvicinare a quella più spiccia di autori quali Brusoni e A. Santacroce.
Entro gli estremi cronologici delle due parti delle Bizzarrie si collocano la nomina nel dicembre 1640 a provveditore sopra Banchi e quella nel marzo 1642 a provveditore alle Pompe. Negli stessi anni l'attività accademica si concretizza in alcune iniziative editoriali di grande rilievo. Nel 1643 vide la luce a Venezia per Sarzina, "ad instanza dell'Accademia", la raccolta delle Opere del L., notevole per l'inserimento in limine delle Lettere sopra l'opere del Loredan dello scrittore politico Valeriano Castiglione, pubblicate l'anno prima in edizione indipendente, e dell'Indice de' letterati che con le stampe hanno nominato l'autore, destinato a ricomparire, esponenzialmente accresciuto, nei successivi opera omnia (ibid. 1649, 1653, 1667). Nel 1641 ebbe inizio, sempre per Sarzina, l'impresa delle Novelle amorose degl'Incogniti, destinata a confluire nelle poderose Cento novelle amorose del 1651 (entro le quali sei novelle del L.), affidata prima a F. Carmeni e poi a M. Bisaccioni, che costituisce il più importante lascito dell'Accademia oltre che un'ennesima prova dell'abilità di organizzatore di cultura del Loredan. Nella raccolta, l'omologia non tanto di stili e di impianto narrativo quanto di temi e di costumi accentua l'impressione di un'etica di gruppo ai limiti della settarietà.
Le due parti della raccolta d'autore (all'Indice nel 1683; Novelle amorose, parte I, 1643: 7 novelle; parte I, 1651: 9 novelle; p. II, 1661, postuma: 15 novelle) ripropongono tratti e motivi della silloge Incognita. Equamente spartite tra storie tragiche e finali di commedia, le novelle rivelano una predilezione per la concentrazione arguta costruita giovandosi di moduli narrativi tipici, quali l'inserimento di lettere (I, 5, ove l'occasione del movimento narrativo è una falsa omologia calligrafica) o lo scambio di persona. La ricerca dello scioglimento sorprendente o anche solo della notazione curiosa (I, 9) mira a ritrarre la mutevolezza delle sorti umane; compatta è la difesa della sensualità (ancora I, 5, contro la vendetta d'onore e la gelosia; e II, 14: "egli colse quel frutto amoroso che per ordinario viene concesso dalle donne con piacere uguale alla contradizione").
Nelle Opere, secondo una suddivisione più coerente con i generi letterari e curata dall'autore stesso, alle Bizzarrie seguono i Sei dubbi amorosi trattati accademicamente, quesiti accademici di natura amorosa scritti in risposta alle istanze di una "dama incognita" (o Incognita, posto che all'Accademia prendevano parte, mascherate, anche le donne). Usciti per la prima volta nel 1647 con un seguito di Letteree composizioni di diversi cui si unirono più tardi i sonetti L'Edipo di M. Golzio, i Dubbi vennero notati per la dissacrante antiporta che traspone all'erotico il motivo dell'"Ignoto Deo", oggetto della ricordata corrispondenza tra Aprosio e F.M. Gigante (Menegatti, pp. 211-213).
Pure nel 1647 uscirono le Glorie de gl'Incogniti, promesse già da Sarzina nei Discorsi, nelle quali si trovano le biografie e i ritratti degli accademici attivi o ascritti ad honorem (vi è inclusa, a esempio, una biografia del Marino). Delle Glorie, per le quali si giovò dell'aiuto del segretario dell'Accademia A. Fusconi e soprattutto di Brusoni, il L. fu promotore e organizzatore già dai primissimi anni Quaranta (cfr. Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat., 1626: Lettere a Paganino Gaudenzio; Aprosio, lettera del 7 dic. 1641, c. 86), oltre che in buona parte estensore (Bonifacio, Musarum libri, p. 295 n. 7). Egli richiese la collaborazione dei membri, che dovettero inviare le notizie necessarie (prassi comune all'epoca, tanto da rendere secondario, per l'opera, il concetto di autore) o far da tramite per nuove ascrizioni (Aprosio richiese un ritratto a Paganino Gaudenzio, altro difensore di Marino, che però non lo inviò). B. Bonifacio compose i distici latini che accompagnano ogni ritratto, dati alle stampe con lieve anticipo nel VII libro (Nomenclator academicus, pp. 272-304) delle sue Musae.
