CAPI (de Capo, Cappo, Cappi, de Cappis), Giovan Francesco (Capino)
Nacque a Mantova intorno al 1490 da Lodovico e da Pica Crema.
Parecchi dei suoi antenati ebbero uffici e cariche nella corte mantovana: il suo omonimo bisavolo fu familiare e commensale di Gianfrancesco Gonzaga; Giovanni, Carlo e Lodovico, padre del C., furono consiglieri del marchese Lodovico.
Ebbe il titolo di cavaliere; si sottoscrisse quasi sempre, anche in atti ufficiali, e fu quasi sempre chiamato Capino de Capo. Fu diplomatico e comandante di milizie: molto abile come negoziatore, non pare sia stato altrettanto valente come capitano. Nel luglio 1518 era a Piacenza e comandava una banda di lanzichenecchi. Ai primi dell'anno seguente, subito dopo la morte dell'imperatore Massimiliano, fu mandato in Germania, probabilmente per raccogliere notizie circa la successione imperiale.
Parlò col vescovo di Trento e con Matteo Lang, vescovo di Gurk e segretario imperiale, quindi andò a Monaco a visitare Guglielmo duca di Baviera che consigliò al marchese di Mantova di cercare accordi con Carlo re di Spagna, giacché costui sarebbe certamente divenuto re dei Romani.
Nel marzo 1521 il C. fu inviato a Venezia per procurare, insieme con l'oratore mantovano G. B. Malatesta, la liberazione del conte Ottaviano da Gambara che era stato arrestato dai Veneziani. Nell'estate dello stesso anno il C. fu di nuovo a Trento per sollecitare la venuta di fanti tedeschi assoldati per la Chiesa, di cui il marchese Federico II era divenuto capitano generale.
Mentre tornava a Mantova fu arrestato dal capitano della Chiusa; poi, avendo mostrato una patente del maestro delle poste imperiali che lo dichiarava suo corriere, fu lasciato libero; ma subito dopo fu di nuovo fatto arrestare dal capitano del Lago e condotto a Verona, dove, interrogato, dovette rivelare le vere ragioni del suo viaggio. La marchesa di Mantova e il legato papale fecero a Venezia molte rimostranze e insistenze per la sua liberazione, che avvenne solo parecchie settimane dopo.
Fu poi per qualche tempo nel Bresciano al comando di una compagnia d'uomini d'arme. Alla morte di Leone X fu nuovamente inviato alla corte imperiale. Il 20 dic. 1521, a Gand, fu ricevuto da Carlo V.
Il viaggio del C. aveva principalmente lo scopo di ottenere per Federico Gonzaga il capitanato generale delle truppe cesaree in Lombardia, ma occorreva preliminarmente difendere l'operato del marchese, i cui contatti con la corte francese e con il francofilo Federico da Bozzolo avevano fortemente insospettito l'imperatore e i suoi consiglieri.
Per tutto l'anno 1522 il C. fece la spola tra Mantova e la corte itinerante di Carlo V. Risultato di queste pratiche fu che l'imperatore concesse al marchese Federico cento uomini d'arme pagati sullo Stato di Milano, ma non il capitanato generale, per non mancare di riguardo a Prospero Colonna. Gli concesse inoltre una pensione di 10.000 franchi e le terre che erano state confiscate a Federico da Bozzolo, dichiarato ribelle all'Impero. Il marchese intanto combatteva per l'imperatore in Lombardia, e il C. teneva informata la corte cesarea delle sue imprese.
Tornato a Mantova da Gand ai primi di gennaio del 1523, il C. fu mandato come "capitano e locotenente generale del marchese di Mantova inla provincia di Romagna" con uomini d'arme e cavalli leggeri a recuperare alla Chiesa, insieme con truppe pontificie ed estensi, la città di Rimini, che Pandolfo e Sigismondo Malatesta avevano occupato dopo la morte di papa Leone.
Il 17 apr. 1523 il C. fu inviato nuovamente alla corte imperiale, ora in Spagna, per rivendicare nuovi sussidi imperiali e l'intervento di Carlo V presso Adriano VI perché fossero liquidate al marchese Federico le somme che ancora gli spettavano nella sua qualità di capitano generale della Chiesa.
