VALENTINI, Giovan Battista (Nanni)
Ceramista, scultore e pittore, fu uno dei principali esponenti della scultura europea del dopoguerra, benché l’estremo riserbo della sua persona abbia rappresentato un ostacolo al suo riconoscimento pubblico.Nacque a Sant’Angelo in Vado (PU) il 24 dicembre 1932 da Piero Valentini, avvocato, e da Giuseppina Borghi, funzionaria e dirigente nelle amministrazioni pubbliche.
Trasferitasi la famiglia a Pesaro, dal 1945 al 1950 fu iscritto alla scuola d’arte Ferruccio Mengaroni per decorazione ceramica, ospitata allora nel complesso del S. Domenico in via Giordano Bruno, dove ebbe per maestri Guido Andreani, Federico Melis, Carlo Borgiotti, Alessandro Gallucci e Giancarlo Polidori, che gli impartirono le basi tecniche e gli offrirono nozioni sull’arte del Novecento. Dal 1949 al 1952, per completare la formazione, frequentò l’istituto statale d’arte per la ceramica G. Ballardini nello storico palazzo Strozzi di Faenza. Qui fu allievo di Angelo Biancini, di cui scrisse: «è con lui che imparai ad ammirare Arturo Martini e Donatello e a credere nella mia fantasia» (Valentini, 1992, p. 79). Il maestro gli aprì la prospettiva della ceramica come totale espressione artistica. A Faenza vide per la prima volta le ceramiche di Picasso, donate in quel periodo al museo, che gli ispirarono l’importanza della lavorazione dell’argilla come fonte di ispirazione materica.
Dal 1952 iniziò a collaborare con la bottega di Bruno Baratti, che aveva sede in una casa del XVII secolo parzialmente distrutta dalle mine dei tedeschi in piazzale Collenuccio a Pesaro. Contemporaneamente aprì uno studio con Oscar Piattella in via Curiel, frequentando quotidianamente Loreno Sguanci e Giuliano Vangi. Nel 1952, ottenuto il secondo premio al Concorso provinciale di ceramica di Pesaro, visitò con gli amici la Biennale d’arte di Venezia, dove ebbe il primo impatto con le opere pittoriche di Osvaldo Licini, autore amato per tutta la vita.
Conseguito il diploma di maestro d’arte a Faenza nel 1952, l’anno seguente volle seguire i corsi di pittura all’Accademia di belle arti di Bologna tenuti da Pompilio Mandelli e Virgilio Guidi, ma fu galvanizzato dalla pittura di Giorgio Morandi. Conobbe Quinto Ghermandi, Fernando Farulli, Alberto Moretti.
Dal 1954 partecipò a numerosi concorsi di ceramica e pittura: presentò un piatto decorativo al XII Concorso della ceramica di Faenza, e si qualificò al terzo posto come ceramista al premio Deruta; sue ceramiche furono esposte alla X Triennale di Milano, alla Mostra nazionale di pittura di San Marino, al premio Michetti di Francavilla a Mare, al premio Salvi di Sassoferrato, e risultò vincitore al premio Tiferno di Sant’Angelo in Vado.
In questo periodo aurorale la produzione ceramica e quella pittorica risentivano dell’influenza di Picasso, visto anche nella grande rassegna a Palazzo Reale di Milano nel 1953, di Paul Cézanne e di Paul Klee.
L’eco della sala personale di Giuseppe Santomaso alla XXVII Biennale veneziana (1954) influenzò il giovane, che nel 1955, nello studio di Baratti, eseguì le prime terrecotte ingobbiate e graffite, con un un linguaggio segnico. Il viaggio in ottobre a Parigi con l’amico Ulrico Schettini Montefiore lo portò a conoscenza di Gianni Bertini, di Corneille e di Asger Jorn, di cui scoprì la produzione ceramica; ammirò Wols, Alberto Burri e Julius Bissier, mentre l’opera di Germaine Richier lo influenzò per la tecnica del calco.
