NICOLUCCI, Giovan Battista
NICOLUCCI, Giovan Battista (detto il Pigna). – Nacque l’8 aprile 1529 a Ferrara. Lo pseudonimo, adottato stabilmente, derivò dall’insegna della bottega del padre, Niccolò, speziale, originario di Cortona.
Dalle testimonianze dei contemporanei e dai riferimenti autobiografici nelle sue opere, ripresi e ordinati dagli eruditi settecenteschi (Francesco Saverio Quadrio, Lorenzo Barotti, Girolamo Tiraboschi, Luigi Ughi), risulta che ebbe una solida formazione umanistica. In diversi passi de I romanzi (Venezia, V. Valgrisi, 1554) ricorda i suoi maestri e i suoi numerosi e dotti amici, quali Antonio Musa Brasavola (ne sposò la figlia Violante, da cui ebbe quattro figli: Giulio, Alfonso, Niccolò e Laura), Bartolomeo Ricci, Giovan Battista Lolli, Paolo Manuzio, Ludovico Domenichi, Girolamo Ruscelli, oltre a Giovan Battista Giraldi Cinzio, suo maestro nello «scrivere in prosa latina e in volgar rima» (I romanzi, 1554, p. 4), con il quale tuttavia dopo la pubblicazione, nello stesso 1554, del Discorso intorno al comporre de’ romanzi si inaugurò una insanabile polemica in merito alla primazia degli argomenti spesi intorno alla difesa del poema ariostesco. Fra i suoi maestri il Pigna ricorda anche Lilio Gregorio Giraldi, che lo esercitò a «verseggiare in più modi latinamente» (ibid.) e lo introdusse come interlocutore nell’ottavo dialogo del De poetis nostrorum temporum (Firenze 1551), Alessandro Guarini, che lo avviò all’«intelligenza degli auttori» (ibid.) e Francesco Porto, dal quale apprese il greco. L’esperienza decisiva per la formazione del Pigna furono le lezioni sulla Poetica aristotelica di Vincenzo Maggi, che omaggiò nei Carmina: «Poeticae tuae liber, / Madium omnium doctissime, / mihi indicat te non modo / voce mihi, sed etiam tuis / scriptis magistrum esse optimum» (Carminum libri quator, Venezia, V. Valgrisi, 1553, p. 3). Il riconoscimento nei confronti di Maggi, acuto interprete della Poetica di Aristotele, va sottolineato se si vuole comprendere l’originalità de I romanzi, che il Pigna sostenne di aver cominciato a comporre già nel 1547, due anni prima della laurea in filosofia e medicina, conseguita a Ferrara forse per assecondare i desideri del padre.
L’opera maturò dopo una grave «infirmità» che offri al giovane l’occasione di una lettura fatta per «solazzo», ma fruttuosa, di «varii libri di romanzi» e lo spinse alla stesura di un primo «giudicio» sul poema cavalleresco, in emulazione o in competizione con quanto stava già elaborando Giraldi Cinzio.
Nel 1551 assunse la cattedra di retorica ed eloquenza e poesia latina e greca nello Studio cittadino; nel 1552 fu ammesso alla vita di corte, tra i familiari del principe ereditario Alfonso, al quale indirizzò il trattato Il duello (Venezia, V. Valgrisi, 1554), che affronta alcune questioni essenziali della vita sociale del tempo a proposito del valore e della difesa dell’onore.
In queglii anni totalmente dediti allo studio, non senza rischio per la salute («interea vitae magis – gli rimproverava Ricci – quam studiorum rationem habere debebis», Opera, II, Padova 1748, p. 372), l’attività poetica è comprovata dalla pubblicazione, nel 1553, dei Carminum libri quatuor (insieme con le poesie latine di Celio Calcagnini e di Ludovico Ariosto) e dalla stesura di componimenti volgari finiti nel Palatino 232 della Biblioteca nazionale di Firenze, un canzoniere tripartito (Rime pastorali, Rime eroiche, Rime divine), mutilo però della sezione iniziale.