Arrivato ai primi di maggio a Valladolid, il C. ottenne alla sua missione l'appoggio del consigliere imperiale Cesare Fieramosca; e Carlo V dispose che il Gonzaga fosse assunto dal duca di Milano in qualità di capitano generale, con un quartiere di 10.000 ducati pagabili sulle rendite del ducato; e che il viceré di Napoli, previa autorizzazione pontificia, liquidasse i crediti romani del marchese prelevando il denaro dalle decime ecclesiastiche del Regno.
Dopo l'elezione di Clemente VII il C. fu mandato a Roma, sia per ottenere dal nuovo papa il pagamento del quartiere dovuto al marchese sia per acquistare appoggi per l'elezione di Ercole Gonzaga al cardinalato. Ebbe colloqui col datario Giberti, coll'oratore mantovano Baldassarre Castiglione e col Giovio; ebbe anche una lunga udienza dal papa, che i cardinali fiorentini e Alberto Pio cercavano in tutti i modi di trarre al partito francese, e che gli parve piuttosto ambiguo. Tornato in Lombardia, il C. seguì l'esercito del duca di Borbone, inviando al marchese dettagliate relazioni sull'andamento delle operazioni militari. Nell'autunno era a Parma presso il legato papale.
Dopo la vittoria imperiale a Pavia, fu inviato nuovamente in Spagna, per presentare a Carlo le congratulazioni del marchese e per chiedere la liberazione di Federico da Bozzolo, caduto prigioniero in quella battaglia. Durante il viaggio fu ricevuto a Pizzighettone da Francesco I, che vi era prigioniero, ed ebbe da lui un salvacondotto per passare attraverso la Francia. A Lione ebbe udienza dalla reggente. Il 10 maggio 1525, a Toledo, fu ricevuto dall'imperatore, il quale però respinse la richiesta mantovana in favore del Bozzolo. Tornato in Italia, il C. fu di nuovo a Roma, dove ottenne numerose udienze da Clemente VII. Alle nuove istanze del C. per la concessione della porpora cardinalizia ad Ercole Gonzaga, il papa si disse ben disposto ma lasciò intendere che c'erano difficoltà d'ordine politico; concesse tuttavia a Ercole un'abbazia in Francia e al marchese Federico la terra di Solarolo in Romagna.
Nel novembre il marchese, in riconoscimento dei servigi del C., gli fece donazione di parecchi poderi e case nel territorio mantovano.
Dell'ambiguità della politica gonzaghesca in questo periodo è prova la missione del C. a Madrid nel dic. 1525. Apparentemente ed ufficialmente egli andava come inviato del marchese; ma aveva (non certo all'insaputa del Gonzaga) un incarico segreto del papa. Per il marchese doveva cercar di ottenere l'investitura del ducato di Milano contro la cessione del marchesato di Mantova a Ferrante Gonzaga; ma al tempo stesso doveva, con un pretesto, indurre Ferrante a tornare a Mantova. Mentre per il papa doveva, senza destar sospetti, informare il cardinal legato Salviati dei nuovi orientamenti della Curia, disposta alla guerra piuttosto che ad accettare l'annessione spagnola del Regno di Napoli e del ducato milanese.
L'ostilità di Ferrante alla svolta politica che il fratello stava operando e l'insofferenza per le insistenze del messaggero, che mise di mezzo anche importanti personaggi della corte cesarea, si risolsero in animosità personale verso di lui, e questa inimicizia qualche anno dopo fu tra le cause principali della disgrazia del Capi.
Tornando in Italia ai primi di febbraio 1526 il C. portò a Clemente VII i capitoli della pace di Madrid. Il papa fu soddisfattissimo del suo operato: aveva ormai deciso di passare dalla parte del re francese, di cui era imminente la liberazione, e spedì perciò in Francia, come suo ambasciatore, Paolo Vettori. Ma costui, giunto a Firenze, si ammalò e morì poco dopo. Allora il papa mandò in suo luogo il C., che era ben al corrente delle sue intenzioni. Egli aveva il compito di cercar dimpedire qualsiasi ulteriore accordo tra il re e l'imperatore, di esortare il re a rompere i patti stabiliti a Madrid, di promuovere una nuova lega, agendo in accordo con l'ambasciatore veneziano Francesco Rosso, giunto alla corte di Francia contemporaneamente a lui.
