GELLI, Giovan Battista
Nacque a Firenze il 12 ag. 1498, nella parrocchia di S. Paolo, da Carlo di Bartolommeo e da madre sconosciuta. È accertato che il padre, venuto in città da Peretola, esercitava l'arte del vinattiere; la famiglia viveva agiatamente, come appare dai libri delle decime. Fiero della sua origine popolana, Carlo volle che il figlio apprendesse l'arte del "calzajuolo". Il G. fu membro di questa arte per tutta la vita, anche quando il favore del duca Cosimo I, lo stipendio di lettore di Dante e la fama di letterato avrebbero potuto facilmente garantirgli ogni agio. Egli esaltò questo aspetto della sua vita e l'immagine dell'artigiano-letterato, capace di elevarsi con lo studio e l'amore dei classici al di sopra della condizione destinatagli dalla fortuna, fu quella con la quale scelse di presentarsi sulla scena della cultura fiorentina.
Apprese il latino da un correttore delle stampe giuntine, Antonio Francini, mentre approfondì lo studio della filosofia con uno dei più noti professori dello Studio fiorentino, Francesco Verino; sicuramente di prima mano sono infatti gli aneddoti che il G. narra, nel ragionamento quarto dei Capricci del bottaio, sul metodo didattico di questo filosofo neoplatonico che aveva partecipato attivamente alla seconda Repubblica fiorentina e che era solito esporre la "divina filosofia d'Aristotele" in lingua volgare per poter essere capito da tutti (Opere, Torino 1976, p. 177). Non sembra invece che il G. abbia seguito l'insegnamento di Simone Porzio, filosofo aristotelico lettore nello Studio pisano, che conobbe in età già matura e del quale tradusse nel 1551 gli opuscoli filosofici.
Due elementi della sua formazione culturale il G. volle sottolineare: la partecipazione alle riunioni nei giardini di palazzo Rucellai e lo studio appassionato di Dante. Gli Orti Oricellari furono nei primi vent'anni del Cinquecento uno dei centri culturali fiorentini, forse il più importante e certo il più vivace. Se negli anni tra 1502 e 1506 si riunivano attorno a Bernardo Rucellai gli aristocratici antisoderiniani e gli intellettuali amanti dell'antico che vedevano nell'idealizzazione di Lorenzo il Magnifico e dei suoi tempi una possibile - per quanto astratta e letteraria - risposta alla crisi politica e culturale di Firenze, nel periodo successivo alla caduta della prima Repubblica e fino al 1522 gli Orti Oricellari furono dominati dagli interessi politici e dalla passione civile di giovani come Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni, Giovanni Battista Della Palla, Alessandro de' Pazzi; al loro centro erano gli storici, B. Varchi, Filippo de' Nerli, J. Nardi e sopra tutti, N. Machiavelli. La passione repubblicana, l'orgoglio aristocratico, il gusto per la letteratura antitirannica ne facevano un pericoloso gruppo di opposizione ai disegni di restaurazione medicea. Accanto al Machiavelli spiccava un altro personaggio originale, Antonio Brucioli, scrittore, editore e moralista che non nascose mai le sue simpatie per i luterani e tradusse la Bibbia ebraica in volgare. È naturale chiedersi cosa può aver accomunato il G., cauto simpatizzante mediceo alieno da veri interessi politici, a questo gruppo di aristocratici eterodossi e fin de race. Prudentemente egli sembra collocare l'esperienza degli Orti Oricellari in un lontano e misterioso passato, quasi ai limiti dell'infanzia, riducendola nei termini di una formazione esclusivamente letteraria e linguistica, di bel parlare e di buoni studi latini e volgari: così, nel Ragionamento sopra la difficultà di mettere in regole la nostra lingua (edito in P.F. Giambullari, Della lingua che si parla e si scrive in Firenze, Firenze, Torrentino, 1551) il G. ricorda di aver ascoltato i discorsi di Bernardo Rucellai, Francesco Cattani da Diacceto e del Vettori con la stessa attenzione che si presta agli oracoli (Opere, cit., p. 453).