Quasi controcanto al magnifico volume celebrativo, nei primi mesi del 1648 gli Incogniti assistettero al processo indetto dal S. Uffizio contro Francesco Valvasense, divenuto tipografo ufficiale dell'Accademia dopo Sarzina e stampatore delle Glorie. Scatenato dalla detenzione da parte di un altro libraio, Giacomo Batti, di libri proibiti (tra cui le opere di Pallavicino, Pona e l'Adone di Marino) e dal sospetto (fondato) che Valvasense avesse stampato il libello Che le donne non siano della specie degli uomini, discorso piacevole tradotto da Horatio Plata romano (Lione 1647: traduzione della Disputatio periucunda attribuita a Valens Acidalius e circolante già dal 1595), il processo (cfr. Infelise, 2002, pp. 40-45) riferisce di un coinvolgimento diretto e in più direzioni del Loredan. Chiamato in causa da vari testimoni poi fuggiti o fatti fuggire da Venezia, egli non comparve mai a testimoniare ma intrattenne rapporti personali ed economici con vari testimoni a discarico. Il ruolo di burattinaio del L. nel processo, tanto importante da far supporre a E. Zanette che proprio nel L. vada identificato il traduttore (certo è che egli vendette il libello, e con lucro, in casa propria), conferma il suo eccezionale potere nel mondo editoriale veneziano e la sua abilità nel coprire con la propria posizione politica e sociale compromissioni anche gravi con il mondo dell'editoria clandestina e con autori assai scomodi.
Alle polemiche misogine il L. aveva già preso parte anni prima, con un ruolo ambivalente: procurata l'edizione della Satira contro il lusso donnesco di Francesco Buoninsegni, cui nel 1644 aveva risposto Arcangela Tarabotti, autrice pure di una confutazione della Disputatio (Che le donne siano della spetie degli uomini, Venezia 1651), il L. intrattenne strettissimi rapporti con la monaca benedettina, risultandone il dedicatario delle Lettere nel 1650, dopo averla sostenuta contro gli attacchi della Maschera scoperta di Aprosio, di cui fu impedita la pubblicazione (parte dell'opera confluì nello Scudo di Rinaldo, 1646). Negli anni Trenta e Quaranta, inoltre, il L. aveva protetto, quasi facendone un proprio segretario personale, Ferrante Pallavicino, curando la pubblicazione di sue opere poi finite all'Indice (e del Divorzio celeste, falsamente attribuito a Pallavicino) e adoperandosi vanamente, come del resto altri patrizi e le istituzioni della Repubblica, per la sua incolumità durante la persecuzione scatenata contro di lui dai Barberini e dal nunzio pontificio a Venezia Francesco Vitelli, e culminata nella decapitazione ad Avignone nel 1644. Al L. sono tradizionalmente attribuite, ma come per il libello di Plata senza certi fondamenti documentari né contiguità stilistiche, le prime due vigilie dell'Anima di Ferrante Pallavicino, uscite con dati di stampa falsi e indubbiamente d'ambito Incognito (la prima fu menzionata nel processo come stampata da Valvasense nel 1645).
Nel dialogo tra l'Anima ed "Henrico" (come il Giblet dello pseudonimo del L., cfr. infra) viene ripercorsa la tragica vicenda, non senza reiterare (fondandoli però in un terreno marcatamente libertino, nell'accezione più forte) gli attacchi violenti alla corte papale; vengono inoltre ricordate le novità librarie e pronunciati giudizi sugli autori più noti (da notare le coincidenze tra la Vigilia seconda e i libri citati nel carteggio tra il L. e Aprosio). L'amicizia per Ferrante, certe contiguità di contenuti antipapali, l'eterodossia marcata di alcuni membri dell'Accademia, l'operato del L. in materia di libri clandestini e, non ultima, la sua condotta morale (fu notorio seduttore di monache), sono il fondamento della qualifica di libertino a lui attribuita dal dibattito critico dopo le pagine di G. Spini; tale qualifica ha spesso ostato alla corretta interpretazione di posizioni politiche del L. (quasi sempre incardinate nell'ideologia della Repubblica, sebbene esposte con spavalderia) e che non rispecchia una riflessione specifica in materia di religione.
