VANNI, Giovan Battista
Nacque a Firenze il 21 febbraio del 1600, da Orazio, importante e noto orefice con bottega sul ponte Vecchio, e da Benedetta di Iacopo Torrigiani. Filippo Baldinucci, primo biografo dell’artista, oltre a sottolineare il suo precoce talento nel disegno, un topos nelle vite degli artisti fiorentini e non solo, ne rimarca «una mirabile vivacità di spiriti» e «l’impareggiabile bellezza di volto e di persona», definendolo inoltre «pittor gentiluomo» e in possesso «di un certo che del nobile e del grande» (Baldinucci, 1681-1728, 1846, p. 534). Tali qualità, anche al di là delle sue capacità artistiche, lo resero sempre gradito ai suoi numerosi committenti, così come il dilettantismo musicale, un interesse evidenziato dall’Autoritratto con musici (Sarasota, Ringling Museum). Dal cospicuo catalogo di Vanni emerge come l’artista si cimentasse in tutti i principali generi pittorici e come, girovago al pari di molti suoi contemporanei, fosse interessato alle più diverse maniere delle scuole artistiche italiane. Questa permeabilità verso gli stili altrui fu spesso solo superficiale, ma rende le sue opere di grande interesse anche come esempi di ricezione delle tendenze artistiche della prima metà del Seicento.
L’educazione artistica di Vanni si basò inizialmente sulla frequentazione del pittore pisano Aurelio Lomi (ibid., p. 535; Baldassari, 1986, p. 178), e il fatto che quest’ultimo fosse figlio di un orafo fiorentino, Giovan Battista di Bartolomeo, può indurre a ipotizzare che questo primo alunnato, iniziato probabilmente intorno al 1613, quando Lomi si stabilì per un certo periodo a Firenze, dipendesse dalle conoscenze del padre Orazio. Pochi anni dopo Giovan Battista si unì alla bottega di Jacopo da Empoli, e poiché quest’ultimo utilizzò il volto del pittore adolescente per la figura della vedova nella pala con S. Ivo protettore delle vedove e degli orfani, documentata al 1616 (e oggi a Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina), la data può costituire un utile termine per stabilire il periodo del suo ingresso in quella prolifica bottega (Baldassari, 1990, p. 130, nota 3). Al 1618 risale l’iscrizione del pittore all’Accademia delle arti del disegno, e forse a questa data egli era già presso la bottega di Cristofano Allori. Dopo la morte di questi nel 1621, Giovan Battista, sempre secondo le notizie di Baldinucci (1681-1728, 1846, p. 538), si accostò a Giulio Parigi, cimentandosi, durante i primi anni Venti del Seicento, nella progettazione di scenografie e macchine teatrali, di cui nulla resta, utilizzate per le rappresentazioni periodicamente organizzate dalla Compagnia dell’Arcangelo Raffaello detta La Scala, alla quale Vanni, come molti artisti suoi contemporanei, aveva aderito.
Le prime opere importanti del pittore sembrano essere state le due tele, parte di una serie di dodici dipinte da vari artisti fiorentini, eseguite tra il 1620 e il 1621 per la compagnia laicale di S. Benedetto Bianco a Firenze: il S. Benedetto scaccia il demonio dalla pietra (Carrara, Collezioni d’arte del gruppo Banca Carige; F. Baldassari, in Il rigore e la grazia, 2015) e il perduto S. Benedetto che si getta tra le spine (Pegazzano, 2014, p. 87). Nella prima tela, nota in due versioni, risulta evidente che il pittore mise a frutto gli insegnamenti di Allori aderendo a quello stile morbido e sfumato che caratterizzò in quegli anni anche l’opera di Giovanni Bilivert, artista con il quale Vanni, anche più avanti nella sua carriera, ebbe vari punti di tangenza (Contini, 1986, pp. 62 s.). Al 1623 data la partecipazione del pittore alla decorazione affrescata, da un’équipe capitanata da Matteo Rosselli, del casino di S. Marco a Firenze, residenza del cardinal Carlo de’ Medici. A Vanni sono riferibili le due lunette con la Costruzione di Palazzo Pitti e lo Sbarco di Cosimo II de’ Medici (Baldassari, 1986, p. 178). Per lo stesso cardinale l’artista dipinse Venere che piange Adone morto (Firenze, Opificio delle pietre dure), pagata nel 1624, parte di un ciclo di sei tele con temi ovidiani (Fumagalli, 2001). In questi anni il pittore partecipò pienamente della cultura figurativa promossa dai Medici anche attraverso la rappresentazione dei temi tratti dai poemi di Ariosto e di Tasso, ad esempio con dipinti come Tancredi medicato da Erminia e Vafrino (Baldassari, 2001) oppure Armida che tenta di uccidere Rinaldo (Spinelli, 2001, p. 59). Più problematico è assegnare con certezza a Vanni alcune delle lunette, Ester e Assuero e Giuditta e Oloferne, di forte ascendenza bilivertiana, del ciclo per Maria Maddalena d’Austria, affrescato tra il 1621 e il 1623, sempre sotto la regia di Matteo Rosselli, nella sala delle eroine bibliche della villa del Poggio Imperiale (Spinelli, 2008, pp. 656, 658, 659).
