COSCIA, Giovan Domenico
Nacque nel 1582 in Calabria Ultra, a Badolato, feudo in quegli anni del principe di Squillace, Pietro Borges, e dal 1596 del principe di Satriano, che il C. difenderà nel 1625 in una causa ereditaria.
Il suo era, probabilmente, il ramo minore e rimasto in provincia dei Coscia, duchi di Sant'Agata, da tempo inurbati nella capitale, proprietari di terre nel Beneventano, e direttamente discendenti da un Giovanni, ammiraglio di Ferdinando I, al cui seguito alcuni rappresentanti della famiglia erano emigrati in Francia. L'Accattatis ritiene che il padre del C. sia stato Giovan Maria, anche egli giuredonsulto; ma lo svolgimento coevo delle carriere universitarie di ambedue induce ad ipotizzare un diverso tipo di parentela che, però, la mancanza di ulteriori notizie sulla loro estrazione familiare, tranne il comune luogo di nascita, impedisce di precisare.
La vita, le scelte culturali, le fortune del C. rappresentano in modo efficace quel paradigma del giurista meridionale, a cavallo tra Cinque e Seicento, ricostruito ed allo stesso tempo formulato da Francesco D'Andrea. Trasferitosi a Napoli per proseguire gli studi, il C. vi conseguì in data imprecisata il dottorato in utroque iure. Sposatosi con Isabella Gallo ed andato a vivere alla Pignasecca, nel cuore della città, si dedicò all'attività professionale, con notevole successo economico, ed all'insegnamento universitario pubblico e privato, tenendo, com'era allora prassi abituale, un corso a pagamento in casa.
Questa seconda attività didattica si rivelò particolarmente fruttuosa: le lezioni del C. erano affollatissime, e ciò desta meraviglia dal momento che tutte le testimonianze, contemporanee o di poco successive, esprimono, senz'alcuna eccezione, giudizi pesantemente negativi sulle sue conoscenze e capacità scientifiche, sui suoi orientamenti intellettuali, sul suo stesso modo d'insegnare. Francesco D' Andrea, criticando in toto la formazione ricevuta, era convinto che i genitori "una sola cosa fecero di buono, nella quale però ebbe più possa il caso che il consiglio e l'averlo affidato alle cure di Giovan Andrea Di Paolo e non a quelle del C. che pure era stato maestro del padre. Il D'Andrea definisce il C. "goffo al maggior segno e privo di ogni sorta di erudizione"; e questa opinione, ripresa letteralmente dal Giannone - per il quale, ancora, il C. "insegna scipitamente la legge a' nostri giovani" -, si fondava sull'autorità dei Toppi, che ne sottolineava come unico pregio "la somma memoria", e come principale difetto l'incapacità di esporre in modo chiaro e sistematico le sue idee.
In realtà, nella contesa che anche a Napoli opponeva, nella prima metà dei sec. XVII, i giuristi "pratici" ai "culti", seguaci di Alciato e di Cujas, il C. si schierò con i più ortodossi rappresentanti dei mos italicus iura docendi. Considerò e insegnò, infatti, nel modo più tradizionale l'esperienza giuridica romanistica, senza uscire da una riduttiva visione endogiuridica: rifiutava, in altri termini, i nuovi strumenti della filologia e della storia proposti dagli umanisti per analizzare il corpo del diritto romano, e si mostrava del tutto estraneo ai segnali di rinnovamento che pure preparavano la teorizzazione di Francesco D'Andrea.
Godeva peraltro d'importanti protezioni, che lo salvarono dall'arresto nel 1619, quando il cappellano maggiore s'impegnò nella repressione dell'attività privata dei lettori. Grazie agli stessi appoggi fu nominato conte palatino ed ottenne nello Studio napoletano, sin dal 1608, la cattedra di Instituta, in cui dalla metà del Cinquecento erano stati riunificati i due insegnamenti stabiliti nel 1507 dal viceré G. d'Aragona.
La disciplina era stata insegnata da un maestro della giurisprudenza umanistica, Alessandro Turamini, e lo fu poi dal suo allievo Giovan Andrea Di Paolo, con il quale il C. ebbe sempre un difficile rapporto di competizione scientifica e professionale, per cui tutte le fonti considerano la presenza del C. su questa cattedra uno sgradevole intervallo nella continuità di stile e di metodo rappresentata dal Turamini e dal Di Paolo.
In ogni caso, il C. occupò immediatamente una posizione di grande rilievo nell'ateneo napoletano, e quando, il 31 ott. 1615, fu deciso lo sdoppiamento della cattedra di Instituta, ottenne di ricoprirle ambedue fino al 1624, anno in cui diventò titolare di canoni della mattina, o ius canonico.
In questa veste fu protagonista, nel 1631, di una violenta lite con Emanuele Roderigo Navarra, professore vespertino di diritto civile, su questioni apparentemente di precedenza. In effetti, anche se il complicatissimo cerimoniale già stabilito dal viceré conte di Lemos lasciava adito a questo tipo di beghe, la vera ragione del contendere era la tradizionale polemica sulla preminenza dei diritto civile o dei diritto canonico; tanto che il C. dedicò alla controversia ben tre allegazioni, e sia il Collaterale sia il cappellano maggiore se ne dovettero occupare. Poiché, infatti, quest'ultimo organo fu incapace di emettere un giudizio, il 4 marzo 1632 il Collaterale delegò la causa a Scipione Rovito, che, il 13 maggio, si dichiarò a favore del C., tesi accolta all'unanimità dagli altri reggenti del tribunale.