Il 26 dicembre 1955 sposò Tina Terenzi, da cui ebbe nel 1956 la figlia Tiziana. A Genova conobbe Emilio Scanavino, di cui ammirò anche la produzione ceramica di carattere segnico. Nel giugno del 1956 fu vincitore del XIV premio Faenza, dove conobbe Albert Diatò, che aveva una borsa di studio, mentre ottenne il primo premio alla XI Mostra della ceramica di Vicenza, con piastre ingobbiate e invetriate, importanti riconoscimenti che resero noto il suo lavoro non solo agli addetti ai lavori. Ne seguirono alcune collaborazioni architettoniche per la decorazione di bar e interni di negozi.
A Milano, nel maggio del 1956 i fratelli Arnaldo e Giò Pomodoro lo ospitarono nel proprio studio, lo misero in contatto con Roberto Sanesi, che gli fece conoscere la poesia di Dylan Thomas, gli presentarono Lucio Fontana ed Ettore Sottsass. L’impatto con la ceramica di Fontana, essenziale, di nuda terra, delle serie avviate nel 1957 lo condizionò nelle scelte poetiche.
Tra Faenza e Pesaro per tutto il 1957 lavorò assiduamente a ceramiche che risentivano del clima informale, in grès insieme a Diatò. Espose alla XI Triennale di Milano ciotole e vasi caratterizzati da superfici povere solcate da brevi segni graffiti. Nell’autunno del 1957 si trasferì nella metropoli lombarda con Tina, Tiziana e il cognato Marco Terenzi, in viale Caldara, dove proseguì il lavoro delle piastre in grès graffite e incrementò la collaborazione con i fratelli Pomodoro. A Venezia in quell’anno strinse amicizia con Tancredi Parmeggiani, un sodalizio che proseguì anche negli anni milanesi.
Nel 1958, grazie all’interessamento di Fontana, amico di Beatrice Monti della Corte, tenne la prima mostra a Milano, insieme a Diatò, alla galleria dell’Ariete. Riguardo a questo esordio nella metropoli lombarda l’artista annotò: «Erano lavori di terracotta greificata con poco smalto. Gli impasti del grès davano a queste opere un suono diverso» (Valentini, 1992, p. 82). La mostra non ebbe il successo sperato e gli unici acquirenti dei suoi lavori furono Fontana e Sottsass.
Iniziò a frequentare l’architetto Luigi Massoni, con cui avviò la produzione di oggetti ceramici della serie «natura», legati a un concetto di design d’autore, dalle forme nette e geometriche, ma dalle superfici solo parzialmente smaltate. Sempre grazie a Fontana inviò in quell’anno una ciotola smaltata e graffita alla XX Ceramic International al Syracuse Museum of Fine Arts nello stato di New York e ottenne il primo premio. In estate allestì una personale di ceramiche e dipinti al Circolo pesarese in palazzo Mosca a Pesaro, mostra che rappresentò la novità di ciotole e vasi liberi da complicità figurative ed ebbe un successo di critica.
Grazie a una borsa di studio compì viaggi frequenti a Parigi, dove studiò a fondo la pittura di Georges Braque.
Dal 1959 subentrò una crisi nel lavoro pittorico: una serie di quadri con lettere e fondi d’argento non lo convinse appieno e venne distrutta, mentre la produzione ceramica ottenne sempre più larghi consensi. Grazie al favore dei Pomodoro, Valentini ottenne la commissione della facciata e di alcune sculture sacre per la chiesa di S. Angela Merici a Milano ed entrò in contatto con Guido Ballo e con Carlo Grossetti, il gallerista dell’Annunciata. Si legò d’amicizia con Paolo e Renata Schiavocampo, poi amici di sempre, e iniziò a frequentare, per breve tempo, i realisti esistenziali Bepi Romagnoni, Tino Vaglieri e Giorgio Bellandi, dai quali trasse ispirazione. Alcuni giovani, come Pino Spagnulo e Adelio Maronati, presero a frequentare il suo studio.
In questo periodo, con Spagnulo, Valentini aiutò Lucio Fontana nella realizzazione della tomba Chiti Melandri a Faenza (1959-60), opera in grès che costituì un’occasione di collaborazione e di assimilazione delle abilità gestuali del maestro.