Più sostanziose sono le tracce lasciate da Dante. Nella sua prima lettura dantesca ufficiale (Lettura di Giovanbattista Gelli sopra lo Inferno di Dante, letta nella Accademia Fiorentina, nel consolato di M. Guido Guidi e di Agnolo Borghini, Firenze, Sermartelli, 1554) il G. sottolinea la funzione civilizzatrice, l'opera di trasformazione morale e sociale che lo studio della Commedia dantesca ha realizzato nella sua vita di uomo semplice, non intellettuale di professione; opera che, tale e quale, viene riproposta ai Fiorentini attraverso la lettura pubblica e il commento. Come ai tempi di Lorenzo il Magnifico, la gloria di Dante è gloria cittadina, emblema della peculiarità e della superiorità di Firenze sulle altre città italiane e sul mondo intero. La sua grandezza è verificabile non tanto sul piano letterario - la bellezza del verso dantesco è scontata - quanto sul piano di una cultura integralmente umana, filosofica e morale, scientifica e teologica: fatta di cose e non di parole. Il G. riprende addirittura da G. Boccaccio, e poi dall'umanesimo quattrocentesco, la teoria del poeta-teologo per spiegare la sapienza che ogni uomo, in ogni tempo, può trovare nella "maravigliosissima" Commedia dantesca. È un'impostazione critica che si oppone nettamente a quella - più moderna e prestigiosa - di P. Bembo e degli intellettuali veneti trapiantati nella Curia papale. Il gusto classicista e la filosofia aristotelica del Bembo, la sua teoria della letteratura come colto intrattenimento cortigiano, lo avevano portato a preferire Petrarca a Dante e a bollare come troppo rozza e violenta la lingua della Commedia. Le letture del G., spiegando Dante con la tradizione fiorentina, esaltando il motivo del "viaggio" come processo di avvicinamento alla verità, valorizzando il significato figurale dell'invenzione dantesca, entrano a buon diritto nel dibattito culturale di quegli anni. Per il G., come per l'Accademia Fiorentina e per il suo protettore Cosimo de' Medici, duca di Firenze, la funzione della letteratura e della poesia è conoscitiva piuttosto che edonistica, fattore di civilizzazione e di aggregazione di tutta la cittadinanza, anche dei suoi strati più umili, attorno al principe.
L'esordio letterario del G. avvenne in età matura: di lui possediamo alcune poesie d'occasione che alternano toni burleschi a toni gravi d'ispirazione dantesca, due canti carnascialeschi, un Canto degli agucchiatori e una Canzone de' maestri di far specchi. Possiamo datare al 1537 un'egloga che celebra l'elezione di Cosimo de' Medici a capo primario della città di Firenze e al 1539 le stanze recitate in occasione dei festeggiamenti per le nozze fra il duca ed Eleonora di Toledo (Apparato per le feste nelle nozze dello illustriss. s. duca di Firenze, Firenze, Giunti, 1539). A questa modesta attività di versificatore il G. aggiunse un altrettanto modesto impegno civile e politico: nel 1524 venne squittinato per le arti minori e nel 1539 entrò a far parte del Collegio dei dodici buonuomini. Se tali magistrature sono in sé di poco conto, appaiono interessanti le date in cui furono ricoperte dal G., poiché dimostrano che egli passò indenne attraverso gli anni e le vicende cruciali della storia fiorentina, la congiura antimedicea dei giovani frequentatori degli Orti Oricellari (1522), la seconda Repubblica, l'assedio di Firenze, gli inizi del principato. Ne deduciamo che il G. fu un cauto simpatizzante dei Medici prima e un fedele sostenitore di Cosimo poi, anche se non troncò mai del tutto i rapporti con personaggi pericolosamente compromessi come il Brucioli, il Nardi e il Varchi: con quest'ultimo, bandito da Firenze, mantenne rapporti epistolari e cercò di facilitarne il ritorno in città, ponendosi come mediatore tra il più illustre degli intellettuali repubblicani e il duca (si vedano le lettere, datate 1542, riportate in Opere, Firenze 1855).
