VINACCIA, Giovan Domenico
– Nacque a Massa Lubrense, in costiera sorrentina, il 13 marzo 1625, come testimoniato nei registri di battesimo della chiesa di S. Maria delle Grazie (Guida, 1984, p. 233), provenendo da una famiglia in cui si praticava da tempo l’oreficeria: il suo è di gran lunga il nome maggiore tra i congiunti più o meno diretti.
Argentiere e peritissimo fonditore, scultore, architetto (anche nell’effimero) e brillante designer, Vinaccia si occupò altresì di progettazione per decorazioni in marmi e a stucco, e per allestimenti in legno, guidando al lavoro maestranze specializzate. Le fonti storiche e periegetiche, e soprattutto l’ampia documentazione d’archivio sinora rinvenuta, lo restituiscono come uno dei protagonisti dell’arte a Napoli nella seconda metà del Seicento, ovvero dopo la peste del 1656, e gli studi moderni gli riconoscono un ruolo d’innovatore del linguaggio barocco locale, per versatilità d’interventi ed estro di formule ornamentali.
Gli argenti furono uno dei vanti di Napoli in quegli anni, con maestri come Gennaro Monte, Aniello Treglia, Domenico Marinelli e altri: Vinaccia vi primeggiò, per concetto ed eccellenza d’esecuzione. Dalla sua bottega uscì una gran quantità di pezzi d’oreficeria prevalentemente a scopo liturgico e d’arredo – tabernacoli, baldacchini, croci, candelieri, vasi con fiori, portelle, paliotti, cartegloria, cornici, statue e busti-reliquiario – per complessi religiosi, chiese e cappelle perlopiù della capitale vicereale, ma anche di altri centri del Regno; una fetta di produzione era destinata pure alla devozione e al fasto di privati (da ultimo: Leardi, 2019, con nuovi documenti). Per il loro stesso pregio materiale, molti di questi prodotti sono scomparsi (e nemmeno di recente), soggetti al riutilizzo dei metalli.
Per alcuni manufatti d’argento un contemporaneo sensibile quale Carlo Celano (1692) garantisce sull’alta qualifica dell’artista, e per sue diverse invenzioni, anche in altri settori, parla espressamente di ‘bizzarria’. Un esempio doveva essere la cappella «di marmo bianco adornata bizzarramente» (Celano, 1692, V, pp. 15 s.) nella chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami (distrutta). Altra sua creazione descritta dalle guide antiche era l’«ornamento di quindici puttini assai bene intrecciati con raggi d’oro» (Sarnelli, 1685, pp. 303 s.), per un’immagine della Madonna di Guadalupe, donata nel 1681, in S. Tommaso d’Aquino (chiesa distrutta anch’essa), dove c’erano di lui pure una custodia d’argento e un paliotto «col fondo d’oro e rilievi d’argento assai nobili» (ibid.). Ma l’elenco delle chiese napoletane che possedevano opere dell’artista sarebbe ben lungo.
Più tardi Bernardo De Dominici (1742-1745, 2008) provò a tracciare una biografia, in coda a quella di Giuliano Finelli: Vinaccia avrebbe avuto i primi insegnamenti da tal Pietro Antonio Ansalone, forse imparentato a un Domenico Anzalone orafo e argentiere, documentato con il più noto Orazio Scoppa nel 1628 (Catello, 1999, pp. 7, 12, doc. 2); e inoltre avrebbe imparato «col disegno della figura anche le regole di architettura» (De Dominici 1742-1745, 2008, p. 311) da Dionisio Lazzari: discepolato, questo, ben plausibile, vista poi la presenza non occasionale di Vinaccia in cantieri diretti da quell’architetto. Ma il biografo dichiara d’ignorare da chi Vinaccia avesse appreso le sue principali competenze, cioè «la scultura e ’l gettar de’ metalli» (ibid., p. 312); il che, oltre ai processi di fusione, dovrebbe implicare il problema della pratica nella modellatura, non scontata per un argentiere specializzato. Anche nella Vita di Cosimo Fanzago, del resto, se ne esalta l’«intelligenza dell’arte del gettare in argento, in rame ed in bronzo» (ibid., p. 348). Lo scrittore inoltre si sofferma sul rapporto tra Vinaccia e Luca Giordano, da disegni del quale il primo avrebbe tratto diverse opere, come la magnifica saliera d’argento appartenuta a Nicolò Gaetani d’Aragona duca di Laurenzana, e oggetto di gala nei conviti della moglie Aurora Sanseverino.