Di questa intensa attività giovanile restano altrimenti poche testimonianze. Secondo Giraldi (De poetis, 1551, p. 97), scrisse «adulescens» un «de consolatione tres libros ad Thomam Lucensem, materterae suae virum», un «libellum de otio, quem amplissimo cardinali Salviato misit», e «varias epistulas, versus quoque Latinos et rhythmos Etruscos». Ne I romanzi sono ricordati alcuni lavori in abbozzo o pronti a essere terminati e comunque oggi perduti: un dialogo sul gioco degli scacchi, la traduzione di alcuni salmi di David, una commedia intitolata Vestaria, un «giudicio degli articoli della volgar lingua». L’interesse per le questioni letterarie è testimoniato dai Quaestionum poeticarum libri XII, pure perduti, ai quali il Pigna accenna nella prefazione dei Carmina come a un trattato in forma di dialogo simposiale e che ricorda ancora nel Duello («Opera di molta fatica e di poco tempo, essendo ella da me oggimai compiuta in questa mia giovanile età», p. 154) e in una lettera più dettagliata del 18 febbraio 1556 a Paolo Manuzio (Lettere scielte di diversi nobilissimi scrittori, III, Venezia 1584, p. 127). Nel Duello si fa cenno anche a un’altra opera cui stava lavorando, le Imprese, di cui nulla è rimasto; così come non c’è traccia di uno scritto in latino che, stando a Quadrio (1739, IV, p. 67), avrebbe scritto contro la Canacedi Sperone Speroni. Secondo Quadrio (VI, p. 589), il Pigna sarebbe l’autore anche di un poema medievale in francese, falsamente attribuito a Niccolò da Casola, Guerra d’Attila, flagello di Dio, di Tommaso d’Aquileia tratta dall’Archivio de’ Principi d’Este (Ferrara, F. Rossi, 1568; poi Venezia, D. Farri, 1569), testo che poi avrebbe utilizzato per l’Historia de i Principi d’Este. L’ipotesi è però contestata da Barotti (1793, II, p. 186).
Il profilo del Pigna, a ridosso del suo primo incarico di cancelliere e segretario, è quello di un giovane letterato molto attivo, al corrente dei temi e delle questioni del momento, nonché sollecito a cogliere le occasioni che il nuovo mercato editoriale poteva offrire (nel 1556 pubblicò, riprendendo quanto aveva già scritto ne I romanzi, una Vita dell’Ariosto per l’edizione del poema curata da Girolamo Ruscelli per l’editore Valgrisi, che ebbe numerose ristampe) e attento alle relazioni con gli altri letterati. Fu membro dell’Accademia dei Filareti, istituita a Ferrara nel 1554 in casa di Alfonso Calcagnini, e di quella dei Partici, fondata da Bonaventura Angeli nel 1569.
La sua carriera nella Segreteria ducale, cominciata con l’educazione del principe Alfonso, primogenito di Ercole II e Renata di Franca, ebbe una svolta quando Alfonso salì al potere, nel 1559: divenne segretario ducale, succedendo a Giraldi Cinzio (Arch. di Stato di Modena, Arch. Segreto Estense, Cancelleria ducale, Carteggio di referendari, consiglieri, cancellieri e segretari, b. 13 [1557-63]; b. 14a [1556-75]). Negli anni successivi ricoprì ruoli di prestigio e incarichi di responsabilità, come la riforma dello Studio ferrarese (di cui sono frutto gli Statuta urbis Ferrariae nuper reformata, Ferrara, F. Rossi, 1567), la nomina a giudice dei Savi e l’attività di oratore ufficiale per le commemorazioni funebri (da quella per il duca Ercole II, morto nel 1559, a quella, più dolorosa, per la giovane duchessa, Barbara d’Austria, morta di tubercolosi nel 1572).
Nel 1561 pubblicò un’edizione dell’Ars poetica di Orazio (Venezia, V. Valgrisi), frutto degli intensi studi giovanili, e un trattato in tre libri dedicato ad Alfonso II, Gli heroici (Venezia, G. Giolito, 1561) intesi idealmente a saldare le riflessioni sul poema cavalleresco con il nuovo interesse per una nuova «poesia heroica», fondata su un fatto vero, cioè storico, nel quale interviene però il verosimile, sotto forma di trascendente o soprannaturale.
La nuova idea di poesia è esemplificata dal poemetto celebrativo in 50 stanze intitolato L’heroico – «uno schizzo della vita heroica» (Gli heroici, p. 15) – intorno al quale si struttura il trattato. Il poemetto ha per soggetto la «horribile caduta» del principe Alfonso durante una giostra a Blois nel 1556: «il vero fu che il Principe cadesse a morte et non morisse […] et il verisimile è che gli Angeli custodi della sua vita incontinente si movessero, et che Marte principale tra essi li conducesse dinanzi a Dio, et parlasse per salute di esso Signore in modo tale che gli impetrasse la vita» (ibid., p. 12).