Insomma, il G. finisce per configurarsi come il letterato ideale del principato mediceo, perfettamente integrato e funzionale al tipo di politica culturale che Cosimo si accingeva a impostare e che è uno degli elementi più importanti del suo sistema politico. Il duca, ormai forte di un potere politico assoluto, non aveva bisogno di grandi intellettuali come Machiavelli o Guicciardini, creatori di sistemi geniali e astratti, aristocratici nei gusti e nella formazione culturale se non direttamente nel retaggio: egli preferì favorire la formazione di un ceto medio intellettuale, gratificato con incarichi e privilegi, legato personalmente a lui, felice di contribuire alla divulgazione della tradizione fiorentina senza superbia né d'ingegno né di casta, capace inoltre di accrescere il prestigio della città con opere che ne celebrassero la specificità e la originalità.
Caratteristica in quest'ultimo senso è un'operetta del G., il Trattatello sull'origine di Firenze, ideato prima del 1540 e visionato direttamente da Cosimo, nel quale il G. fa risalire l'origine di Firenze e della sua lingua a Noè, dunque alla più antica delle tribù ebraiche, gli Aramei.
L'argomentazione archeologica e filologica è piena di fantasia nel passaggio lingua aramaica-lingua etrusca-lingua fiorentina, ma lo scopo è chiaramente quello di scavalcare, in antichità e prestigio, il latino (quindi Roma, il Papato) affermando il primato della città sulla base di ragioni storico-mitologiche e cancellando il marchio di corruzione e decadenza che colpiva il volgare nei confronti del latino. È curioso che un'idea come l'approdo diretto dell'arca di Noè sul litorale toscano sia stata presa sul serio negli ambienti della neonata Accademia Fiorentina, tanto da determinare al suo interno schieramenti contrapposti: alla "setta" degli Aramei, formata dal G. e da P.F. Giambullari, si contrapposero Varchi e il Lasca (Antonfrancesco Grazzini): quest'ultimo irrise in numerosi sonetti i suoi avversari, attribuendo loro la responsabilità di aver snaturato uno dei caratteri originali della vita culturale fiorentina, le "compagnie", libere riunioni dove si discutevano temi letterari, si componevano versi e si rappresentavano testi teatrali.
La trasformazione dell'Accademia degli Umidi in Accademia Fiorentina, avvenuta nel 1541, era stato infatti un segno importante della chiusura in senso autoritario della vita culturale cittadina. I giovani della media e alta borghesia mercantile che erano soliti riunirsi in casa di Francesco Mazzuoli, lo Stradino, approfittando per i loro interessi letterari della ricca biblioteca di antichi testi volgari messa insieme da questo originale personaggio, antico mercante e poi soldato al seguito di Giovanni delle Bande Nere (padre di Cosimo), costituivano una compagnia bizzarra, libera nei costumi, nelle opinioni politiche e religiose. Un personaggio come il Lasca, mosso da una smisurata ambizione, che aveva esordito con poesie religiose d'impronta evangelica - alcune delle quali erroneamente attribuite a Vittoria Colonna - occupava il centro del gruppo. Ma nel 1537 Cosimo, temendo quei complotti che già nel passato avevano trovato terreno favorevolissimo nei gruppi intellettuali, restrinse le libertà di cui avevano finora goduto le compagnie. Gli amici dello Stradino, grazie al favore di cui costui godeva presso il duca, ottennero una più o meno esplicita autorizzazione e costituirono l'Accademia degli Umidi, con ordinamenti e statuti approvati. All'inizio del 1540 il G. entrò in questa Accademia e vi restò per un anno fino al completamento della sua trasformazione in Accademia Fiorentina.