Al momento, il più antico impegno di Vinaccia noto dalle carte risulta, nel 1660, una custodia (cioè un tabernacolo, non è specificato in quale materiale) per la chiesa matrice di Taviano (Lecce; Pasculli Ferrara, 1983, p. 321, doc. 199). Seguirono lavori in più ambiti e tecniche, tra il settimo e l’ottavo decennio del secolo, periodo in cui l’artista si affermò definitivamente. I gesuiti furono suoi importanti e frequenti committenti, affidandogli incarichi di vario tipo nei loro edifici.
Al 1664 risale, intanto, il matrimonio con Caterina Marullo, sposata il 4 agosto presso la parrocchia di S. Attanasio a Sorrento (Borrelli, 1990, p. 64 nota 23).
Lungo un decennio, dal 1677, è documentata una serie d’impegni di Vinaccia, regista ormai consumato, per S. Maria dei Miracoli a Napoli (Nappi, 1982): oltre a varia argenteria, si ricordano il disegno per la ‘cona’ marmorea dell’altare maggiore e per i cappelloni del transetto, cui lavorarono Bartolomeo e Pietro Ghetti, scultori e marmorari e suoi assidui collaboratori, e l’idea dei due organi ‘finti’, a lui riconducibile. In questa chiesa sono degne di nota le due acquasantiere, eseguite dai medesimi (1681) e attribuite a Vinaccia sin da Celano (1692, VII, p. 128): esse rivelano il singolare richiamo a conchiglie e altre creature marine, secondo un gusto profano e sperimentale in cui la critica ha visto precoci segni in chiave rocaille (Borrelli, 1979, pp. 204 s.); ma il fenomeno al contempo non è privo d’attinenza con certe precedenti soluzioni di design a Roma (per esempio di un Giovan Paolo Schor: Borrelli, 1992, p. 677); senza dire dei recuperi capricciosi dal repertorio del manierismo.
Tale tendenza a una forma fantasiosa e insieme di presenza quasi organica si ritrova nell’ornato marmoreo, a valva di tridacna gigante (Borrelli, 1979, p. 204), all’altare del cappellone di S. Agostino, disegnato da Vinaccia e realizzato ancora dai Ghetti, in S. Giuseppe dei Ruffi (dal 1682: D’Addosio, 1918, p. 162; G. Cantone, in Campania barocca, 2003, pp. 164 s.). I Ghetti lavorarono pure alla cappella di S. Francesco Borgia nel Gesù Vecchio, progettata da Vinaccia nel 1678 (Nappi, 1984, pp. 331, 337 doc. 73).
La realizzazione di busti e statue di santi rappresentava a Napoli uno dei settori più rilevanti per un argentiere. Sul conto di Vinaccia la prima scultura d’argento di cui si ha traccia nei documenti dovrebbe essere, nel 1671-72, un S. Francesco Borgia per il Collegio della Compagnia di Gesù (Rizzo, 1984, p. 407, doc. 3, e 2001, p. 217, doc. 7), non conservato, così come tanti altri noti solo dalle carte.
Un buon numero di esemplari ci è comunque pervenuto. Del 1677 è un pagamento per il S. Tammaro a Grumo Nevano (Napoli; Rizzo, 1984, p. 408, doc. 5). Nel 1679 è documentata la statua bronzea (già creduta più antica) di S. Francesco Saverio (p. 408, doc. 6) nella cappella del Tesoro di S. Gennaro: in dialogo per impianto con i tanti bronzi di Finelli in loco, essa rivela ormai, nelle superfici mosse, nuove suggestioni derivate dalla pittura giordanesca (Borrelli, 1987a, p. 60).
Nello stesso 1679 Vinaccia ebbe dal Collegio medico di Salerno l’incarico di realizzare in bronzo i tre busti dei Ss. Anthes, Fornunato e Caio, protomartiri salernitani, per la cripta della cattedrale di quella città (Borrelli, 1987a). Esiti di spiccata qualità nei tipi, essi hanno volti non convenzionali e anzi connotati da «un’incisiva ricerca naturalistica che ne dettaglia con vigore i tratti» (ibid., p. 61). Un’analoga tensione impronta la testa di S. Gregorio Magno in argento, datata 1676, nell’omonima chiesa a Crispano (Napoli), frammento che si è proposto ipoteticamente di riferire a Vinaccia tra le prime cose conservate nel genere (Borrelli, 2009).