Negli stessi anni il L. ricoprì cariche pubbliche di peso sempre maggiore. Nel 1652 e nel 1653 provveditore alle Biave, nel 1654 presidente sopra la Tansa delle case per il sestiere di Castello e sopraprovveditore alla Giustizia nova, entrò come membro suppletivo in Consiglio dei dieci a luglio del 1655, essendone uno dei tre capi. Terminato il mandato il 1° ottobre, il 21 dello stesso mese fu eletto sopraprovveditore alle Pompe con il compito di visitare i reggimenti di Terraferma (elezione di cui il L. denunciò l'irregolarità, cfr. Arch. di Stato di Venezia, Misc. civile, 273/13). A gennaio 1656 poté lasciare l'incarico per ricoprire per la terza volta (la prima era stata nel 1648, durante il processo a Valvasense, la seconda nel 1651) la carica di avogador di Comun, che lasciò dopo soli sei mesi per far parte dei Sei consiglieri del doge. A dicembre il Consiglio dei dieci lo nominò inquisitore di Stato in un'elezione suppletiva.
Le vicende del processo, che si concluse con l'abiura di Valvasense e più tardi con la chiusura del torchio dal 1651 al 1655, non arrestarono le manovre del L. in materia di libri per nulla ortodossi ("si dilettava sommamente di leggere libri proibiti", Lupis, p. 58). Nel 1651 procurò la stampa dell'Alcibiade fanciullo a scola, opera di A. Rocco uscita anonima con falsi dati di stampa (Neri, pp. 219-227), ove nella figura di un precettore si loda l'omosessualità. È indubbio, però, che a far data dal 1647 e poi dalle vicende giudiziarie di Valvasense la più esposta e delicata posizione del L. nella politica e il sospetto caduto su di lui dovettero ispirargli nuova prudenza: in questa prospettiva appare significativo che delle opere nuove uscite a partire dal 1647 soltanto quelle devote sono firmate in piena responsabilità.
Anonime, ma con trasparenti allusioni al L. nella prefazione scritta da un misterioso "Henrico Giblet" (pseudonimo del L. occasionato dal cognome dell'assassino di Pietro Lusignano, Carion Giblet, e mantenuto negli anni a venire) uscirono le Istorie de' re Lusignani, in undici libri. L'edizione, che porta nel frontespizio l'indicazione "Bologna, Iacopo Monti, 1647", uscì in realtà nello stesso anno dai torchi di Valvasense (le notizie sin qui ignote in Aprosio, Biblioteca Aprosiana parte seconda, pp. 460 s.): i falsi dati di stampa, che causarono la reazione "piccata" dell'inquisitore e del revisore di Bologna, intesero aggirare il divieto imposto dagli inquisitori di Stato di Venezia che delle Istorie avevano sospeso l'impressione, iniziata sin dal 1642 presso i Guerigli e giunta a 30 fogli, e requisito il manoscritto per impedire che l'opera apparisse stampata a Venezia e a nome del Loredan.
Composte in rigorosa successione annalistica "per corrispondere alla munificenza della patria" (Brunacci, p. 280), le Istorie narrano le vicende della dinastia che regnò su Cipro sino al 1475 (ma il progetto del 1642 intendeva giungere sino al 1630), sulla scorta delle fonti antiche (cfr. pure Marino, Adone, XV, 219-224) ma con passaggi antigenovesi (cfr. M. Giustiniani, Lettere memorabili, Roma 1667, parte I, lettera CXIII, pp. 357-368). Nel risultato severo e farraginoso è dato di cogliere i tratti consueti della scrittura del L., nell'impostazione come nello stile: concioni e lettere fittizie riassumono lo spazio concesso all'invenzione, sentenze e notazioni di valore universale, pur assai più rare del solito, commentano laconicamente i fatti storici.
