MUSEFILO, Giovan Battista.
– Nato a Gubbio intorno alla metà degli anni Trenta del XV secolo, si professava coetaneo di Giovan Marco Cinico, i cui natali si datano attorno al 1430. Nulla si sa della famiglia di origine ed è solo da un documento della Regia Camera della Sommaria di Napoli del 9 settembre 1516 (De Frede, 1960, p. 132 n. 3) che si ricava il cognome di famiglia, Cacciaguerra, nonché il nome del figlio, forse primogenito, Giovanni Alfonso.
Per quanto oscura rimanga la sua prima formazione, è fuor di dubbio che godesse di una buona reputazione come precettore e grammatico. Non è del tutto peregrina l’ipotesi che la sua collocazione a Napoli in tale veste possa essere ascritta alla mediazione di Federico da Montefeltro, «fidelis degli Aragonesi» (Colapietra, 1999, p. 130 n. 10), che Musefilo celebrò in un'elegia latina composta probabilmente in occasione della sua ascesa al ducato di Urbino nel 1474. A marzo 1495 risale la testimonianza dello stesso Musefilo, secondo la quale egli aveva lavorato a Napoli «assidue per annos fere viginti… in sudando ad erudiendum filios… litteris, et moribus decorando» (Mastrojanni, 1895, p. 54) come precettore dei rampolli di Iñigo d’Avalos, gran camerlengo già con Alfonso il Magnanimo e che accrebbe la sua potenza sotto il regno di Ferrante I d’Aragona (1458-94). L’assunzione di Musefilo costituiva un tassello nella costruzione di quell’umanesimo cortigiano tenacemente perseguita da Iñigo d’Avalos, che si definiva «amatore delle sacre muse e fortissimo cacciatore» (Colapietra, 1999, p. 106 n. 6), tanto che, ancora nei primi anni Settanta, terminava due trattati sull’arte venatoria che il re in persona gli aveva commissionato. La scelta rispondeva all’esigenza del camerlengo di far avere ai figli non solo «laudabili costumi» ma anche «notizia delle lettere latine e di tutte le cose che s’appartengono a figliuoli di principi, come era lui», secondo la testimonianza di Vespasiano da Bisticci (Casciano, 2006, p. 212).
L'insegnamento di Musefilo fu appannaggio dei figli minori dell’Avalos: Alfonso, futuro marchese di Pescara, Rodrigo e Ippolita, i cui nomi ricorrono anche nelle esemplificazioni delle Institutiones grammaticae redatte da Musefilo come manuale a uso privato. Il carattere meramente compilativo dell’opera si vivacizza proprio mediante il ricorso a personaggi e situazioni reali. Nell’onomastica degli esempi si ritrovano anche i figli più maturi dell’Avalos (Martino, Costanza, Iñigo e Beatrice), come pure Giovan Marco Cinico, dal 1469 copista di corte e poi regio bibliotecario, di cui Musefilo si professò intimo amico e dal quale comprò ed ebbe in dono libri da lui stesso vergati. Si vantava di possedere una cospicua biblioteca privata presso la sua villa poco distante dalla capitale. Si dimostra uno spirito gioviale, amante della poesia, che ben conosceva la filosofia e i precetti dell’ars eloquendi, esigente e severo con gli allievi, ma estraneo alle punizioni corporali.
Alla morte di Iñigo, nel 1484, fu incaricato dalla vedova, Antonella d’Aquino, di governare il feudo di famiglia di Giffoni in cambio di una provvigione annua, concessa in perpetuo a lui e ai suoi eredi, di 12 once d’oro sull’arrendamento, ovvero sull’imposta del lanificio, privilegio che gli venne confermato anche dai funzionari francesi di Carlo VIII, dietro suo esplicito reclamo nel 1495.