Per la statuaria doveva essere notevole l’Immacolata Concezione in argento lavorata dall’artista nel 1680 per la Certosa di S. Martino, opera perduta, che la documentazione e le fonti dicono sontuosa (Causa, 1973, p. 107 nota 140). La certosa napoletana era tra i luoghi principalissimi in cui si custodiva suppellettile preziosa, anche di Vinaccia: di nuovo Celano (1692) ne fu tra i primi osservatori, segnalando di lui in quel tesoro, tra l’altro, un tabernacolo «tutto a gitto» (VI, pp. 38 s.) e l’or citata Immacolata, costati a suo dire circa 6000 e 6500 scudi.
Sono noti poi i busti argentei di S. Massimo e di S. Candida, del 1681, provenienti dalla cattedrale di Napoli e oggi nel Museo diocesano (Borrelli, 2008, pp. 210 s., scheda 93); e di quell’anno è anche il S. Paolo della cattedrale di Aversa (ibid.; Leardi, 2019, p. 70). Affinità ‘fisionomiche’ e formali si evidenziano tra queste figure e quelle, anche in marmo, sia precedenti sia successive, di Lorenzo Vaccaro: il che, pure al di là della fornitura di modelli da tradurre in metallo, testimonia il confronto, decisivo per lo sviluppo della plastica napoletana nell’ultimo Seicento, tra Vinaccia e il forte collega scultore (Borrelli, 2012). Al 1685 si data il S. Gaetano da Thiene in argento commesso dai teatini per il Tesoro di S. Gennaro (Borrelli, 1987a, p. 64, doc. 10; Catello - Catello, 2000, pp. 78 s.).
Oltre che nell’elaborazione di figura e a getto, va ricordata la perizia di Vinaccia nella lavorazione a sbalzo, come rivela la ‘veste’ d’argento della venerata Icona Vetere a Foggia (cui è relativo un documento del 1690: D’Addosio, 1918, pp. 162 s.; Catello, 1998).
Al 1691 risale la famosa statua di S. Michele arcangelo oggi esposta nel Museo del Tesoro di S. Gennaro, lavoro tra i più rappresentativi dell’epoca, e di una sveltezza formale che preannuncia il secolo seguente: Vinaccia la realizzò su modello di Vaccaro e con la consulenza di Giordano (Catello, 1982; Catello - Catello, 2000, p. 78). Seguì, sempre per il Tesoro, nel 1692, il S. Francesco d’Assisi in argento (Catello, 1989).
Per la decorazione d’interni si segnala il disegno degli ancor integri stucchi nella volta dell’ex sacrestia dell’oratorio dei Nobili alla casa professa del Gesù Nuovo (oggi atrio del liceo Genovesi), eseguiti nel 1682: vi è un ciclo con la Madonna, il Cristo e gli Apostoli, in una tessitura vivace di cornici e ornati floreali (Catello, 1984, pp. 357-359, 362 doc. 5). Nel campo degli ornati esterni si menzionano gli stucchi disegnati nel 1688 per la facciata del Gesù Vecchio (Borrelli, 1990, pp. 65 s., doc. 11).
Tra il 1683 e il 1685 è documentata la fattura dell’altare maggiore per la chiesa della Certosa di S. Lorenzo a Padula (Salerno), su disegno di Vinaccia (Borrelli, 1987b). L’opera si caratterizza per l’attraente risultato cromatico e il brulichio di motivi naturalistici, mediante la scagliola, qui usata in alternativa al commesso marmoreo, con cui invece è decorato l’altare maggiore di Monteoliveto a Napoli, appena successivo, anch’esso ideato da Vinaccia, ed eseguito dai Ghetti entro quel decennio, e dove la tradizione dei marmi policromi si raffina in nuovi effetti d’eleganza e insieme di verve (Guida, 1984, pp. 236 s., n. 4.52).
Nel 1692-93 risultano pagamenti al marmoraro Gaetano Sacco per la decorazione del frontespizio del presbiterio e per quella a marmi mischi della cappella di S. Francesco d’Assisi, entrambe su disegno di Vinaccia, nella chiesa di S. Maria Donnaregina Nuova (D’Addosio, 1917, p. 232), la seconda delle quali particolarmente ingegnosa nei partiti architettonici.