Proprio ai giorni del processo (16 giugno 1648) risale la dedicatoria della Vita di s. Giovanni vescovo traguriense (Venezia 1648), agiografia che sin dall'introduzione al lettore misura le distanze dall'Adamo e dalla polemica sul romanzo sacro di otto anni prima.
La Vita, nata per istanza di Domenico Andreis (committente anche del dramma Il s. Giovanni vescovo di Traù pubblicato da Brusoni nel 1656) si impernia sui manoscritti offerti dal committente con l'ausilio di una fonte medievale senza alcuna movimentazione narrativa: "il giuocar d'invenzione ne' negozii de' santi l'ho creduto di poco frutto, e di molto pericolo", come lucidamente dichiara lo stesso L. nelle prime pagine.
Le stampe attesero altri tre anni una nuova opera: nel 1651, l'anno che vide la chiusura del torchio di Valvasense, uscirono a Venezia i Gradi dell'anima. Parafrase sovra li Salmi graduali di Davide (Guerigli), dedicati "alla Sacratissima Vergine Regina del Cielo", con i quali il L. volle forse confermare la sua sterzata verso un nuovo rigore. Ma non è certo sostenibile alcuna conversione, tanto più che nello stesso 1651 egli inviò ad Aprosio il citato Alcibiade di Rocco; e del resto anche le opere d'ispirazione devota possono essere lette (come già i passati Sensi di devozione) nella luce di una volontà di presenza attiva in tutti i generi letterari praticati all'epoca.
A confermarlo giunge nel 1653 la pubblicazione (a Venezia, con indicazione d'autore, ma la stampa figura procurata da Giblet) dell'Iliade giocosa, rimasta incompiuta (6 libri; il seguito, secondo Giblet in abbozzo, non fu mai pubblicato), che si inserisce nella tradizione già percorsa anni prima da G.B. Lalli con l'Eneide travestita (1632).
Impallidito e amaro risulta il riferimento alla polemica suscitata dal travestimento di Lalli. All'Iliade è premessa una lettera del L. a Giblet in cui l'autore prende le distanze dalla "tradozione […] tutta piena di freddure" con la quale alcuni credono ch'egli "abbia profanato l'Iliade col rappresentarla bernescamente": ma la lettera viene sconfessata da Giblet, cioè dal L. stesso, che nella prefazione ribadisce come si possa "guadagnare scherzando l'immortalità" e sdogana "quel gioco, che senza l'empio e l'osceno sembra impossibile nella corruzione del nostro secolo" (pp. 6, 8).
"Nella brevità" delle Lettere il L. "si rese più grato di Seneca", scrive Brunacci: passato nella tradizione come autore laconico, e anzi come capofila di quella scuola stilistica, il L. riunì in due fortunatissimi volumi, stampati a Venezia, le sue missive (I, 1653; II, 1661; il III, ibid., postumo, 1665: il curatore adopera lo pseudonimo del L. Henrico Giblet).
Le lettere colpiscono per l'eccezionale ampiezza dei contatti avviati dall'autore, che le rende un supporto imprescindibile per la storia letteraria dei decenni centrali del secolo. Il L. ne emerge nella veste di organizzatore di cultura, di protettore e mecenate e soprattutto di "vero e proprio controllore dell'editoria veneziana degli anni '30 e '40" (Infelise, Ex ignoto notus, p. 221). A lui quale procuratore di licenze di stampa, di dedicatario, di intercessore presso grandi e piccoli stampatori rinviano una moltitudine di missive dirette ai maggiori letterati del secolo, dentro e fuori Venezia. Dalle lettere si ricava la natura, mai occasionale, delle relazioni tra il L. e ambienti culturali anche lontani, nella geografia e nella storia (Roma, nelle lettere a G. Ciampoli e ad A. Bruni; Bologna, in quelle a V. Malvezzi e ai fratelli Manzini), e si traggono notizie insostituibili su vicende editoriali e letterarie altrimenti poco note (quelle della Tarabotti e del Pallavicino, una risposta di G.B. Manzini ad A. Furetière).
