COLLOREDO, Giovan Battista
Figlio di Orazio (1578-1648) - un Colloredo della linea di Bernardo) a sua volta figlio di Curzio (1531-1612), che diverrà nel 1624 conte imperiale e nel 1648 barone di Waldsee - e di Lucia, figlia del conte Ermes di Porcia (a sua volta figlio di Ascanio, da non confondere coll'omonimo figlio di Antonio), nacque a Colloredo di Monte Albano (Udine), nel castello di famiglia (la massiccia costruzione che, venute meno le originarie funzioni difensive, è destinata, nel corso del Seicento, a ingentilirsi e ad arricchirsi di pacifici dettagli), il 10 febbr. 1609; ed ebbe, al fonte battesimale, per padrino il luogotenente del Friuli Bernardino Belegno.
Nobiltà prestigiosa quella del C., ma anche famiglia numerosa e dispendiosa. È infatti, il terzo di nove fratelli: hanno visto la luce prima di lui Caterina (1606-1633), che andrà sposa a Maurizio di Strassoldo, e Claudia (1607-1678) che, accasata ad un Colloredo d'un altro ramo, Fabio, sarà madre, tra l'altro, del cardinale Leandro; nascono dopo di lui Camillo (1612-1685), che sarà al servizio della casa d'Este e maestro di camera nella corte medicea; Curzio (1619-1662), che militerà negli eserciti cesarei; Francesca, Maddalena, Ermes, il futuro poeta, Vittoria.
È opportuno, pertanto, che il C. provveda al più presto a se stesso. Appena sedicenne non si lascia, perciò, sfuggire l'occasione d'impiego militare offertagli dalla guerra dei Trent'anni. Per il rampollo nobiliare essa è invito all'avventura, speranza di gloria, prospettiva di carriera e di guadagno. Fiducioso, inoltre, nell'appoggio autorevole di Rodolfo Colloredo appartenente ad un altro ramo della casata, il C. si arruola.
La decisione dell'adolescente si rivela ponderata, ché la premiano i risultati. Ben presto capitano di contingenti di cavalleria e fanteria, è quindi, per sette anni, in qualità di tenente colonnello, al comando dei reggimento di Rodolfo Colloredo; si distingue per ardire e, nel contempo, acquista una notevole esperienza. Di particolare rilievo il suo comportamento a Breitenfeld, dove, il 2 nov. 1642, gli Svedesi battono duramente le truppe imperiali: alla testa di quattrocento uomini scelti riesce, momentaneamente, a rompere lo schieramento nemico e solo perché non adeguatamente appoggiato lo sfondamento non ha effetto. Isolato, anzi, solo a fatica riesce a liberarsi. Favorevolmente impressionato l'arciduca Leopoldo lo pone, in premio, a capo del proprio reggimento, alla guida del quale il C. fornisce ulteriori prove di perizia e coraggio. Ma, col venir meno del conflitto, svaniscono, per il C., le possibilità di maggiori riconoscimenti se preferisce, al più tardi all'inizio del 1648, ritornare a "casa", richiamato e trattenuto pure dalla "urgenza di aggiustar alcuni negozi famigliari" complicatisi specie "dopo la morte", sopraggiunta in quel torno di tempo, del padre.
Così Ciro di Pers - suo cugino, figlio di Ginevra Colloredo, una sorella del padre del C. - informa il patrizio veneziano Alvise Molin al quale fa soprattutto presente come al di là dell'esigenza di curare i propri interessi, abbia animato il C. al rientro la più "risoluta disposizione" di "servire" la Repubblica, "suo principe naturale", nella congiuntura gravissima della lotta per la difesa di Candia. Ed è il Molin stesso a caldeggiare l'assunzione del C. sotto le insegne venete, anche se, prima di lui, il 18 gennaio, l'ambasciatore Nicolò Sagredo aveva scritto da Praga che tra i molti "capi" licenziatisi v'è, appunto, "il colonnello" C. "soggetto molto stimato valoroso... et atto a reggere l'infanteria in particolare".
Prontamente accolta la raccomandazione, il Senato, il 13 marzo 1648, prende atto della "grande essistimatione" dovuta al C. per le "segnallate prove" di "valore" da lui "rese" nel corso della sua ultraventennale partecipazione ai "sanguinosi conflitti... della Germania"; e delibera "però" che "sia condotto ai servitii" della Serenissima "per anni cinque di fermo e doi di rispetto... con stipendio" di 4.000 ducati annui, "dovendo... servire dove e come... sarà" a lui "comandato".