Nel 1960 Valentini si trasferì in viale Misurata, vicino agli studi dell’amico Tancredi e di Claudio Olivieri: qui riprese una nuova serie pittorica con dipinti e carte di figurazione intensa e stravolta, esposti in ottobre alla personale al salone Annunciata di Milano. Con la produzione in grès dai ricordi gestuali e materici meritò la medaglia d’oro alla XII Triennale di Milano (1960). Nel 1961, dopo aver traslocato in via Veronesi (dove abitava Giovanni Testori), vinse di nuovo il primo premio al XIX Concorso di Faenza; con Diatò visitò gli ateliers della città di Vallauris, e il richiamo della ricerca pura lo spinse a mettere da parte l’impegno della produzione di oggetti di design, con pesanti conseguenze economiche: Tina e la figlia tornarono a vivere a Pesaro, mentre egli si trasferì con Schiavocampo in uno studio in via Mortara. Dall’anno seguente, per ragioni di salute, soggiornò a lungo nella città marchigiana, dove contribuì alla fondazione del Laboratorio Pesaro, condotto fino al 1966. Durante la sua assenza, nel novembre 1962 Spagnulo si trasferì nel suo studio, e dall’anno successivo i due avviarono una frequentazione sempre più intensa, fatta di stretta collaborazione in un nuovo spazio in corso San Gottardo, che condivisero con l’amico Nino Crociani. La morte di Tancredi nel 1965, tuttavia, segnò a tal punto Valentini da costringerlo a lasciare il capoluogo lombardo.
Il ritorno a Pesaro coincise con un biennio di crisi e silenzio in cui l’artista, sempre più schivo, non partecipò a mostre ed esposizioni, ma s’immerse in una verifica sulle possibilità del paesaggio, in un aperto confronto con la pittura di Claude Lorrain. Questi studi gli permisero di individuare «la natura del segno che cercavo, che non era solo quello dell’identità ma dell’individuazione e della sua proiezione in un oggetto simbolico; cioè una pittura in rilievo o di una scultura dipinta» (Valentini, 1992, p. 89). Nell’aprile del 1967 Valentini si ripresentò a Milano con una personale di pitture e sculture al salone Annunciata, che rivelò l’affacciarsi, accanto alla poetica del segno, di un’analisi strutturale evidente in forme geometriche trapezoidali e triangolari. Iniziò una militanza politica diretta che lo portò di nuovo a Milano, nel gennaio 1968, in seno al gruppo promotore di Manifestazione d’arte di protesta. In autunno ebbe un incarico come insegnante. Con Attilio Marcolli, Paolo Minoli e Giorgio Soro si occupò di studi sulla percezione. Contemporaneamente con Tina e con Marco Terenzi riaprì il laboratorio di ceramica in via San Carlo ad Arcore, fondando la manifattura Arcore Ceramica, poi trasferito in via Tiziano
Dal 1969 insegnò all’istituto d’arte di Monza, dove rimase fino al 1985. Qui si legò d’amicizia con Narciso Silvestrini, con cui svolse ricerche sul colore e sul linguaggio visivo. Fino al 1972 s’impegnò in uno studio di approfondimento problematico con letture di Michel Foucault, Jacques Derrida, Roland Barthes e Umberto Eco; eseguì in questo periodo molti disegni analitici e le sue ceramiche ripresero il lavoro degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta, nel periodo di via Mortara.
Nel 1973 ebbe una vera e propria rinascita della vena creativa verso un’armonica sintesi tra l’esperienza scultorea e quella pittorica, ormai indissolubilmente unite. Il nuovo punto di partenza fu la natura, con «impronte» di alberi e di foglie, per emulare con la terra le tracce della terra stessa. In quell’anno diede vita alle «sfere» e alle «nascite», grandi masse sferiche in terracotta greificata, allusive a semi in apertura, che espose a Ceramic art of the world 1973 al New Alberta College di Calgary. Nacquero inoltre nuove «impronte», dal pigmento bluastro, che nel 1975 espose alla rassegna Scultura + campagna = habitat naturale a Cadorago (Como).