Il 1561 è anche l’anno di apparizione del trattato Il principe nel qual si discrive come debba essere il principe heroico, sotto il cui governo un felice popolo, possa tranquilla et beatamente vivere (Venezia, F. Sansovino), dedicato al duca di Savoia Emanuele Filiberto. Il trattato riflette il nuovo corso politico impresso da Alfonso II, dopo il ritorno in patria della madre Renata di Francia (1560), che aveva accolto e favorito la diffusione della Riforma protestante, mettendo in crisi il rapporto con il papato.
Solo nel Settecento Muratori pubblicò il discorso La pace (in Introduzione alle paci private… S’aggiungono un ragionamento di Sperone Speroni intorno al Duello e un trattato della Pace di Giovan Battista Pigna non pubblicati finora, Modena 1708). Dell’opera possediamo una minuta autografa della lettera dedicatoria Al Serenissimo Principe Ferdinando Arciduca d’Austria, Duca di Borgogna et di Svevia, Conte di Tiroli: «Hora ch’io sono qui à Inspruch, residenza di V. A., ove il mio Principe si ritrova con altri Principi tutti invitati da lei, ho formato un discorso intitolato La Pace…» (Modena, Biblioteca Estense e universitaria, α.G.1.17 [Ital. 835], f. 29).
Nel 1565 ricevette l’incarico di portare a termine la Historia de i Principi d’Este, nel quale si contengono congiuntamente le cose principali dalla rivolutione del Romano Impero in fino al MCCCCLXXVI, che Gerolamo Falletti aveva fermato al 1300 a causa delle sue gravi condizioni di salute (morì nell’ottobre 1564). La storia, proseguita fino al 1476, vide la luce nel 1570 (Ferrara, F. Rossi; II ed. Venezia, V. Valgrisi, 1572), fu più volte ristampata ed ebbe un’edizione latina (i primi quattro libri Venezia, F. Bindoni, 1575, l’ed. integrale Ferrara, V. Baldini, 1585) e una tedesca nella versione di Tiburtius Dreyfelder, cappellano della duchessa Barbara d’Asburgo (Magonza, F. Behem, 1579).
Anche per quest’opera, come per I romanzi, il Pigna fu accusato di plagio nei confronti di Falletti. La tesi fu respinta già da Tiraboschi, che esaminò i manoscritti degli Annales Estenses di Falletti (Modena, Biblioteca Estense e universitaria, α.J.4.1 [Lat. 393] e α.F.3.14 [Lat. 478]). In primo luogo, il Pigna aveva il compito di proseguire l’opera interrotta, rivedendola su base documentaria (egli stesso, in veste di segretario ducale, aveva fornito i documenti a Falletti). Tuttavia, volgendo la Historia dal latino al volgare, reimpostò l’opera per un pubblico diverso: ridotto è il ricorso a excursus e digressioni, limitato l’utilizzo di documenti e iscrizioni, rari i discorsi dei protagonisti. Ove non bastasse, nella dedicatoria è dichiarato esplicitamente il debito nei confronti di Falletti. Alcune riserve si possono invece avanzare in merito all’attendibilità delle ricostruzioni storiche. L’opera nasce da ragioni politiche e propagandistiche, tese a dimostrare la precedenza storico-genealogica degli Este contro i Medici (entrambi i casati aspiravano al titolo granducale) e ovviamente non mancano forzature.
Questo fu il suo ultimo impegno letterario. Morì a Ferrara il 4 novembre 1575.
Il corpus poetico del Pigna si fonda sostanzialmente su due raccolte organiche. Il ben divino, ispirato all’amore per Lucrezia Bendidio, è composto in una redazione manoscritta quasi definitiva (cui fa riferimento anche Torquato Tasso nelle Considerazioni sopra tre canzoni di G.B. Pigna intitolate le Tre sorelle lette nell’Accademia ferrarese nel 1568: «picciola ma nobil parte delle molte rime che si leggono in deificazione della Signora Lucrezia», T. Tasso, Opere, V, Firenze 1724, p. 197). Gli Amori raccolgono testi precedenti al Ben divino,secondo la testimonianza di Battista Guarini nella lettera dedicatoria che accompagnava il manoscritto di questa raccolta, a Leonora d’Este, il 1° maggio 1572. Entrambe le raccolte rimasero inedite fino al XX secolo: l’edizione del Ben divino curata da Neuro Bonifazi (Bologna 1965) è tratta dal ms. 252 della Biblioteca comunale di Ferrara (tenendo presente anche il ms. 2136 della Biblioteca Corsiniana di Roma); il manoscritto de Gli amori (Milano, BIblioteca Ambrosiana, O.170 sup.) è stato riscoperto da David Nolan e pubblicato da Alan Bullock (Bologna 1991, insieme con O. Magnanini, Discorso sopra «Gli Amori»).