I due volumi, tuttavia, non vanno esenti da tagli e riscritture dettati da opportunità o da prudenza, visibili nei pochissimi casi in cui è possibile un confronto con i documenti autografi. Tra questi di grande interesse le lettere all'Aprosio (Genova, Biblioteca universitaria, Mss., E.V.19; cfr. l'edizione curata da Bruzzone, 1994-95), che coprono l'arco cronologico 1637-1659 e che consentono la ricostruzione di questioni anche di importanza: dall'edizione della Rete di Vulcano di Pallavicino all'identificazione dell'autore del già ricordato Alcibiade; dalla cooptazione di scrittori per le Cento novelle alla circolazione di libri proibiti e di libelli antigesuitici. Il rapporto tra il L. e Aprosio è peculiare non soltanto per i contenuti specifici, ma anche per il ruolo che i due assumono nella storia culturale secentesca quali eredi diretti della querelle mariniana dopo l'esaurimento della generazione di Bruni e Achillini, e quali poli, diversamente attivi, della circolazione libraria anche clandestina.
Entro le Lettere trova luogo un manipolo di missive di ragguaglio sulle imprese veneziane contro il Turco e l'Istoria dei re di Portogallo, distribuita in tredici lettere a Ottaviano Valier (I, pp. 463-489; II, pp. 428-453).
Ai primi di agosto 1657, con due mesi d'anticipo sulla scadenza dei mandati, il L. fu sostituito nelle cariche di consigliere e di inquisitore di Stato. Nello stesso anno votò in Maggior Consiglio per la riammissione a Venezia dei gesuiti, posizione maggioritaria nel patriziato veneziano (per via delle difficoltà della Serenissima nella guerra di Candia), ma forse inattesa nel Loredan. A ogni modo, dal 1657 egli subì non tanto un declino, quanto una vera e propria eliminazione politica. Inattivo sino al luglio 1658, quando dovette accontentarsi di una nomina a sopraprovveditore de respetto (cioè supplente) alla Giustizia nova, scelse nel 1659 di ritornare all'Avogaria. Sei giorni dopo la nomina, però, venne eletto come provveditore e capitano alla fortezza di Legnago: carica non soltanto umiliante per un patrizio con il suo curriculum, ma lontana da Venezia. Il L. riuscì a evitare la revoca della stola avogaresca denunciando l'irregolarità dell'elezione, che fu "tagliata". Ma dopo appena tre giorni dalla scadenza del mandato di avogador, il 29 ag. 1660, fu eletto alla carica, parimenti umiliante, di provveditore a Peschiera, ove si recò, accompagnato dal primogenito Antonio, il 1° marzo 1661. La nomina segnava di fatto l'esilio del L., il cui animo, frustrato e agitato da preoccupazioni economiche e giuridiche, è ritratto nelle missive, tutte spedite da Peschiera, del terzo volume delle Lettere. Nel breve periodo della sua "libera prigionia", il L. attese alla prosecuzione di cause giudiziarie forse legate alla sua disgrazia politica; il suo potere nel mondo editoriale si indebolì, ma non scomparve: da Peschiera egli gestì licenze di stampa (tra cui quella della Sofonisba del futuro biografo Gaudenzio Brunacci) con Valvasense, Baglioni, Guerigli, ricevette e spedì libri, offrì protezione e pareri di lettura, scrisse e inviò sonetti d'occasione (tra i quali notevole Qui non fa l'innocenza illustri marche, violentissimo quanto enigmatico atto d'accusa contro i colpevoli del suo esilio). Quel potere servì spesso a barattare favori d'ordine privato (un libro di probabile successo di Lupis, altro futuro biografo, venne promesso a Baglioni e tolto a Curti in cambio della dote per una figlia del defunto sodale Michiel), a rafforzare l'impressione, consolidata dalla lunga fedeltà che serbarono al L. dopo la morte i letterati da lui protetti, che l'Accademia e in genere la cerchia del L. si nutrissero di uno spirito di solidarietà e di mutua protezione ben più sotterraneo non solo dell'esibita comunione di interessi culturali ma forse anche degli smaccati legami clientelari.