Valentini comprese l’urgenza di ripartire dai dati di certezza atavica: la nascita, l’uomo e il volto, il paesaggio, l’orizzonte, quei dati universalmente umani che aveva avuto modo di sondare nei primi anni Sessanta in numerosi disegni e schizzi.
Attratto dalle scienze antropologiche, in Paesaggio d’argilla, 1973-74 concepì la terracotta come superficie terrestre, terra come terra, segnata dalla griglia delle coordinate razionali della topografia.
Parallelamente elaborò le «garze» o i «filtri», composizioni che usavano la trama della tela per sorreggere, in trasparenza, filamenti e bave di presenza pittorica monocroma, presentate per la prima volta all’Expo di Colonia con lo studio Casati di Merate: qui egli conobbe Carla Pellegrini, direttrice della galleria Milano, con cui nacque un sodalizio creativo. Nel 1976 tenne un’importante personale negli spazi della galleria con i «filtri», i «reticoli» e alcune sculture in terracotta, che rappresentò il primo vero successo di un artista fino a quel momento rimasto nell’ombra.
Mentre si moltiplicavano le esposizioni personali e collettive, il lavoro di Valentini si andò enucleando in vere e proprie installazioni: la riflessione antropologica sulle origini, sull’omphalos, lo portò a concepire ceramiche vorticanti in ambienti caratterizzati da frammenti che richiamavano un’archeologia immaginaria, come in Un ombelico per Empedocle (1978) alla galleria del Falconiere a Falconara. Parallelamente riaffiorò il tema del volto e del mistero dello sguardo nell’installazione Endimione e i 28 volti di Selene, esposta per la prima volta alla galleria Ca’ Vegia di Salice Terme nel 1980.
Nel 1982 l’artista diede vita presso la galleria Vera Biondi di Firenze a un’installazione, Il vaso e il polipo, ispirata alla raffigurazione del polipo sulla brocchetta minoica di Gurnià, costituita di sette pezzi ambivalenti: una complessa allegoria del dramma della conoscenza e delle sue polarità.
Sempre in quell’anno fu invitato da Luciano Caramel con una sala personale alla Biennale d’arte di Venezia, importante riconoscimento di rilievo internazionale.
Nel frattempo venne a maturazione il lungo lavoro sul concetto della casa, cui l’artista continuò a lavorare nei primi anni Ottanta. Si tratta di uno dei temi centrali della riflessione antropologica, come avverte Marco Belpoliti: «La casa è il luogo proprio dell’uomo, luogo carico di simboli, simbolo esso stesso; è la casa di Abramo, quella della Terra, la casa dello Scorpione, quella delle fiabe» (in Nanni Valentini, 1992, p. 148).
In questo periodo si interessò al suo lavoro Flaminio Gualdoni, che iniziò un percorso critico di rilettura dell’intera parabola creativa dell’artista, culminato nel 1984 con l’importante riconoscimento alla carriera al Padiglione d’arte contemporanea di Milano, in cui espose tra l’altro l’installazione Deriva, basata su elementi come il Guscio, Spirale, Sole, Ansa, Antro, Onda. Il tema dell’angelo nella suggestiva installazione L’angelo Dioniso (1984-85) occupò gran parte della sua ultima produzione, in omaggio agli angeli liciniani, emblema dell’estrema possibilità della materia di manifestarsi nella forma della levitas.
La riabilitazione dell’artista fu confermata dall’invito a Italienische Kunst 1900-1980 al Frankfurter Kunstverein nel 1985.
Al culmine della sua notorietà e nel pieno della maturità artistica Valentini morì improvvisamente a Vimercate il 5 dicembre 1985.
E. Maurizi, Materia come realtà... (catal.), Macerata 1979; N. V., a cura di M. Belpoliti - E. Grazioli, in Riga, II (1992), 3, n. monografico; Scritti. Autobiografia, 1983, ibid., pp. 77-95; F. Gualdoni, N. V., Cinisello Balsamo 2005; C. Giardini, Alle origini della terra. Sulle tracce delle poetiche giovanili di N. V., in N. V. a Palazzo Bracci Pagani: opera prima opera ultima. Sculture e dipinti (catal.), Fano 2019, pp. n. n.