Il favore e i privilegi concessi all'Accademia da Cosimo aumentarono man mano che si irrigidivano la struttura organizzativa e i controlli sulla forma e sulla sostanza della sua attività. Le riunioni avvenivano prima in una sala di S. Maria Novella donata agli accademici, poi in palazzo Vecchio nel salone dei Dugento; il console che per un anno dirigeva le attività diventò una carica dello Stato, con stipendio pubblico, ed era rettore dello Studio fiorentino; anche i due censori che dovevano esaminare i lavori degli accademici erano stipendiati dall'Erario, ed esercitavano un controllo sulla stampa. L'attività centrale dell'Accademia era costituita dalle lezioni pubbliche settimanali, a cui tutta la cittadinanza era invitata, potente mezzo di diffusione dell'ideologia cosimiana. Se gli argomenti delle lezioni erano per lo più letterari e filosofici, caratteristico è il metodo con il quale venivano svolte, attento a ogni aspetto del sapere, in particolare a quello legato alle scienze esatte e alle scienze naturali. Il disegno di Cosimo era infatti quello di interessare i suoi sudditi ad argomenti che, non avendo niente a che fare con la politica, garantissero tuttavia la formazione di una classe dirigente efficiente, moderna e capace. Il G., che era stato tra i fondatori dell'Accademia Fiorentina, per la sua stessa formazione e origine sociale condivideva sinceramente questa nuova impostazione, paradossalmente più democratica e aperta verso le classi popolari di quanto non fosse stato l'aristocratico classicismo dell'età repubblicana. Ormai la pubblicità e il controllo dei contenuti erano garanzia di una cultura di cose e non di parole, di valori e non di esercitazioni formali.
Da questo momento in poi il G. svolse tutta la sua attività letteraria all'interno dell'Accademia Fiorentina, della quale divenne uno dei membri più autorevoli ed equilibrati: nel 1542 fu nominato censore, nel 1548 fu eletto console, e negli anni tra il '40 e il '50 tenne tre lezioni sulla Commedia dantesca (Paradiso, XXVI, vv. 124-138; Purgatorio, XVI, vv. 85-94; ibid., XXVII, vv. 127-142) e sette sulle Rime del Petrarca. Nel 1550 fece parte per un anno della commissione che aveva avuto dal duca l'incarico di riformare la lingua fiorentina, poi si dimise motivando il suo rifiuto, nel già menzionato Ragionamento sopra la difficoltà di mettere in regole la nostra lingua, con il fatto che la lingua, finché in uso, è un organismo vivente che non è possibile codificare in modo sicuro: e la vitalità di una lingua è verificata solo dall'esistenza di una comunità nazionale forte sul piano sociale, economico, politico e culturale, condizioni che attualmente sono possedute soltanto da Firenze. Nel 1553 venne designato, per espresso volere del duca, a leggere e commentare l'Inferno, mentre al Varchi, ormai purgato del suo passato repubblicano, fu affidato il commento del Canzoniere petrarchesco.
Tra il 1543 e il 1553 furono composte e apparvero a stampa le opere più importanti del Gelli. Una commedia, La sporta (Firenze, Giunti, 1543), ripercorre la strada maestra della commedia regolare cinquecentesca farcendo il canovaccio plautino dell'Aulularia (un vecchio avaro, una sporta piena di danaro gelosamente custodita, un servo astuto e di buon animo, una giovinetta incinta, figlia dell'avaro, che potrà, grazie alla sporta, sposare lo studente povero di cui è innamorata) con elementi tratti dall'osservazione del costume contemporaneo e con motivi più scopertamente ideologici. Questi, che danno alla commedia un'immediata connotazione d'autore, sono l'interesse linguistico per gli usi del parlato fiorentino e la satira della devozione popolare. Nel prologo l'autore, consapevole della eterogeneità di entrambi questi motivi rispetto all'organismo della commedia erudita, risponde alle inevitabili critiche adducendo l'inoppugnabile verità dei fatti e l'esperienza diretta della vita popolare e del suo linguaggio.