Probabilmente poco prima della morte di Alfonso d’Avalos, sopravvenuta nel settembre di quello stesso anno, si occupò di riscuotere delle somme di denaro che alcuni ebrei dovevano a questo, ma soprattutto si occupò dell’educazione del figlio, Francesco Ferrante, rimasto orfano di entrambi i genitori ed affidato alla zia Costanza. Nel suo ruolo di maestro di grammatica fu affiancato dall’umanista Girolamo Borgia, cui spettò l’insegnamento di poesia e oratoria. Stando alla testimonianza di Paolo Giovio (1557, pp. 207, 216), pare che l’allievo si mostrasse piuttosto ritroso ai richiami del maestro, purtuttavia, grazie alla formazione ricevuta, fu capace di comporre, durante la convalescenza seguita alla battaglia di Ravenna (1512), un dialogo d’amore per la moglie Vittoria Colonna. Non si può escludere che Musefilo possa aver avuto dimestichezza anche con lei, dal momento che aveva presenziato nell’aprile 1507 alla sottoscrizione degli atti matrimoniali tra il suo allievo e la gentildonna e due anni dopo aveva partecipato alle nozze come testimone dello sposo.
Il suo prestigio e il suo credito si erano nel frattempo consolidati anche presso la corte degli Aragonesi. Nel 1487 «in onoranza della sua dottrina» ricevette «alcuni beni posti nella detta terra di Giffoni» (Minieri Riccio, 1881, p. 356) da parte di Ferrante I, già prodigo nei suoi confronti dell’omaggio di una clamide di porpora, volendo dar credito a un’esemplificazione che si legge nelle Institutiones (c. 32r). Nel 1495 ricoprì l’incarico di balivo della terra di Polla (Cannavale, 1895, nn. 2642 s.), per divenire in seguito cancelliere di Ferdinando II d’Aragona. Due lettere del sovrano, di cui una in latino, entrambe del marzo 1497, rivelano la piena fiducia del re in Musefilo per negoziare l’esilio volontario dell’impenitente barone Carlo di Sangro, già in rotta con Ferrante I: il re gli concesse il potere «plenum agendi tractandi paciscendi et concludenti nomine nostro ac permictendi quid quid vobis melius videbitur et placebit» (Minieri Riccio, 1881, p. 359), ma confermò anche i privilegi, le concessioni e le immunità derivanti per lui e i suoi eredi dalla terra di Giffoni per la «insignis tua probitas conanda facundia singularis doctrina moresque conspicui ac vite candor laudabilis… in honorem tuarum musarum et in aliquam compensationem dictorum servitiorum tuorum» (ibid., p. 360). Per questa missione Musefilo ebbe dieci ducati per le spese di viaggio. Al 29 giugno 1497 risale, invece, una «confirmatio et nova concessio bonorum stabilium e mobilium Polinori Ranocii Rencii marrani uxorum et filiorum de Gifono», mentre in data 7 aprile 1498 fu registrata a suo favore la «exemptio per se et heredibus ab omnibus fiscalibus functionibus ordinariis et extraordinariis» (De Frede, 1960, p. 134 n. 5).
Parallelamente a questi eventi si svolgeva anche il suo pieno inserimento nell’ambiente culturale napoletano, anche questo mediato dallo straordinario mecenatismo della corte aragonese e, nel caso in specie, da Iñigo d’Avalos che ospitò i sodali di Antonio Beccadelli (Panormita), al quale successe nel 1471 Giovanni Pontano. L’adesione all’Accademia Pontaniana, avvenuta molto per tempo stando alla cronologia redazionale delle Institutiones, comportò anche l’assunzione del nome umanistico di Musephilus, con cui è menzionato nel documento più antico che si conosca a suo riguardo, risalente al 16 dicembre 1490 (De Frede, 1960, p. 133 n. 2). Si guadagnò in primo luogo la stima di Pontano, che ne avrebbe fatto inizialmente uno degli interlocutori muti dell’Actius, poi omesso nella princeps del 1507 curata da Pietro Summonte. Secondo Monti (1969, p. 282, n. 61), il ripensamento è da attribuire allo stesso Pontano perché non poteva relegare Musefilo al ruolo di mera comparsa, o forse per motivi personali, visto che, all’epoca della composizione, Musefilo era cancelliere del re Ferdinando II, in un momento in cui Pontano aveva del tutto abbandonato gli incarichi politici. Un’operazione analoga potrebbe aver interessato anche l’originale per la stampa del De sermone, trasmesso dal cod. Pal. Vind. 3413 della Nationalbibliothek di Vienna, che presenta palesi interventi sull’onomastica operati ancora da Summonte (cfr. Monti Sabia, 1987, p. 318 n. 77). Benedetto Gareth, detto il Cariteo, gli indirizzò il sonetto Tu, Musephilo mio, giocondo amico, esaltando le sue doti poetiche (Percopo, 1892, p. 91), e nella Resposta contra li malivoli, non solo lo annovera con Pontano, Sannazaro, Gabriele Altilio e Summonte, ma lo saluta «Quintiliano al secol nostro / moderator de l’aspra gioventute» (ibid., p. 367), probabilmente alludendo all’attività di insegnamento svolta nello Studio napoletano, peraltro riaperto nel 1503 quando, consolidatosi il dominio spagnolo, la cattedra di humanitas, che fin dalla seconda metà del Quattrocento aveva raggiunto un considerevole prestigio grazie a insigni umanisti, fu appannaggio esclusivo dei pontaniani.