Il re accolse il C. molto cortesemente e lo assicurò d'essere pronto a tutto per impedire che Carlo V soggiogasse l'Italia. Le vere e proprie trattative per la lega cominciarono il 2 aprile: erano, naturalmente, segrete e il C. corrispondeva col papa indirizzando le sue lettere a un mercante di Roma. Il 22 maggio si giunse alla conclusione e il C. firmò, come nunzio e procuratore di Clemente VII, i capitoli della lega di Cognac. Il papa, parlando con l'oratore mantovano, lodò moltissimo l'abilità del C., confrontandola vantaggiosamente con quella infruttuosa di Baldassarre Castiglione.
Subito dopo il C. fu mandato in Svizzera ad arruolare diecimila uomini per la lega. Le vicende di questo arruolamento danno bene un'idea dell'incertezza e della confusione esistenti tra i collegati.
A Lione il C. avrebbe dovuto trovare pronti 40.000 scudi, e ve ne trovò solo 15.000. Il Guicciardini, commissario dell'esercito papale, sollecitava l'invio immediato di uomini, ma il numero dei fanti che egli ordinava al C. di arruolare variava, si può dire, di giorno in giorno secondo che le cose parevano mettersi meglio o peggio per la lega. Arrivato a Berna, il C. sentì che per dare uomini alla lega i Cantoni dovevano tenere una Dieta. Dapprima assoldò alcuni capitani che si offrivano di passare in Italia senza autorizzazione dei Signori, poi il 17 luglio parlò alla Dieta chiedendo settemila fanti. Gli fu risposto che i cantoni non avrebbero dato uomini al Cristianissimo se egli prima non avesse pagato i vecchi debiti. Tuttavia non si opponevano a che in Italia venissero i capitani direttamente assoldati dal C., che ai primi d'agosto tornò in Italia con circa tremila fanti e arrivò a Bergamo.
Di qui il C. si recò al campo della lega e, mentre tornava a Bergamo, fu catturato presso Cassano da alcuni cavalieri nemici usciti dal castello di Trezzo. Diede loro un falso nome e gli fu posta una taglia di 500 ducati, che il Guicciardini, avvertito, mandò immediatamente per la sua liberazione. Il C. poi con una parte degli svizzeri si avviò verso il Sud, lasciando in Lombardia gli altri, pieni di rancore verso di lui. Molto lentamente il C. e i suoi svizzeri giunsero a Roma e il papa li mandò a combattere contro i Colonnesi. Il C. restò con le sue truppe nel Lazio sino alla primavera del 1527. Il 22 marzo alloggiò presso di lui a Piperno il viceré Ugo di Moncada, che si recava a Roma, dove stabilì una tregua col papa, in virtù della quale cessarono anche le ostilità contro i Colonnesi. Richiamato a Roma, dove, per ordine del papa, licenziò gli svizzeri, il C. rientrò a Mantova, ma ebbe subito ordine dal marchese di tornare a Roma: pare con l'incarico di offrire rifugio al papa, nel caso che egli volesse lasciare Roma, alla quale si stavano avvicinando i lanzi del Borbone. Partito per la via di Ravenna, il C. arrivò a Nocera l'8 maggio e qui, saputo che le truppe nemiche stavano per entrare in Roma, si fermò poiché, essendo al servizio del papa oltre che del marchese, temeva per la propria incolumità. E riprese la via di Mantova.
Alla fine di luglio il marchese lo mandò incontro al Lautrec che scendeva nuovamente in Italia. Per tutto il mese, d'agosto, dimorando ora a Parma, ora a Piacenza e tenendosi in contatto con gli oratori veneto, milanese e fiorentino, il C. ragguagliò il marchese dei maneggi diplomatici e delle probabili intenzioni del Lautrec. Nel dicembre il marchese, che, come il duca di Ferrara, aveva aderito alla nuova lega francese, lo mandò ad Orvieto a congratularsi con Clemente VII per la sua liberazione.