Nella Sporta la compattezza del genere comico riesce ancora ad assorbire in modo indolore la presenza di elementi che sarebbero stati più adatti a un trattato sulla lingua o a un discorso sulla degenerazione della pratica religiosa; I capricci del bottaio (Firenze, Doni, 1546) e La Circe (ibid., Torrentino, 1549), le due opere più importanti del G., sono organismi letterari ormai disgregati dall'umorismo e dal paradosso.
I capricci, dedicati al mercante fiorentino Tommaso Baroncelli, sono dieci dialoghi tra "un certo Giusto bottaio da San Pier Maggiore" e la sua anima: si svolgono all'alba nella fredda stanzetta in cui Giusto vive, prima che il vecchio artigiano se ne vada alle faccende giornaliere. La cornice narrativa sembra introdurre il lettore in un mondo comico, parodia e abbassamento di quei dialoghi che, nella trattatistica di primo Cinquecento, dibattevano nelle corti e nei giardini dei palazzi aristocratici alti problemi morali, educativi e di comportamento: qui abbiamo invece un ser Bindo notaio che, ascoltando il vecchio parlottare tra sé, intrigato dai suoi "ghiribizzi", decide di trascriverli.
In realtà il G. si prefisse di sviluppare nei suoi dialoghi un discorso organico sull'uomo, esponendo un vero e proprio sistema di pensiero. È, nelle sue intenzioni, una riflessione in interiore homine, poiché Giusto e Anima sono un'unica realtà, le cui voci appaiono distinte solo per esigenze rappresentative: e il G. è troppo attento lettore di Aristotele e di Dante (le tre lezioni sul Purgatorio affrontano il problema della creazione dell'anima) per cadere nella trappola del misticismo platonico. Questa polarizzazione del punto di vista se da un lato facilita la chiarezza degli argomenti e delle soluzioni proposte, dall'altro disperde il fascino delle voci diverse, socialmente individualizzate, dal cui concerto scaturiva - nei grandi trattati di primo Cinquecento - limpidamente il senso.
Le idee del G., la sua filosofia esplicita, sono presto definite: il fine della vita umana è la contemplazione della verità, sia naturale (importanza dunque dello studio, della conoscenza scientifica e letteraria), sia soprannaturale. La fede nell'aldilà - che sola può sconfiggere la paura della morte -, dono gratuito di Dio, va approfondita attraverso una conoscenza diretta dei testi sacri quale troviamo nella tradizione ebraica. La cultura e la religione vanno condivise, come fecero Matteo Palmieri, Francesco Verino e fra Girolamo Savonarola, non tenute gelosamente nascoste: c'è infatti un sacerdozio universale dei credenti, e c'è una comunità sovranazionale dei dotti, che spezza ogni gerarchia. Ne consegue la necessità di tradurre i testi sacri e le opere scientifiche in lingua volgare, per arricchire una cultura locale di cui va sempre indagata e approfondita la tradizione. Una volta risolti i problemi più importanti Anima suggerisce a Giusto come affrontare i minuti affari di ogni giorno, detta regole d'igiene, consiglia in qual modo prepararsi a morire. Insomma, convince Giusto che, se qualche volta tenesse presenti i suoi suggerimenti, sarebbe molto più felice.
Nonostante la perentorietà e talora lo schematismo delle sue affermazioni, l'operetta del G. non ha nulla di tetro. La gioia mondana, la curiosità per i fatti minuti della vita cittadina e per la bizzarria del cuore umano, la visione disincantata e materialista del reale occupano uno spazio importante nel testo esprimendosi sempre nelle parole di Giusto e spesso anche in quelle di Anima, che talvolta appare contagiata dal gusto per l'aneddoto e per l'osservazione pungente del bottaio.