Con uno stipendio annuo di 40 ducati, fu proprio Musefilo ad aprire la serie nel 1507 come lettore di poesia; nell’anno accademico 1508-09 lesse le tragedie di Seneca, mentre per altri due anni (1509-10 e 1512) risulta lettore di umanità. Tuttavia, pur ricoprendo incarichi prestigiosi, anch’egli avvertì le conseguenze del mutato clima politico. Diverse volte dovette affrontare questioni di natura fiscale (luglio 1507 e gennaio 1508, finanche nel 1516 e nel 1532 da parte dei suoi eredi) e nel 1511 fu costretto a protestare per l’ingiusta tassazione applicata dal comune di Bairano su alcuni suoi possedimenti, a fronte del privilegio di immunità concessogli da re Federico (De Frede, 1960, pp. 138 s.; Cannavale, 1895, n. 2645).
Morì prima della fine di giugno 1512, quando toccò a Giovanni Alfonso «figlio et herede del condam Ioan Mosefilo, el quale have lecto la lectione de humanità» riscuotere la «provisione del dicto condam Ioanne per la ultima paga che è finita lo ultimo de jugno» (Percopo, 1893-96, p. 53).
In occasione della morte di Musefilo il pomponiano Pietro Gravina compose un epitaffio in cui esaltò l’oratore, il poeta, il maestro definendolo linguae decus (Casciano, 2006, p. 214 n. 29). Secondo Minieri Riccio (1881, p. 361), i suoi testi in versi e prosa sarebbero stati raccolti e pubblicati da Giovan Francesco di Capua, conte di Polena e suo allievo, ma nulla è stato rinvenuto al riguardo. Di Musefilo rimane l’elegia Cum modo per vacuas errarem littoris oras, dedicata al duca di Urbino, conservata nel cod. Urb. lat. 1193, cc. 197r-199r, della Biblioteca apostolica Vaticana e pubblicata da Cinquini (1911), composta non prima del 1472, anno della presa di Volterra celebrata tra le glorie militari di Federico (vv. 51 ss.). Inoltre, due note marginali di Giovanni Sambuco apposte al ms. Vind. lat. 9977 gli attribuiscono erroneamente una Elegia de Sylvia e un Epigramma che invece, secondo Altamura (1941, pp. 60 s.), appartengono a Girolamo Carbone, altro umanista della cerchia pontaniana.
Di certo l’opera cui è stata consegnata la memoria di Musefilo sono le Institutiones grammaticae a Io. Musephilo lucubrate, conservate nel ms. V.C.12 della Nazionale di Napoli, proveniente dal fondo Seripando della biblioteca del convento di S. Giovanni a Carbonara, come attesta la nota di possesso «Antonii Seripandi et amicorum» posta in calce all’ultimo foglio. Il codice, non autografo, di 74 fogli, doveva essere una copia di un certo prestigio: presenta una coperta pergamenacea, è redatto in una elegante umanistica corsiva con miniature in oro, verde e rosso, oltre a varie decorazioni, che ornano le lettere iniziali di ciascuna delle due parti in cui è suddiviso il testo, mentre in inchiostro rosso compaiono i titoli dei capitoli e gli autori classici citati. Nonostante il carattere un po’ frammentario, i dati interni autorizzano a collocarne la redazione tra il 1474 e la metà del decennio successivo. La prima sezione (cc. 1r-8v) è dedicata alla morfologia e alle quattro parti che la costituiscono (littera, sillaba, dictio e oratio), cui segue la trattazione incompleta delle otto parti del discorso; mentre la seconda (cc. 11r-73v) è occupata dal De verborum generibus et constructione. Non mancano affinità con l’analoga opera del Filalite, al secolo Bartolomeo De Scalis, stampata a Napoli nel 1475 e più volte riedita nel decennio successivo (Casciano, 2006, pp. 221 s.).