Nel genn. 1528 il C. fua Venezia, dove si presentò al Collegio come procuratore del fratello Antonio, eletto il 26 dic. 1527 vescovo di Ossero nell'isola di Cherso, per ottenere il consenso della Repubblica. Nell'agosto dello stesso anno il papa avrebbe voluto mandarlo come suo nunzio al campo della lega, ma il C. ricusò adducendo, come causa del suo rifiuto, motivi di salute.
L'ultima sua missione diplomatica di cui abbiamo notizia è relativa alla complicata questione del matrimonio di Federico Gonzaga.
Fin dal 1517 era stato concluso il matrimonio tra Federico e Maria, figlia di Guglielmo Paleologo marchese di Monferrato e di Anna d'Alençon, ancora bambina. Quando costei fu adulta, Federico ricusò di farla venire a Mantova e riuscì, dopo molte insistenze e molti maneggi, ad ottenere dal papa lo scioglimento del matrimonio rato e non consumato. Poi, dopo nuovi sondaggi, intrighi e trattative con varie corti, finì per firmare il 4 apr. 1530 un contratto matrimoniale con Giulia d'Aragona, cugina dell'imperatore Carlo V, che in quell'occasione concesse a Federico il titolo ducale. Ma, prima che il matrimonio fosse consumato, morì il piccolo Bonifacio, marchese del Monferrato e ne restò erede il suo prozio, Gian Giorgio, vecchio ammalato e senza prole, per cui si poteva prevedere imminente la successione di Maria. Il Gonzaga, per assicurare alla sua casa quel marchesato, pensò di far resuscitare il suo vecchio matrimonio con Maria e di far dichiarare nullo quello contratto con Giulia d'Aragona.
Mentre l'oratore mantovano Antonio Bagarotto venne incaricato di maneggiare la pratica alla corte cesarea, il C. fu inviato a Casale per le trattative con la marchesa Anna e a Roma per far sì che il papa dichiarasse valido il matrimonio con Maria e quindi nullo quello con Giulia. La causa fu rimessa alla Sacra Rota, intervennero celebri giuristi (a Siena Filippo Decio lesse al C. il suo "consiglio") e finalmente si decise secondo i desideri del Gonzaga. Ma pochi giorni prima della decisione Maria Paleologa morì. Si trattò allora il matrimonio tra Federico e Margherita, sorella di Maria. Principale maneggiatore di questa pratica fu il C., anche relativamente alla dispensa ecclesiastica necessaria per la stretta parentela delle due donne. Egli si occupò altresì di preparare la cerimonia nuziale, che ebbe luogo a Casale il 3 ott. 1531. In riconoscimento delle benemerenze acquistate in questo affare, la marchesa Anna diede in feudo al C. la terra e il castello di Cerro nel Monferrato.
Pochi mesi dopo il C. cadde in disgrazia: il duca lo esiliò e gli confiscò i beni.
A Mantova, in corte e fuori, il C. si era fatto, non sappiamo come, molti nemici. Il duca aveva sempre avuto per lui parole di lode e lo aveva beneficato con donazioni e con uffici lucrosi, come il commissariato del ponte dei molini e quello di Marmirolo; ma ora i suoi avversari accusavano il C. di aver trattato in modo insoddisfacente l'affare del matrimonio, per cui il duca aveva sposato Margherita senza una dote conveniente e senza la certezza dell'acquisto del Monferrato; si accusava inoltre il C. di creare ostilità tra il duca e i suoi fratelli, e anche la vecchia inimicizia verso di lui da parte di Ferrante Gonzaga dovette avere il suo peso. Non sappiamo se Federico avesse altri motivi di sdegno contro il C.; comunque, sebbene più volte papa Clemente prima e Paolo III dopo intercedessero per lui, non pare che il duca lo ricevesse più nella sua grazia: neppure quando, nel 1536, la corte imperiale ebbe deciso in favore di Federico la causa per la successione del Monferrato, sicché il matrimonio, per cui il C. si era tanto prodigato, risultò molto vantaggioso per i Gonzaga.