Fissata, pel momento, la ragguardevole retribuzione, i compiti sono ancora da precisare. In proposito il Pregadi è piuttosto oscillante: dapprima, il 9 maggio, lo destina all'"ubbidienza" del provveditor generale alle tre isole, "con patente di commandare a tutte le militie, officiali, capi da guerra e stipendiati"; quindi, il 30giugno, ritorna sulla decisione, sottoponendolo direttamente al provveditore generale di Terraferma, sempre - dato che si tratta di "soggetto qualificato per nascita e... valore" - con diritto al "commando et... precedenza... sopra tutte le militie, capi da guerra et governatori". Ma nemmeno questa volta la destinazione è definitiva: il C., "personaggio nostro", delibera il Senato il 12 dicembre, venga "chiamato di Terraferma" e "spedito all'obbedienza del capitano general nostro da Mar con carica di general del stato nel quale doverà comandare a tutte le militie e cappi da guerra e trattenersi a beneplacito" dello stesso Pregadi. "Haverà - precisa ulteriormente la "parte" - il loco doppo quei capi che intervengono con voto deliberativo nella consulta. L'istesso s'intend'anco occorrendo lo sbarco nel regno di Candia, dove pure sarà sottoposto al governator general dell'armi del regno predetto. Partirà con le prime navi che saranno alla vella per ritrovarsi quanto prima al loco del bisogno". E, a rafforzamento e prestigio della sua autorità, il Senato gli assegna "dodici lanze spezzate" e due "aggiutanti".
"Generale dello sbarco in armata", insomma, il C., come insistono posteriori delibere senatorie. Ma sino al marzo del 1649 non risulta - senza sua colpa, ad ogni modo - partito, per quanto il capitano generale da Mar Alvise Mocenigo ne solleciti l'arrivo. "Più presto" raggiungerà la sede, scrive il 28 al Senato questi, meglio sarà. Finalmente, l'8 maggio, il provveditore generale a Candia Antonio Lippomano annuncia che le "4 navi espedite" da Venezia sono approdate "alla Standia", il 6, "con la persona" del C., il quale, il 7, è stato "ricevuto" con unanime soddisfazione.
È appagato il "desiderio" di tutti che "le armi di questa piazza siino dirette da soggetto prudente, d'intelligenza e valore". Purtroppo il denaro ch'egli reca è - rispetto all'accumularsi dei debiti e all'aumento vertiginoso delle spese - "summa... insensibile"; quanto, poi, alle quattro compagnie di fanti con lui sbarcate, solo una è di "buona gente", mentre le altre danno poco affidamento, composte come sono di "ragazzi" male in arnese. Ciò non toglie che la presenza del C. rinvigorisca la difesa: non appena insediato nelle sue funzioni "serve" come "governator generale dell'armi" attesta Mocenigo), il suo impegno è assiduo, generoso, competente. Dedica particolare attenzione alle fortificazioni; s'adopera, con motivate argomentazioni, perché venga, anzitutto, privilegiata la difesa della capitale. Non dovrebbe, a suo avviso, essere lesinato alcuno sforzo; tutto il denaro andrebbe utilizzato per questa; su questa andrebbero concentrati quasi tutti gli effettivi disponibili a costo di sguamire la flotta. Le truppe, fa presente, bisogna "levarle dall'armata"; per salvare la città va corso anche il rischio di "disarmare tutte le galere". In effetti i Turchi, agevolati dal continuo afflusso di "gente" dalla Canea, esasperano i loro "assalti", tentano di superare, via via, le "fortificationi esteriori". E, alla fine d'agosto, infittiscono, a loro volta, le opere fortificatorie per contrapporle a quelle venete. Sono giunti - così una lettera, dell'8 settembre, di Mocenigo - "a certa eminenza" ed hanno iniziato a "piantar gabbioni per colocarci il loro canone". Il C. progetta una replica a fondo: far scattare "una ben concertata sortita" non solo per infliggere perdite al nemico, ma anche per obbligarlo ad "accorer in grosso numero a quella parte, facendo poi volar un... fornello... carico... verso quel sito". Piano parzialmente realizzato. "Seguì - così sempre la lettera di Mocenigo - la sortita... con tutte le regole più appropriate et migliori. Et si diportorno i nostri con tanto coraggio che, fuggiti et malmenati i turchi nelle stesse loro linee e trinciere, ne causorono loro un duro colpo, accresciuto" dal concomitante fuoco dell'artiglieria scatenato "dalle mura et dalle fortificationi esteriori più vicine". Dopo di che si svolse, ordinatamente, la ritirata, non accompagnata però dalla simultanea devastazione nelle file ottomane provocata dalla deflagrazione del "fornello"; questo, infatti, esplose, ma senza investire il "luoco del bisogno". A dire il vero il C. l'aveva previsto e perciò avrebbe preferito sospendere "l'ordine di farlo volare".
Non ha tregua, in settembre e all'inizio d'ottobre, l'"attacco molestissimo" della piazza; vigorosa la presenza del C. nelle varie "fattioni". Ma lo preoccupa il dispendio di forze: mentre l'avversario non ha difficoltà a rimpiazzare le perdite (peraltro più numerose), si assottiglia, invece, il numero dei difensori. Perciò il C. tenta d'escogitare, assieme agli ingegneri, un sistema di smantellamento delle postazioni ottomane al coperto, tale da evitare il logorio quotidiano delle "piccole fattioni" che mette a repentaglio troppe vite. Purtroppo, la piazza assediata non può valersi a lungo della sua lungimiranza. Il 13 ottobre muore "colto" da una "moschettata" durante un giro di ispezione, come informa Lippomano.