Le edizioni moderne hanno offerto ai critici moderni la possibilità di inserire il Pigna nel panorama poetico dell’epoca e di smontare alcuni luoghi comuni (sarebbe stato rivale, sia nell’amore sia nella poesia, di Tasso, il quale alla fine lo immortalò nel personaggio di Elpino dell’Aminta e ne diede un generoso giudizio nelle Considerazioni, ritenendolo come poeta, per certi aspetti, persino superiore a Petrarca). È così possibile ricostruire il suo percorso lirico all’interno della poesia della seconda metà del Cinquecento, che vede il petrarchismo avviato al suo tramonto nel lento articolarsi delle spinte innovatrici tra i diversi indirizzi stilistici del manierismo. A mettere in luce la continuità fra gli Amori e il Ben divino fu già Tasso nella breve Esposizione di un suo sonetto per la figlia del Pigna (Laura, che fra le Muse e ne l’eletto), dove ricorda che nelle due raccolte egli fece de «l’uno quasi idea d’un amor perfetto», de «l’altro [quasi idea] de gli amori propri» (Opere, IV, p. 470). Nel rileggere complessivamente il canzoniere del Pigna si ha, dunque, l’impressione di un cammino spirituale che è anche il segno del trascolorare del petrarchismo contemporaneo: da una descrizione dell’amore come rassegna di situazioni e stati d’animo iscritta nella tematica tradizionale a una narrazione (donde lo sviluppo delle rubriche premesse ai singoli testi, ben diverse dalla didascalie relegate nell’indice del manoscritto milanese degli Amori) dell’amore conclamato per Lucrezia Bendidio, che, di là da alcuni automatismi petrarchistici, punta alla «sublimazione del quotidiano, spesso curioso, bizzarro» (Gigliucci, 2001, p. 862).
La novità della poesia del Pigna converge con quella del trattato I romanzi, disponibile modernamente in edizione parziale (Libro terzo deI romanzi, a cura di N. Bonifazi, Urbino 1975) e integrale (a cura di S. Ritrovato, Bologna 1997). Il trattato vale più di una semplice apologia del poema ariostesco, in quanto, grazie all’eccellente conoscenza delle letterature classiche e della Poetica di Aristotele, riesce a illuminare in maniera originale il nuovo universo narrativo del romanzo. Fra il Pigna e Giraldi Cinzio intercorsero certamente colloqui e scambi di idee, ma le loro posizioni divergevano nel punto essenziale del metodo di lettura, che per il primo, allievo di Maggi, non è più fornito dalla poetica oraziana, ma da quella aristotelica (il terzo libro de I romanzi, fra l’altro, consiste in una perspicua analisi delle varianti ariostesche dalla seconda alla terza edizione, definitiva, del poema). Entrano così massicciamente nel trattato termini tecnici ricavati dalla Poetica e vi si riconoscono le categorie di giudizio con cui il filosofo greco aveva valutato i generi della tragedia e dell’epica. Il Pigna riporta l’attenzione su un tipo di verosimile fondato non più sul vero bensì sulla finzione, diversamente da quello epico: «L’epico sopra una cosa vera fonda una verisimile, e vera intendo o per istorie o per favole, cioè o in effetto vera o vera sopposta, questi altri [i romanzi] alla verità risguardo alcuno non hanno» (I romanzi, 1997, p. 20). Il verosimile romanzesco è interno all’intreccio, non esterno, in quanto oggetto non è la storia, ma una mitologia letteraria. A tal proposito è rilevata l’analogia tra le leggende dei paladini e della Tavola rotonda narrate nei romanzi e quelle mitologiche narrate nei poemi epici: se si accettano «le infinite forze e fatiche» di Ercole, che «via passano per vere o al vero prossime», vuol dire che si possono accettare anche quelle di Orlando. A decidere la verosimiglianza di un’azione non è soltanto l’uso (è verosimile, per esempio, che gli dei ridano e piangano), né la finalità didascalica (Davide attribuisce a Dio allegrezza e ira), né il successo dell’opera (la Medea di Euripide riscosse il plauso del pubblico benché contraddicesse la versione tradizionale del mito), ma anche il valore estetico delle storie narrate, la capacità di risemantizzare tanto la mitologia romanza (incantesimi, stregonerie, oggetti fatati, mostri ecc.), quanto quella classica, miniera inesauribile di storie e di allegorie: «una bugia d’un buon poeta ogni verità seppellisce» (ibid., p. 21). Di qui il «meraviglioso» romanzesco, che designa un sentimento di ammirazione ora di fronte alle invenzioni sorprendenti e ingegnose del poeta (in fatto di stile, di espressione), ora di fronte alla soluzione imprevista di complicati intrecci, e giustifica l’«inverisimile». Posizioni che riflettono, alla metà del Cinquecento, un universo narrativo in pieno movimento, in cui il modello romanzesco appare per certi aspetti complementare a quello epico, non in irriducibile contrapposizione. Tutto ciò avrebbe fornito ampi motivi di riflessione al giovane Tasso dei Discorsi dell’arte poetica.