In tal modo I capricci mescolano, senza un ordine prestabilito, di fatto "capricciosamente", citazioni classiche, aneddoti contemporanei, versetti della Bibbia, cultura popolare e testi apocrifi del Nuovo Testamento, Plinio, Macrobio, divagazioni curiose. Lo sfondo serio del trattato morale appare deformato dalla presenza inaspettata, disordinata e spontanea, di materiali eterogenei che ne falsano la prospettiva, che ne confondono il significato ultimo. La "conversione" di Giusto alla fine del decimo ragionamento sembra poco più che un espediente per concludere la storia: la voce idealizzante di Anima potrebbe continuare a infrangersi all'infinito contro l'umore malinconico e l'ironia del vecchio artigiano. Chi avrà finalmente ragione, Giusto - nome significativo - o la sua anima?
Come nei dipinti del tardo Michelangelo o del Pontormo, pittori che il G. conosceva e ammirava, la prospettiva vacilla e un particolare insignificante - dal punto di vista della storia o del soggetto - appare in primo piano catturando l'attenzione dello spettatore, così nei Capricci la figura di Giusto, subito criticata e fermamente corretta da Anima, è la sola che il lettore riesca a ricordare. Il gusto della pittura manierista è dunque penetrato più o meno consapevolmente in questa opera del G., contribuendo all'indebolimento di un genere (la trattatistica) che il Rinascimento aveva poggiato sulla ragione.
È un fatto che le opinioni religiose del G. nei Capricci suscitarono l'attenzione dell'Inquisizione e provocarono la messa all'Indice del libro nel 1554: a più riprese l'autore professa un cristianesimo fortemente venato di evangelismo, attento alla lettera e allo spirito delle Scritture piuttosto che al magistero della Chiesa, sostiene con forza il sacerdozio dei credenti e afferma, appoggiandosi su citazioni paoline, la giustificazione per fede. L'elogio di Matteo Palmieri e quello, assai blando, dei luterani sono meno compromettenti del deciso rifiuto della teologia razionale e del gusto per l'aneddotica blasfema, come la storia del testamento di Lazzaro nel quale doveva essere descritto l'aldilà e che invece consisteva in un foglio bianco: fatto tenuto accuratamente nascosto da tutti i pontefici.
Sono opinioni eterodosse, tratti anticlericali, affermazioni di cristianesimo radicale che non hanno niente di eretico: perfettamente tollerati e visti con benevolenza finché la politica cosimiana rimaneva fortemente avversa al Papato, dunque fino al 1549. Subito dopo, il riavvicinamento tra Firenze e Roma comportò la fine dell'anticonformismo che, sul piano religioso, aveva caratterizzato l'Accademia Fiorentina. La messa all'Indice dei Capricci ne fu probabilmente una conseguenza.
Il secondo dialogo del G., La Circe, stampato nel 1549, è dedicato a Cosimo de' Medici duca di Firenze e subito adduce l'autorità di Plutarco, insieme a Plinio fonte principale dell'opera, per celebrare la sacralità del potere dei principi, "i veri simulacri e le vere immagini d'Iddio, con ciò sia cosa che e' tenghino quel grado negli stati loro che tiene Dio ottimo e grandissimo nello universo".
Se I capricci sviluppavano le loro argomentazioni nello spazio realistico della città di Firenze, modesto come la stanza di Giusto, La Circe mette in scena personaggi mitologici, li colloca in un paesaggio simbolico e aspira a proporsi come vera e propria operetta morale. Ulisse ottiene da Circe il permesso di riportare con sé in patria tutti i greci che, trasformati dalla maga in bestie, acconsentano a riprendere la forma umana. Lungo la riva deserta del mare egli incontra undici animali (l'ostrica e la talpa, un tempo pescatore e contadino; una serpe, una lepre e un capro, rispettivamente medico, gentiluomo e giurista; una cerva, che era stata moglie di un filosofo; il leone, il cane, il cavallo e il vitello, emblemi delle quattro virtù che sono il cardine della vita civile, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza; ultimo l'elefante, che in vita era stato un filosofo). Tutti, salvo l'elefante, respingono la proposta di Ulisse e dimostrano con logica implacabile che, vista l'esperienza concreta di ciascuno, la condizione animale è assai più gradevole, sicura e razionale della condizione umana: soltanto l'uomo infatti piange nel venire al mondo e ben a ragione poiché la vita umana è un continuo combattimento, una sofferenza senza tregua. La natura, che alle bestie concede almeno un'istintiva e immemore felicità, è spietata nei confronti dell'uomo, davvero - leopardianamente - matrigna.