Cacciato da Mantova, il C. rimase parecchi anni nelle terre e al servizio della Chiesa. Nell'autunno del 1532 era colonnello generale nelle truppe che, agli ordini di Luigi Gonzaga, furono mandate dal papa contro Napoleone Orsini abate di Farfa. Partecipò all'assedio e alla presa di Vicovaro ed ivi fu testimonio, il 30 novembre, al testamento del Gonzaga, ferito mortalmente da un colpo d'archibugio. Nel 1534 era ad Ascoli e di là scriveva alla marchesa Isabella pregandola di intercedere per lui. Nel novembre dello stesso anno era a Piacenza e il governatore della città, Ugo Rangoni, recandosi a Roma, lo lasciò suo vicario. Nel 1535 era luogotenente a Spoleto. Il 24 nov. 1536 scriveva da Parma alla marchesa Isabella pregandola di adoperarsi affinché la marchesa di Monfarrato non gli togliesse il castello di Cerro.
Nel luglio del 1537 fu preposto, insieme con Bernardo Salviati, ad un contingente di tremila uomini riuniti alla Mirandola, che avrebbero dovuto appoggiare un attacco contro Firenze da parte dei fuorusciti capeggiati da Filippo Strozzi e Baccio Valori. Ma, catturati questi ultimi a Montemurlo dalle truppe medicee, il C. e il Salviati, benché Piero Strozzi li esortasse insistentemente a cercare di liberare i prigionieri, abbandonarono senza combattere la partita e per Montese ritornarono alla Mirandola.
Un'ultima notizia relativa al C. ci è data dal Segni, secondo il quale egli fu cacciato da Alba quando, nel 1544, questa città fu occupata da Piero Strozzi per conto del re di Francia. Se la notizia è vera, bisognerebbe pensare che il C. fosse passato al servizio degli Imperiali.
Ignoriamo dove e quando il C. sia morto.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, bb. 544, 567, 582, 583, 586, 636, 747, 867, 868, 872, 875, 885, 1109, 1110, 1369, 1370, 1371, 1373, 1374, 1376, 1454, 1461, 1462, 1647-50, 3435; Ibid., Decreti, reg. 37, c. 140; Ibid., Raccolta D'Arco, 215, c. 309; Arch. di Stato di Modena, Cancelleria ducale,Ambasciatori,Germania, b. 1; Ibid., Particolari, b.280; I. Nardi, Istoria della città di Firenze, II, Firenze 1842, pp. 370, 390; S. Ammirato, Delle istorie fiorentine, Torino 1853, pp. 144, 149; B. Segni, Istorie fiorentine, Firenze 1857, pp. 345, 439; M. Sanuto, Diarii, XXXI, XXXIII, XXXIX-XLII, XLVI, Venezia 1891-97, ad Indices; F.Guicciardini, Carteggi, VIII-X, Roma 1956-1962, ad Indices; Id., Storia d'Italia, Torino 1971, p. 1695; B. Varchi, Storia fiorentina, II, Firenze 1963, p. 642; I. Affò, Vita di Luigi Gonzaga detto Rodomonte, Parma 1780, pp. 115, 119; G. Salvioli, Nuovi studi sulla politica e le vicende dell'esercito imperiale in Italia nel1526-27, in Archiv. ven., XVI (1878), p. 278; G. Bernardi, L'assedio di Milano nel 1526, in Arch stor. lombardo, s. 3, XXI (1894), pp. 257, 261; A. Luzio, Isabella d'Este e il sacco di Roma,ibid., s. 4, X (1908), p. 31; Id., Isabella d'Este e Leone X, in Archivio stor. ital., XLV(1910), pp. 271 s.; L. von Pastor, Storia dei papi, IV, Roma 1912, ad Indicem; M. François, Le cardinal F. de Tournon, Paris 1951, pp. 53, 155, 157; Mantova. La storia, II, Mantova 1961, ad Indicem.