Oltre alle edizioni moderne sopra citate, hanno rivisto la luce in edizione anastatica Il principe, Bologna 1991, e la Poetica Horatiana, München 1969.
Fonti e Bibl.: F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Bologna 1739, I, p. 69; II, p. 272; IV, p. 67; VI, pp. 151, 589; L. Barotti, Memorie istoriche di letterati ferraresi, II, Ferrara 1793, pp. 177-186; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, IV, Modena 1783, pp. 131-155; VI, ibid. 1786, pp. 164 s.; Id., Storia della letteratura italiana, VII, 2, Modena 1782, pp. 319-321; L. Ughi, Dizionario storico degli uomini illustri ferraresi, II, Ferrara 1804, pp. 108 s.; V. Santi, La precedenza tra gli Estensi e i Medici e l’«Historia dei Principi d’Este» di Giovan Battista Pigna, in Atti e memorie della R. Deputazione ferrarese di storia patria, IX (1887), pp. 35-122; G. Zannoni, Le rime giovanili di Giambattista Pigna, in Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, VI (1890), 2, pp. 28-35; C. Simiani, La contesa tra il Giraldi e il Pigna, Treviso 1904; L. Raffaele, I codici delle rime di Giovan Battista Pigna, in Atti e memorie della R. Deputazione ferrarese di storia patria, XXI (1912), 1, pp. 35-159; N. Bonifazi, Giovan Battista Pigna, il Tasso e il «Ben divino», in Studi tassiani, X (1960), pp. 53-71; G. Venturini, Le postille di Orazio Ariosti ai «Romanzi» del Pigna, in Lettere italiane, XXI (1969), pp. 54-61; A. Di Benedetto, Due canzonieri ferraresi dell’età del Tasso, in Tasso, minori e minimi a Ferrara, Pisa 1970, pp. 175-93; D. Nolan, Gli «Amori» di Giovan Battista Pigna riscoperti, in Deputazione provinciale ferrarese di storia patria. Atti e memorie, s. 3, XXI (1975), pp. 59-83; R. Baldi, Giovan Battista Pigna. Uno scrittore politico nella Ferrara del Cinquecento, Genova 1983; P. Larivaille, Familiari, consiglieri, segretari ne «ll Principe» di Giambattista Pigna, in Familia del principe e famiglia aristocratica, a cura di C. Mozzarelli, Roma 1988, pp. 27-50; D. Boccassini, «Romanzevoli muse»: Giraldi, Pigna e la questione del poema cavalleresco, in Schifanoia, 1992, n. 13-14, pp. 203-216; S. Ritrovato, «I romanzi» di Giovan Battista Pigna (1554): interpretazione di un genere moderno, in Studi e problemi di critica testuale, 1996, n. 52, pp. 131-151; B. Mori, Le Vite ariostesche del Fornari, Pigna e Garofalo, in Schifanoia, 1997, n. 17-18, pp. 135-178; S. Bene-detti, Accusa e smascheramento del «furto» a metà Cinquecento: riflessioni sul plagio critico intorno alla polemica tra Giovan Battista Pigna e Giovan Battista Giraldi Cinzio, in Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, Atti del Seminario di studi di Roma (30-31 maggio 1996), a cura di R. Gigliucci, Roma 1998, pp. 233-261; R. Gigliucci, G.B. N. (il Pigna), in Lirica rinascimentale, a cura di Id., pp. 859-876; Id., Fuoco nero tra Pigna e Tasso, in Id., Giù verso l’alto. Luoghi e dintorni tassiani, Manziana 2004, pp. 139-192; Les Poétiques italiennes du «roman». Simon Fòrnari, Jean-Baptiste Giraldi Cinzio, Jean-Baptiste Pigna, a cura di G. Giorgi, Paris 2005, passim.