Morì l'11 ag. 1649 lasciando due figlie, Antonia e Dorotea, sposate rispettivamente con Giacomo Barra e Carlo Gizzio Mantazzoli.
Fu seppellito con grandi onori nella chiesa di S. Dornenico Soriano all'Avvocata, in una cappella a lato dell'altare maggiore, ricordata da tutte le descrizioni delle bellezze artistiche della capitale per una grande tela di Mattia Preti, e per un affresco di Giacinto Pepoli, entrambi commissionati dalla moglie del Coscia.
Delle opere dei C., tutte di stretto argomento giuridico, pare sia esistita un'edizione completa del 1652, "ex typ. Dominici Maccarani", ma esse erano già apparse singolarmente anni prima. Presso la Biblioteca nazionale di Napoli, oltre ai già ricordati Responsa in materia praecedentiae edita in controversia quae in Collaterali Consilio vertitur inter ipsum D. Cosciam et D. Emanuelem Navarram, Neapoli 1632, "apud Gasparum Scorriggium", si trovano il ms. XX, 88, Institutionum civilium Libri III et IV, che reca la data d'inizio 4 maggio 1636, e altri lavori riguardanti questioni di eredità e di fedecommesso, legati a due importanti cause patrocinate dal Coscia. La prima di queste aveva ad oggetto l'ereáità lasciata da Pietro Machario nel 1595, per una metà alla moglie senza figli, e per l'altra al cliente del C., l'ospedale dei Pellegrini, che allo scadere di trentacinque anni avrebbe dovuto consegnarla al discendente maschio più prossimo del Machario, diventato, però, nel frattempo, gesuita, abdicando così ad ogni pretesa. Il C. sostenne la validità.gli questa rinunzia nel De extinctione fideicommissi. De renunciatione ab ingrediente religionem facta. Responsum miscellanicum et responsum amicabile, I-III, Neapoli 1638, "apud Robertum Mollum" (il Resp. amicabile è anche stampato a parte con altre due operette di autori diversi nello stesso anno e dallo stesso editore). Su temi analoghi verteva anche la seconda causa in cui il C. difendeva don Giovanni d'Aquino, principe di Feroleto, crede, a patto del verificarsi di una serie di condizioni, del fratello don Cesare, controversia che diede spunto ai Quattuor responsa in causa excellenti.mi principis Castilionis et aliorum dominorum de Aquino, Neapoli 1640, "ex typ. Roberti Molli", ed al Responsum apologeticum, Neapoli 1642. Il Giustiniani dà notizia di altre opere, andate però disperse.
Fonti e Bibl.: G. C. Capaccio, Il Forastiero, Napoli 1634, p. 241; G. Reccho, Not. difamiglie nobili ed illustridella Cittàe Regno di Napoli, Napoli 1717, pp. 15 e 91. La biografia del C. più completa è in L. Giustiniani, Mem. istor. degli scrittori legali dei Regno di Napoli. I, Napoli 1787, pp. 268-270; alcuni cenni in L. Aliquò Lenzi-F. Aliquò Taverriti, Gli scrittori calabresi. Diz. bio-bibliogr., I, Reggio Calabria 1955, p. 204; L. Accattatis, Le biografie degli uomini ill. delle Calabrie, II, Cosenza 1870, pp. 165-167. Per le testimonianze ed i giudizi dei contemporanei: F. D'Andrea, Avvertimenti ai nipoti, in N. Cortese, I ricordi di un avvocato napol. delSeicento, Napoli 1923, p. 87; P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Napoli 1770, XV, p. 130; N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, p. 143. Sulla sua carriera universitaria, G. C. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, II, Napoli 1759, pp. 97 s., e N. Cortese, L'età spagnuola, in Storia dell'Univ. di Napoli, Napoli 1924, pp. 336, 341 e, sulla sua collocaz. scientifica, p. 422. Suquest'ultimo, argomento, G. Lomonaco, Del foro napoletano, Napoli 1877, p. 105; G. Manna, Della giurisprudenza e del foro napoletano, Napoli 1839, p. 129; R. Trifone, Unosguardo agli scritti dei giuristi napoletani del Seicento, in Atti dell'Acc. di sc. mor. e pol., LXX (1959), p. 15. Sulle consuetudini universitarie, F. De Magistris, Status rerum memorabiltam tamecclesiasticarum quam Politicarum, Napoli 1655, pp. 104 s., 189 s. e N. Cortese, L'età spagnuola, p. 376; per la sua controversia con il Navarra, ibid., pp. 396 s., ed Arch. di Stato di Napoli, Notamenti del Collaterale, 25, cc. 25v, 64v-65r. Infine, sulla cappella mortuaria, C. Celano, Nutizie del bello, dell'antico e del curiosodella città di Napoli, III, Napoli 1970, p. 1743, e F. Nicolini, Dalla Porta Reale al Palazzo degliStudi, in Napoli nobilissima, XV (1906), I, p. 53.