Dal 1624 ebbe inizio il primo dei numerosi soggiorni romani del pittore, che, seppure con varie interruzioni, risiedette nella città papale varie volte, frequentando anche quella sorta di accademia artistica che Simon Vouet aveva riunito nella sua casa di via Ferratina, e dove si incontravano, tra i numerosissimi, pittori come Orazio e Giovan Battista Riminaldi e Nicolas Poussin (Bousquet, 1952). A Roma l’artista fu ospitato, almeno dal 1626, nella casa del monsignore fiorentino Lorenzo Corsi, il suo principale protettore, che gli mise a disposizione una stanza per dipingere e gli commissionò numerosi dipinti, introducendolo inoltre ai cardinali Antonio e Francesco Barberini (Pegazzano, 2014, pp. 78-84). Il pittore fu in stretti rapporti con Corsi fino alla morte di quest’ultimo nel 1656, dipingendo per lui diverse tele. Tra di esse devono essere segnalate almeno quella, perduta, raffigurante un Mago che fa gli incantesimi, collocabile tra il 1626 e i 1627, che sembra anticipare quantomeno nel soggetto la pittura negromantica di Salvator Rosa e indica gli interessi del pittore a Roma per i temi ‘magici’ di Angelo Caroselli; o il dipinto a tema storico, di circa trent’anni dopo, omaggio al cardinale Mazzarino e alla sua impresa nella battaglia di Casale e ai cardinali Barberini (ibid.).
Al 1629 risale, secondo Baldinucci (1681-1728, 1846, p. 540), il viaggio a Parma, che rappresentò un momento cruciale della carriera del pittore, spinto verso questa città dall’interesse per l’arte di Correggio, che a Firenze aveva già avuto in Ludovico Cigoli uno dei suoi principali estimatori. Dallo studio del pittore emiliano Vanni derivò la serie delle belle incisioni, edite nel 1642, dagli affreschi della cupola parmense di S. Giovanni Evangelista (Incisioni delle pitture di Antonio Allegri, 1642), che costituirono a lungo, fino alla riscoperta tardo-novecentesca dell’autore, la sua impresa più famosa (Mussini, 1995). L’interesse verso Correggio si era già tradotto, nel 1638, anche nella grande incisione con il Martirio dei ss. Placido e Flavia e in una copia, dispersa, della Madonna di s. Girolamo. Più in generale, dal suo apprezzamento per la pittura emiliana sarebbero derivate, secondo Baldinucci (1681-1728, 1846, p. 541), altre copie da pittori di quella scuola che il biografo però non identifica, con l’eccezione di una generica Madonna da Parmigianino.
Tornato a Roma nel 1630, e sempre ospite di Corsi, Vanni, nel continuare a dipingere per il suo mecenate, ricevette altri incarichi. Risale a questo periodo il S. Sebastiano curato dalle pie donne per la cappella dei Montauto in S. Giovanni dei Fiorentini, che ben riflette gli esiti dei recenti studi dell’arte correggesca. In questo secondo soggiorno romano si rafforzarono gli interessi del pittore verso l’arte dei Bamboccianti e più in generale per i temi popolareschi, come potrebbe dimostrare, ma risulta al momento dispersa, la tela con un Beone un tempo in collezione Corsi (Pegazzano, 2014, p. 86). Anche gli interessi paesaggistici sono ben individuabili nel repertorio del pittore, che predilesse, per gli sfondi dei suoi quadri, grandi masse scure di alberi, come nell’Agar e l’angelo sempre per Lorenzo Corsi (p. 88), o gli scorci boschivi selvatici e cupi, come nel Tobiolo e l’angelo e nella Fuga in Egitto, ambedue di collezione privata, considerati anticipatori delle medesime tendenze espresse da Salvator Rosa (M. Gregori, in Il Seicento fiorentino, 1986, p. 296; Ead., 2001).