Il problema, nella Circe, si pone dunque nei termini di un contrasto tra natura e ragione, materia e spirito; il raziocinante Ulisse, per quanto cocciuto e fiero dei suoi argomenti aristotelici - che sono anche quelli dell'autore: l'uomo potrebbe, con la ragione, la volontà e il libero arbitrio, sconfiggere la natura ostile ed elevarsi alla contemplazione della verità - non può negare la sua sconfitta di fronte agli argomenti animaleschi e si prepara alla fuga.
L'incontro con l'elefante-filosofo Aglafemo rende possibile un lieto fine della storia, anche se il significato ultimo del dialogo resta, in definitiva, ambiguo. L'elefante è convinto a ritornare uomo non tanto dagli argomenti filosofici di Ulisse, bollati a un certo punto come "chimere e ghiribizzi", quanto dal fatto di intravedere dietro di essi la realtà dell'amore di Dio per l'uomo. È un Dio che viene sempre chiamato, paganamente, Prima Cagione dell'Universo; nondimeno, quello che compie Aglafemo e viene proposto al lettore è un salto nella fede, un passaggio razionalmente inspiegabile.
Il quadro pessimistico della natura e della società umana, portato avanti per nove dialoghi con osservazioni acute e spesso pungenti di psicologia e di costume, la visione dell'uomo come la più infelice di tutte le creature, si conclude dunque con un sorprendente inno alla nobiltà dell'uomo, perfezione del creato. Anche nella Circe, come nei Capricci del bottaio, la prospettiva decentrata, la sproporzione delle parti, l'argomentazione paradossale mettono in luce il fondo negativo, oscuro di una visione del reale che l'ottimismo della volontà non riesce a illuminare fino in fondo.
Anche il secondo dialogo del G. sembrò troppo originale nel clima irrigidito della Controriforma: tradotto in spagnolo nel 1551, fu messo all'Indice in Spagna nel 1559; nell'Indice italiano apparve nel 1590.
Tra il 1551 e il 1553 il G. si dedicò a un'intensa attività di traduttore sia degli opuscoli latini del filosofo napoletano Simone Porzio, professore a Pisa (Trattato de colori de gl'occhi, 1551; Se l'huomo diventa buono o cattivo volontariamente, 1551; Disputa sopra quella fanciulla della Magna la quale visse due anni senza mangiare, 1551; Modo di orare christianamente, 1551), sia della Vita di Alfonso da Este di Paolo Giovio nel 1553 (tutti editi a Firenze presso L. Torrentino). Tradusse inoltre in versi volgari l'Ecuba di Euripide (s.n.t.), servendosi della versione latina di Erasmo stampata a Venezia nel 1508.
Se questi due ultimi testi rispondono al bisogno di divulgazione culturale che è un cardine della politica di Cosimo, gli opuscoli del Porzio, stampati nel 1551, sono la spia di interessi più spiccati verso l'aristotelismo radicale, intriso di materialismo e sospetto di eresia. Il Porzio, nel suo scritto più importante, De humana mente disputatio, sosteneva infatti la tesi della mortalità dell'anima: una traduzione in volgare di questo trattato, anonima, che potrebbe essere opera del G. (cfr. B. Gamba, Serie dei testi di lingua e di altre opere importanti nella italiana letteratura scritte dal sec. XIV al XIX, Venezia 1839, p. 466), è tuttora manoscritta alla Bibliothèque nationale di Parigi (A. Marsand, I manoscritti italiani della Regia Biblioteca parigina, Parigi 1835, p. 80).