Il L. morì a Peschiera, sul lago di Garda, il 13 ag. 1661.
Nelle edizioni veneziane del terzo volume delle Lettere è inserita una raccolta di poesie liriche dal titolo Respiri poetici sulla cui autenticità è lecito avanzare più di un dubbio (includono un sonetto Sopra il mostro ritrovato in Ispagna l'anno 1664, p. 9). Tra i componimenti vanno segnalati alcuni sonetti in veneziano, il sonetto licenzioso Con strambissima iperbole i poeti (p. 19) e una sezione autonoma di otto canzonette per musica.
Altre due opere postume sono la seconda parte delle Novelle amorose (Venezia 1661, con licenza del 26 settembre) e la tragicommedia La forza d'amore (ibid. 1662), uscite per le cure del primogenito Antonio (a sua volta letterato non disprezzabile: pubblicò un commento a Tacito nel 1672 e un volume di Primi studi, ibid. 1656). Unica prova del L. in campo teatrale, la Forza d'amore avvicina il tradizionale modello amoroso al gusto romanzesco per l'intrigo politico, mettendo in scena, sotto l'egida della Fortuna (cui è affidato il prologo), le vicende dinastiche della regina d'Armenia.
A breve distanza dalla morte, a compensare l'assenza di fastose celebrazioni accademiche, ormai sconsigliate dall'ombra che aveva avvolto il letterato e l'uomo politico, videro la luce due differenti biografie del L.: la prima, del Brunacci (ibid. 1662, con dedica a Filippo Molin del 1° sett. 1661), è scritta in stile laconico e arricchita da considerazioni sentenziose, sul modello delle Vite composte dallo stesso L., alla cui biografia mariniana rinviano quasi alla lettera le pagine iniziali; la seconda (Valvasense 1663), di ancor più marcato impianto apologetico, è opera di Lupis, protetto del L. e romanziere di qualche importanza.
Difficile circoscrivere la grandissima fama riscossa dal L. in Italia e all'estero. Al già menzionato Indice de' letterati che con le stampe hanno nominato l'autore fa riscontro una messe di testimonianze provenienti da tutta l'Europa tra cui le innumerevoli traduzioni in spagnolo, portoghese, francese, inglese, tedesco, polacco, spesso approntate da autori di fama pure corrispondenti del L. e da credersi ben più numerose di quelle censite (cfr. Madrid, Real Academia de la historia, Mss., 9/2382, trad. inedita dell'Adamo; Ibid., Biblioteca nacional, Mss., X.47 [=8601], trad. della Vita del Marino). Per la bibliografia del L., cfr. T. Menegatti, "Ex ignoto notus". Bibliografia delle opere a stampa del principe degli Incogniti: Giovan Francesco Loredano, Padova 2000.
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Bonifacio); Genova, Biblioteca Durazzo, Mss., A.III.4.7: A. Aprosio, Biblioteca aprosiana, parte seconda (I red.), pp. 457-462; A. Collurafi, Lettere, Venezia 1627, ad ind.; Id., Lettere, parte seconda, ibid. 1628, ad ind.; G. Casoni, Oda per l'Academia de gl'Incogniti, Venezia 1632; F. Belli, Nella rinovazione dell'Accademia de gl'Incogniti. Canzone, Venezia 1632; Accademico Eteroclito [Francesco Maidalchino], Il Loredano. Panegirico, Venezia 1634; F. Pallavicino, Scherzo epitalamico nelle nozze dell'ill.mo sig. G.F. L. e dell'ill.ma sig.ra L. Valliera, s.n.t. [ma Venezia 1638]; G. Ghilini, Teatro d'uomini letterati, Milano s.d. [1638-39], pp. 202-204; Saprico Saprici [A. Aprosio], La sferza poetica, Venezia 1543 [1643], pp. 44-47; B. Bonifacio, Musarum libri X (pars prima), Venezia 1646, passim; Le glorie de gl'Incogniti, Venezia 1647, pp. 244-247; A. Santacroce, La secretaria d'Apollo, Venezia 1654, passim; D. 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