Dopo una nuova parentesi fiorentina nei primi anni Trenta, Giovan Battista compì un viaggio a Venezia nel 1637, ospitato, secondo Baldinucci (1681-1728, 1846, p. 541), dalla famiglia Cornaro. Di questo viaggio, quando ebbe «occasione di copiare le pitture di quei gran maestri» (ibid.), resta l’incisione dalle Nozze di Cana di Paolo Veronese. Le opere successive al soggiorno veneziano non sembrano però aver risentito troppo di questo studio sull’arte veneta, mentre è piuttosto verso il cortonismo che Giovan Battista si rivolse tornato a Firenze, dove l’opera di Pietro da Cortona aveva iniziato a dispiegarsi sulle pareti della sala della Stufa in Palazzo Pitti. I quadri in cui risultano evidenti queste suggestioni sono ad esempio il Ratto di Elena (collezione privata), oppure la Madonna con i ss. Filippo Neri e Filippo Benizzi nella chiesa lucchese di S. Maria dei Servi (Contini, 1997) e ancora la Sacra Famiglia per monsignor Corsi (Pegazzano, 2014, p. 89).
Tra la fine degli anni Quaranta, quando sembra fosse ancora forte su di lui l’ascendente di Giovanni Bilivert (Contini, 1986, pp. 62 s.), e i Cinquanta, Vanni dovette essere stabile in Toscana, dove svolse un’intensa attività incentrata soprattutto su temi sacri per chiese e conventi (Baldassari, 1986, pp. 179 s.), in opere dove, alle consapevoli riprese correggesche e cortonesche, si aggiunsero quelle derivategli dall’irrompere sulla scena fiorentina delle novità di Baldassare Franceschini detto Volterrano. Nel 1652 Vanni venne chiamato ad affrescare alcune figure di Virtù e di importanti personalità legate all’ordine domenicano nel chiostro di S. Antonino nel convento di S. Marco a Firenze. A questa impresa Baldinucci dedicò un’attenta descrizione, pur rilevando che le pitture, «toltone alquanto di franchezza di pennello, non hanno in sé perfezione che né punto né poco le agguagli a quelle ch’egli fece ne’ primi tempi» (1681-1728, 1846, pp. 543 s.), sintetizzando molto bene lo scadimento di qualità che caratterizzò alcune opere dell’ultimo decennio di vita dell’artista. La diminuzione di talento non dovette però influire troppo sul gradimento dei committenti, tanto che negli anni Cinquanta Vanni era ancora apprezzato dal principe Mattias de’ Medici, che gli commissionò il proprio ritratto (Spinelli, 2013), o da famiglie fiorentine quali i Guicciardini (Bruno, 2008) o i Gondi (Baldinucci, 1681-1728, 1846, p. 547).
Tra il 1654 e il 1657 il pittore si spostò nuovamente dalla città granducale per un lungo soggiorno in Romagna, trovando a Ravenna la protezione del cardinale Giovan Battista Spada, legato pontificio, per il quale realizzò un ritratto e altre opere (Fumagalli, 2016). La permanenza ravennate doveva essere stata di poco preceduta da quella a Ferrara, dove Vanni aveva lavorato, secondo Baldinucci, presso la famiglia dei Rimbaldesi. L’unico dipinto per quest’ultimi di cui si ha notizia, realizzato intorno al 1655, è una tela raffigurante La pace tra guelfi e ghibellini, di cui resta al Louvre il disegno preparatorio (Monbeig-Goguel, 2005). Il foglio mostra le qualità di Vanni come eccellente disegnatore, secondo quanto riportato da Baldinucci e verificato dagli studi sul suo corpus grafico (Petrioli Tofani, 1999).
Nel 1660 il pittore è documentato a Pistoia. Era stato infatti incaricato di affrescare, su commissione dell’abate Ippolito Bracciolini, il chiostro minore del monastero olivetano di S. Benedetto con Storie dei cavalieri dell’ordine (Baldassari, 1985), un’opera ormai stanca, eseguita in gran parte dall’allievo Claudio Segoni da Montevarchi.
Mentre era intento a queste opere, Vanni morì all’ospedale del Ceppo di Pistoia il 27 luglio 1660. Il suo corpo fu riportato a Firenze e sepolto nella chiesa di S. Francesco di Paola, dove ancora alla fine del Settecento era visibile la lapide che il padre Orazio e il fratello Giuseppe fecero porre sulla sua tomba. Nell’epigrafe era celebrata la fama che il pittore aveva raggiunto nel «Nobile Picturae Officio» (Moreni, 1792).