L'ultima opera originale del G. è la commedia Lo errore, edita nel 1556 a Firenze presso Torrentino, ma rappresentata un anno prima in casa di Filippo Pandolini dalla compagnia dei Fantastichi. Ancora uno spunto machiavelliano, l'amore senile della Clizia, e ancora un sospetto di plagio accompagnarono questa commedia appesantita da lunghe tirate moralistiche.
Nel 1557 il G. si preoccupò di redigere un testamento nel quale lasciava la moglie e le due figlie eredi di tutti i suoi averi, la casa fiorentina di via de' Fossi e un podere. Nei suoi ultimi anni egli cercò di far togliere il marchio dell'eresia dai Capricci del bottaio. Nel corso del 1562 ci fu uno scambio epistolare tra il G. e monsignor Ludovico Beccadelli, segretario della commissione per l'Indice, nel quale il G. si diceva disposto a emendare quei passi della sua opera "che mi sono opposti che io ho detto troppo licentiosamente contro le cerimonie della Chiesa". Nelle due lettere autografe superstiti di questa corrispondenza il G. appare pieno di umiltà e di esteriore compunzione, si dichiara pentito e devoto e afferma di non aver mai pensato di potere scandalizzare alcuno. Eppure, non possiamo non avvertire il suo tono blandamente ironico nel sottolineare la "dilettione e correttione fraterna" degli inquisitori, né un atteggiamento più risentito quando distingue, citando s. Agostino, tra errore ed eresia; o quando ribadisce la differenza tra opinione del mondo e giudizio di Dio "cui ogni cosa è palese": nella sicurezza che il verdetto finale appartiene soltanto a Colui che è il solo scrutatore dei cuori. È un fatto inoltre che il G., a parole disposto a emendare tutti i passi incriminati, fu poi assai avaro di correzioni: basta confrontare la lista delle modifiche fatta dal G., presente tra le carte del Beccadelli, e quella - assai più ampia - richiesta dai censori. I capricci rimasero all'Indice nonostante l'edizione veneziana del 1605 (Capricci del bottaio di G.B. Gelli, accademico fiorentino, novamente corretta et tolto via tutto quello che poteva offendere il bell'animo del pio lettore dal rev. padre Livio Legge).
Il G. morì a Firenze il 24 luglio 1563, e venne sepolto nella tomba acquistata dal padre in S. Maria Novella. Come nella consuetudine dell'Accademia Fiorentina, fu pronunciata da Michele Capri un'orazione funebre che esaltava nel G. la bontà naturale, il perfetto equilibrio di vita, la generosità (Firenze, Torrentino, 1563). Assai pungente fu invece il sonetto che il Lasca, memore degli antichi contrasti in seno all'Accademia, compose "in morte di Gelli": un poeta mediocre e troppo fortunato, dall'incongrua fama di filosofo morale, un uomo né dotto né ignorante, non intelligente ma neppure del tutto sciocco.
Opere: un elenco delle edizioni cinquecentine delle opere del G. è riportato in Opere, a cura di D. Maestri, Torino 1976, pp. 37-39; Delle opere di G.B. Gelli, a cura di F. Reina, Torino 1804-07; Opere, a cura di A. Gelli, Firenze 1855; Lezioni petrarchesche, a cura di C. Negroni, Bologna 1884; Letture edite e inedite di G.B. Gelli sopra la Commedia di Dante, a cura di C. Negroni, Firenze 1887; Trattatello dell'origine di Firenze, a cura di M. Barbi, ibid. 1894 (ora ripubblicato a cura di A. D'Alessandro in Atti e memorie dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria", XLIV [1979], pp. 59-122); C. Singleton, Canti carnascialeschi del Rinascimento, Bari 1936, pp. 351 ss.; Opere, a cura di I. Sanesi, Torino 1952; A.L. De Gaetano, Tre lettere inedite di G.B. G. e la purgazione dei Capricci del bottaio, in Giorn. stor. della letteratura italiana, CXXXIV (1957), pp. 298-313; Dialoghi, a cura di R. Tissoni, Bari 1967; Opere, a cura di A. Corona Alesina, Napoli 1969.
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