"Trovandosi sul baluardo Betlemme - ragguaglia più diffusamente Mocenigo - "ad una di quelle canoniere, giunse di lontano da una delle linee turchesche balla fattale di moschettata nemica che, colpitolo nel ventre e trapassatele le viscere, lo constitul in puoche hore in stato di render lo spirito a Dio, come seguì, con tutte le rassegnationi di christiana pietà". "Mori - aggiunge lo storico contemporaneo Brusoni - con tratti e sentimenti più da religioso che da soldato". Trasportato nel suo palazzo, assistito nell'atroce agonia dal vicario episcopale, volle lasciare "quantità di danaro alle chiese e monasteri" della città, donando, altresì, "tutta la sua argenteria" perché fosse distribuita ai poveri. Solenni le esequie, col concorso di "tutta la cittadinanza".
Ho deplorato la perdita quanto conviensi - assicura Mocenigo - et ogni honorevole rimostranza ho fatto che sia usata ne' suoi funerali a riconoscimento di merito di sua degna memoria". Un omaggio non di circostanza. Era uomo di "poche parole" e di "molta applicatione", l'elogia un altro storico del tempo, Valier. "Fra le altre lodi che gli diede il volgo - concorda Brusoni - ... fu che parlasse poco, operasse molto. Ulteriore merito che lo rendeva grato alla popolazione il fatto che "mai capitasse cosa alcuna, nella sua casa che non fossestata anticipatamente pagata". Uno scrupolo evidentemente raro e, pertanto, prezioso se Brusoni si sente in dovere di sottolinearlo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Senato. Dispacci Germania, filze 93, lett. n. 49; 94, lett. n. 153; Ibid., Senato Corti, regg. 22, cc. 192v-193r; 23, cc. 47r, 169r; Ibid., Senato Terra, reg. 136, cc. 28v, 208v, 212 (e filza 527, alla data 13 marzo 1648, ov'è allegata la raccomandazione d'Alvise Molin); Ibid., Senato Mar, regg. 106, c. 101r; 107, c. 408; 108, cc. 22v, 40; Ibid., Senato. Lett. Provv. da Terra e daMar, filze 799, lett. dell'8 maggio e 13 ott. 1649; 1087, lett. del 16 febbr. 1649; 1088, lett. del 28 marzo e 11 maggio, la "consulta" del 13 e quella del 17 giugno, l'elenco del 20 luglio 1649; 1089, lett. dell'8 sett., 10 e 24 ott. 1649; Udine, Bibl. civica, ms. 84: D. Ongaro, Colloredo. Notegenealogiche, pp. n. n.; G. Gualdo Priorato, Scena d'huomini illustri..., Venezia 1659, pp. n. n. (un cenno nella voce Colloredo Rodolfo); G . F. Palladio, Historie... del Friuli, II, Udine 1660, pp. 324-325; G. Capodagli, Udine illustrata..., Udine 1665, pp. 315-317; G. Brusoni, Historia dell'ultima guerra tra' Veneziani e Turchi..., I, Bologna 1674, pp. 203, 206 (ove il C. è, erroneamente, chiamato Rodolfo); B. Nani, Historia della Rep. veneta, in Degl'ist. delle coseveneziane..., IX, Venezia 1720, p. 248; A. Valier, Historia della guerra di Candia, Venetia 1679, pp. 207-208, 218, 221-222; G. Graziani, Historiarum Venetarum libri..., I, Patavii 1728, pp. 716, 719; G. V. Marchesi, La galeria dell'onore..., II, Forlì 1735, p. 536; Vita del conte Ermes... di Colloredo, in Ermes di Colloredo, Poesie, a cura di P. Zorutti, I, Udine 1828, p. XXI; J. Hirtenfeld-H. Meynert, OesterreichischesMilitär... Lexikon..., I, Wien 1851, p. 733; J. W. Zinkeisen, Geschichte des osmanischenReiches, IV, Gotha 1856, p. 837; C. von Czoernig, Il territorio di Gorizia... [1873], Gorizia 1969, p. 564; G. B. di Crollalanza, Memoriestoriche gen. ... dei... Colloredo, Pisa 1875, pp. 191-193, tav. VII; P. Antonini, I... Waldsee... Mels... Colloredo, Firenze 1877, pp. 113-114; Vita del co. Ermes di Colloredo, in Ermes di Colloredo, Le più belle poesie..., a cura di G. Cumin, Udine 1924, p. XI; B. Chiurio, Ant. della lett. friul., Udine 1927, p. 165; A. Valori, Condottierie generali del Seicento, Roma 1943 p. 92; R. Scatton, Vita di Ermes di Colloredo, in Ce fastu ?, XXXIII (1947), 1-4, pp. 7-9; N. Pauluzzo, Contributo... su Ermes di Colloredo, in Il Friuli, maggio-ottobre 1955, pp. 7-8, 14 n. 7 dell'estratto; G. Marchetti, Il Friuli, Udine 1959, pp. 326, 749; Biogr. Wöterbuch zur deutsche Geschichre, I, col. 482.