Nel novero degli eredi di Musefilo va citato Pirro, autore di alcune lettere scritte tra il dicembre 1539 e l’aprile 1541 al duca di Firenze Cosimo I de’ Medici, del quale era ministro insieme con Francesco Babbi presso la corte vicereale del suocero don Pedro de Toledo. Le lettere narrano delle scelleratezze commesse, con l’avallo del viceré, dai soldati spagnoli malpagati e del malcontento che ne scaturiva presso la popolazione.
Fonti e Bibl.: P. Giovio, La vita del signor Ferrando Davalo marchese di Pescara, Venezia 1557, pp. 207, 216; N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, pp. 138, 382; F. Palermo, Documenti relativi al tempo e al governo di don Pedro di Toledo viceré di Napoli dal 1532 al 1553, in Archivio storico italiano, IX (1846), pp. 96-114; C. Minieri Riccio, Biografie degli Accademici Alfonsini detti poi Pontaniani dal 1442 al 1543, Napoli 1881, pp. 355-361; E. Percopo, Le rime di Benedetto Gareth, detto il Chariteo, Napoli 1892, pp. 91 s., 367; Id., G. M., Pomponio Gaurico e Pietro Summonte lettori d’«Humanità» nello Studio di Napoli (1507-1525), in Atti della R. Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli, XVII (1893-96), 2, pp. 51-59; Id., Pomponio Gaurico umanista napoletano, Napoli 1894, p. 173; E. Cannavale, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento, Torino 1895, nn. 2642 s.; O. Mastrojanni, Sommario degli atti della Cancelleria di Carlo VIII a Napoli, in Archivio storico per le provincie napoletane, XX (1895), p. 54; A. Cinquini, Spigolature da codici manoscritti del secolo XV. Il Codice Vaticano-Urbinate Latino 1193, in Classici e neolatini, VII (1911), pp. 173-175; A. Altamura, L’Umanesimo nel Mezzogiorno d’Italia. Storia, bibliografie e testi inediti, Firenze 1941, pp. 60 s.; A. Silvestri, Maestri di grammatica in Giffoni alla fine del Quattrocento, Salerno 1950, p. 3; C. De Frede, I lettori di umanità nello Studio di Napoli durante il Rinascimento, Napoli 1960, pp. 113-140; P.O. Kristeller, Iter Italicum, I, London-Leiden 1963, p. 413; S. Thérault, Un cénacle humaniste de la Renaissance autour de Vittoria Colonna châtelaine d’Ischia, Firenze-Parigi 1968, pp. 279-281 e passim; M. Fuiano, Insegnamento e cultura a Napoli nel Rinascimento, Napoli 1973, pp. 10-58 e passim; S. Monti, Per la storia del testo dell’«Actius» di G. Pontano, in Rendiconti dell’Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli, XLIV (1969), pp. 259-292; L. Monti Sabia, Manipolazioni onomastiche del Summonte in testi Pontaniani, in Rinascimento meridionale e altri studi in onore di Mario Santoro, a cura di M.C. Cafisse et al., Napoli 1987, pp. 293-320; A. Della Rocca, L’umanesimo napoletano, Napoli 1988, pp. 27, 41; B. Figliuolo, La cultura a Napoli nel secondo Quattrocento. Ritratti di protagonisti, Udine 1997, p. 348; R. Colapietra, Baronaggio, umanesimo e territorio nel Rinascimento meridionale, Napoli 1999, ad ind.; P. Casciano, Una grammatica normativa del secondo Quattrocento: le «Institutiones grammaticae» del M., in Tradizioni grammaticali e linguistiche nell’umanesimo meridionale. Convegno internazionale di studi Lecce-Maglie, 26-28 ottobre 2005, a cura di P. Viti, Lecce 2006, pp. 209-225.