CARACCIOLO, Giovan Francesco
Nacque a Napoli da Colantonio, detto lo Sfresato, e Loisella di Ricciardo Aldemoresco negli anni tra il 1435 e il 1440 (C. Minieri-Riccio, Biografie..., p. 310, congettura, in modo non del tutto convincente, il 1437).
Nulla sappiamo degli avvenimenti della prima giovinezza del C., se si eccettua la morte della madre avvenuta nel 1450. Il padre contrasse seconde nozze con Maria di Pippo Caracciolo da cui ebbe, fra gli altri, Galeazzo, fondatore della casata dei marchesi di Vico.
Ai discendenti della nobiltà "sedile", priva dell'indipendenza politica ed economica dei baroni, e, per radicati pregiudizi feudali, ostile all'esercizio del commercio, in pratica si apriva, come unica strada, la carriera di funzionario statale. È, questa la condizione tipica degli intellettuali coetanei del C. e anche della generazione successiva. Dalla biografia del C., invece, emerge come tratto peculiare un certo isolamento dalla vita politica e amministrativa della città. Egli, infatti, non solo non sembra avere ricoperto incarichi pubblici, ma, sicuramente, neppure cariche minori tradizionali della sua famiglia come il governatorato dell'Annunziata, che era stato del nonno, del padre e che nel 1510 sarà di Galeazzo.
La prima notizia sicura risale al 21 sett. 1461, quando il C., alla presenza del notaio Pietro Ferrillo, promette di accompagnare il padre in Sicilia e di non allontanarsi dall'isola senza la sua autorizzazione. Dal documento (riportato nel ms. della Soc. napol. di storia patria, XX. D. 44: Antonij Afeltri quae extant Notamenta..., cc. 76v-77r) non si ricavano i motivi, nascosti sotto un vago "ex certis causis", di quello che sembra un intervento punitivo del padre; ignoriamo inoltre se il C. abbia ottemperato alla prescrizione. Nel decennio 1460-70 - probabilmente nella prima metà - contrasse matrimonio con una certa Carmosina di Pirro di Rao, da cui ebbe sette figli, fra i quali merita una speciale considerazione Pietro Antonio, autore di farse e di commedie. Nel 1485 venne a lite con Galeazzo per dissensi sulla divisione dell'eredità paterna. Il C. impugnò il testamento reclamando, oltre alla Rocca di Mondragone (di sua proprietà fin dal 1481, come risulta dalla "Reintegratio pheudorum" pubblicata da E. Percopo nella Vita diI. Sannazaro, a cura di G. Brognoligo, in Arch. stor. per le prov. napol., n.s., XVII [1193], p. 184) e al feudo di Zambicani, assegnatigli dal padre, "diversa bona spectantia ipsi Ioanni Francisco ex successione materna" e il feudo di Casanova per diritto di primogenitura (estratti del testamento e degli atti processuali sono pubblicati dal Minieri-Riccio, Biografie..., pp. 311-317; altri estratti si trovano alla Bibl. naz. di Napoli, ms. X.A.Y C. De Lellis, Notizie di diverse famiglie..., cc. 97v-99v). La vertenza si protrasse per due inni, fino a quando i fratelli rimisero la causa nelle mani di Alfonso duca di Calabria, che decretò in favore di Giovan Francesco.
La conquista di Carlo VIII risvegliò nel C. i sentimenti filofrancesi tradizionali nella sua famiglia. Al "liberatore" (come viene definito in un sonetto escluso poi dall'edizione a stampa) vantò l'antica fedeltà dei Caracciolo agli Angioini e lamentò la spoliazione subita da parte di "Alfonso d'Aragona usurpatore e illegittimo detentore" del Regno di Sicilia. In tal modo ottenne, con decreto regio del 12 apr. 1495, la restituzione di alcuni privilegi goduti da Gualtiero (E. O. Mastroianni, Sommario degli atti della Cancelleria di Carlo VIII a Napoli, in Arch. stor. per le prov. napol., XX [1895], p. 63).