Incisioni delle pitture di Antonio Allegri da Corregio esistenti a Parma, Roma 1642; F. Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno a Cimabue in qua... (1681-1728), a cura di F. Ranalli, IV, Firenze 1846, pp. 534-548; D. Moreni, Notizie istoriche dei contorni di Firenze. Parte seconda. Dalla porta Romana fino alla Certosa, II, Firenze 1792, pp. 218-220; J. Bousquet, Documents sur le séjour de Simon Vouet à Rome, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire, LXIV (1952), pp. 287-300 (in partic. pp. 293 s.); F. Baldassari, G.B. V. e gli affreschi del chiostro di San Benedetto a Pistoia, in Quaderni pistoiesi di storia dell’arte, 1985, n. 10, pp. 21-37; Ead., in Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III (catal.), III, Biografie, Firenze 1986, pp. 178-180; R. Contini, Apocrifi bilivertiani, ed altro, in Paradigma, 1986, n. 7, pp. 53-69; M. Gregori, in Il Seicento fiorentino, cit., p. 296, n. 1.148; F. Baldassari, Precisazioni sull’attività giovanile di G.B. V., ibid., 1990, n. 9, pp. 129-139; Ead., Un inedito di G.B. V., in Paragone, XLV (1994), nn. 529-533, pp. 231-234; R. Contini, Bernini, Vannini, Martinelli e V.: congiunture tosco-romane nel Seicento, in Antichità viva, XXXIV (1995), 4, pp. 40-47; M. Mussini, Correggio tradotto. Fortuna di Antonio Allegri nella stampa di riproduzione tra Cinquecento e Ottocento, Milano 1995, p. 174; R. Contini, L’influenza di Pietro da Cortona in Toscana, lui vivente: quale bilancio?, in Pietro da Cortona per la sua terra. Da allievo a maestro (catal., Cortona), Milano 1997, p. 59; A.M. Petrioli Tofani, Su alcuni disegni di G.B. V., in Prospettiva, 1999, nn. 93-94, Omaggio a Fiorella Sricchia Santoro, II, pp. 165-175; F. Baldassari, in L'arme e gli amori. La poesia di Ariosto, Tasso e Guarini nell'arte fiorentina del Seicento (catal.), a cura i E. Fumagalli - M. Rossi - R. Spinelli, Firenze 2001, pp. 200 s., n. 70; E. Fumagalli, Ariosto e Tasso nelle quadrerie medicee del Seicento, ibid., pp. 72-84 (in partic. p. 74); M. Gregori, I decenni centrali del secolo. “Maxima et minima”: Volterrano, Stefano della Bella e oltre, in Storia delle arti in Toscana. Il Seicento, a cura di M. Gregori, Firenze 2001, p. 158; F. Baldassari, The Florentine Baroque: G.B. V., in Continuity, Innovation and Connoisseurship. Old Master Paintings at the Palmer Museum of Art. Atti del Convegno... 1995, a cura di M. Jane Harris, University Park 2003, pp. 92-109; C. Monbeig-Goguel, Musée du Louvre - Cabinet des Dessins, Inventaire général des dessins italiens, IV: dessins toscans, XVIe-XVIIIe siècles, II, 1620-1800, Paris 2005, n. 596; S. Bruno, Musici e pittori tra Firenze e Roma nel secondo quarto del Seicento, in Studi secenteschi, XLIX (2008), pp. 185-217 (in partic. pp. 212-217); R. Spinelli, Simbologia dinastica e legittimazione del potere: Maria Maddalena d’Austria e gli affreschi del Poggio Imperiale, in Le donne Medici nel sistema europeo delle corti, XVI-XVIII secolo, a cura di G. Calvi - R. Spinelli, II, Firenze 2008, pp. 656-659; F. Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze. Indice degli artisti e delle loro opere, Torino 2009, pp. 680-691; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ’600 e ’700. Biografie e opere, II, Firenze 2009, pp. 265 s.; R. Spinelli, Un ritratto mediceo di G.B. V., Firenze 2013; D. Pegazzano, I ‘Cardinali guerreggianti’. Dipinti inediti di G.B. V. per monsignor Lorenzo Corsi, in Prospettiva, 2014, nn. 153-154, pp. 74-95; F. Baldassari, in Il rigore e la grazia. La Compagnia di San Benedetto Bianco nel Seicento fiorentino (catal.), a cura di A. Grassi - M. Scipioni - G. Serafini, Firenze 2015, p. 118; E. Fumagalli, Un pittore fiorentino in terra di legazione: G.B. V. a Ferrara, in Studi in onore di Stefano Tumidei, a cura di A. Bacchi - L.M. Barbero, Bologna 2016, pp. 273-277.