Tra il 1692 e il 1695 Vinaccia attese all’impresa cui la sua fama è più legata: il paliotto d’argento tuttora all’altare maggiore della cappella del Tesoro di S. Gennaro, di cui egli era divenuto l’ingegnere succedendo a Lazzari, morto nel 1689. Quando la commessa sembrava ormai assegnata a Vaccaro, Vinaccia presentò un’offerta più contenuta e, dopo un’asta al ribasso, ottenne il lavoro per 1500 ducati (cifra poi aumentata a fatica compiuta; Catello - Catello, 1977; Strazzullo, 1978; su questo autentico capolavoro: Catello, 1979; Lattuada, 1992, in particolare per gli addentellati con il barocco romano; Catello - Catello, 2000, pp. 83-85; Russo, 2016).
Nel paliotto, attraverso un formidabile congegno narrativo e ‘teatrale’, si rappresenta al centro, tra colonne tortili, la Traslazione delle reliquie di s. Gennaro da Montevergine a Napoli, evento avvenuto il 13 gennaio 1497 per mano dell’arcivescovo Alessandro Carafa, fratello del cardinale Oliviero. Oltre a tale rievocazione, la scena, il cui modello spetta allo stesso argentiere, è tutta tramata di personificazioni e significati allegorici: quasi un ritratto storico-plastico e corale di Napoli su cui vigila il santo protettore, che v’interviene in volo come in un dipinto barocco. Mentre il prelato avanza a cavallo con la cassetta, sotto di lui è schiacciata l’Eresia; intanto la Fame, la Peste e la Guerra sono rese inoffensive; la città, oltre che dallo stemma (elemento ben originale nello spunto asimmetrico), è rappresentata dal Sebeto e dalla Sirena Partenope; nel fondo è un brano di paesaggio urbano, e più lontano il Vesuvio sta eruttando. Tra gli astanti, come vuole l’erudizione locale, Vinaccia fece il suo autoritratto nel personaggio con gli occhiali: sorta di firma ‘mimetizzata’ dell’opera. Negli scomparti laterali, per i quali Vinaccia forse si avvalse di modelli in precedenza plasmati da Domenico Marinelli, trovano posto, tra termini a cariatidi, la Carità e la Fede, sopra cui sono rispettivamente i tondi a rilievo con la decollazione del martire e la raccolta del suo sangue. Una delle maggiori novità formali del paliotto è la profondità percorribile, in specie nella parte principale, con molte figure a tutto tondo (diversamente da altri esemplari superstiti, lavorati perlopiù in rilievo), a dispiegare una storia complessa e d’indubbio effetto.
Tra gli ultimi interventi di Vinaccia si cita il restauro di una più antica statua argentea di S. Antonino nell’omonima chiesa a Sorrento: l’artista lasciò sul simulacro il proprio nome e la data 1695 (Catello - Catello, 1973, pp. 208 s.).
Vinaccia morì a Napoli tra il 29 luglio 1695, giorno in cui fu redatto il suo testamento (Borrelli, 1990, pp. 67 s., doc. 20), e il 3 agosto seguente, quando risulta già scomparso in un documento della Deputazione del Tesoro con il quale si raccomandava di effettuare la pesatura del paliotto d’argento, da poco concluso, per cura della Regia Zecca (Strazzullo, 1978, p. 138, doc. 573).
Bernardo De Dominici afferma che i figli di Vinaccia «comodamente vissero nel mestier dell’orefice» (1742-1745, 2008, p. 315), ma ciò non è confermato dai dati sulla famiglia ricavabili dal testamento. Da esso infatti si sa che Giovan Domenico ebbe sette figli: dei tre maschi, Nicola e Giuseppe fecero vita ecclesiastica, mentre Pietro, il minore, è forse da identificare in Pietro Vinaccia regio ingegnere documentato nei primi decenni del Settecento; due delle quattro femmine, Anna Maria e Teresa, furono monache nel conservatorio di S. Gennaro ad Aversa. È noto pure l’inventario dei beni dell’artista, tra cui era una raccolta di quadri (Borrelli, 1990, pp. 68-71, doc. 21).
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