Con ogni probabilità, al ritorno degli Aragonesi, quelle dichiarazioni non passarono senza conseguenze; la notizia riportata dal De Lellis (c. 22r) di un prestito in denaro concesso al C. dalla sorella Caterina, monaca nel monastero di Donna Regina, e un'affermazione di povertà nel penultimo sonetto degli Amori inducono a credere che i suoi beni fossero sottoposti a confisca.
L'ultima notizia datata riguardante il C. risale al 28 giugno 1498, giorno in cui egli partecipa all'elezione del governatore dell'ospedale dell'Annunziata (De Lellis, X.A.1, c. 88r). Nell'aprile del 1506, quando esce l'edizione delle rime, il C. era già morto.
È dubbio che il C. sia stato socio del sodalizio pontaniano, anche se con numerosi accademici ebbe strette relazioni di amicizia, a cominciare dallo stesso Pontano, che gli dedica l'endecasillabo I, 27, e, soprattutto, il Sannazaro, che lo ricorda nel XII sonetto delle Rime, lo fa protagonista dell'ecloga X e di lui parla con stima e affetto nella prosa XI dell'Arcadia. Ai circoli di corte, veri animatori della lirica volgare a Napoli, si avvicinò tramite Isabella d'Aragona, nel cui circolo, a differenza di quello del principe Federico, sembrano prevalenti gli interessi umanistici.Le rime del C. uscirono a stampa per i tipi del pavese Antonio de Caneto a Napoli nell'aprile 1506, a cura dell'amico umanista Gerolamo Carbone. Questi premise al testo del C. una epistola di dedica del volume a Prospero Colonna e un sonetto, anch'esso dedicato al Colonna, di Pietro Gravina in morte del poeta. La stampa contiene due canzonieri amorosi: il primo, che porta il titolo Amori de Ioan Francesco Carazolo patrizio neapolitano, consta di 220 componimenti - 202 sonetti, 13 canzoni, 4 sestine e i madrigale -, il secondo, intitolato Sonetti sextine et canzone cento del dicto poeta in laude de li occhi intitulati Argo, annovera 100 sonetti, 4 canzoni, i sestina, 2 madrigali e 1 ballata per un totale di 108 componimenti.
Entrambe le raccolte narrano le vicende dell'amore sfortunato del poeta per una gentildonna napoletana di cui non viene rivelato il nome. Mentre Argo, che già nel titolo dichiara l'influsso dell'impostazione "a soggetto" di Giusto de' Conti, costringe la narrazione entro lo schema obbligato della lode, gli Amori, più aderenti al modello petrarchesco, si distendono in una struttura romanzesca più ampia e articolata, imperniata sulla bipolarità di rime "in vita" e rime "in morte". Complessivamente emerge, come dato saliente, l'estrema compattezza della materia amorosa (in tutto il volume un solo rapidissimo accenno politico - alla congiura dei baroni - alla c. LIIIv) che, per la prima volta in ambito napoletano, rompe con la varietà tematica e l'occasionalità della lirica cortigiana. Questo ed altri indizi (struttura romanzesca, accurata selezione delle forme metriche, rifiuto di sperimentazioni linguistico-stilistiche, ecc.) collocano il C., che dal punto di vista cronologico appartiene alla "vecchia guardia" aragonese, cioè alla generazione del Galeota, del De Jennaro e di Rustico, sulla linea che porta ai risultati del più maturo petrarchismo della seconda generazione.
Una redazione delle rime, anteriore all'edizione a stampa forse di una decina di anni, sino ad ora sfuggita ai ricercatori, si legge nel ms. Barb. lat. 4026 della Bibl. Apost. Vaticana. Il codice riporta, raggruppati in un unico canzoniere senza titolo, ad eccezione di 9 soli, tutti i componimenti presenti nella edizione nota, più 156 componimenti per noi inediti, evidentemente rifiutati dall'autore durante la revisione documentata dalla stampa. A questi vanno aggiunti poi un "Trionfo della Vanità" in 48 terzine e 6 sonetti di argomento morale vergati in un temione aggiunto alla sezione amorosa. Queste sono le uniche tracce superstiti della produzione non amorosa del C., produzione che doveva essere consistente se il Carbone, nella ricordata epistola al Colonna, dichiarava essere sua intenzione dare alle stampe, "appresso [le opere amorose] li satyri et morali in la medesma rima".
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