GIUSTINIANI (Giustiniani Campi), Giovan Antonio (Giannantonio)
Nacque a Madrid, dove fu battezzato nella chiesa di S. Martino il 7 nov. 1665, da padre omonimo di Alessandro di Antonio e da Placida De Marini di Ambrogio.
Sebbene questi dati si desumano inequivocabilmente dal Libro d'oro della nobiltà genovese e da due alberi genealogici, e nonostante il ruolo elevato svolto in seguito, sul G. sussistono problemi di corretta identificazione, dovuti in parte al numero di omonimi a lui contemporanei (almeno venti tra i vari rami dei Giustiniani, non più indicati con il ramo di provenienza), in parte a probabili errori di L. Levati, biografo per eccellenza dei dogi genovesi (che onestamente si disse dubbioso su alcuni dei dati che fornì), e di A. Cappellini. Entrambi errarono nella data di nascita (1° ott. 1676 il primo e 1660 il secondo, che probabilmente confuse il G. con un omonimo, registrato nel Libro d'oro come battezzato in S. Maria di Castello il 4 febbr. 1660) e relativamente al nome del padre (che chiamarono solo Giovanni, anche se Levati aggiunse correttamente di Alessandro). A Madrid il G. dovette trascorrere con la famiglia almeno i primi dieci anni, poiché nella stessa chiesa di S. Martino furono battezzati anche i fratelli (oltre al maggiore, Pietro Alessandro, nato nel 1663, due minori, il 3 nov. 1669 e il 17 maggio 1674).
Il G. e i fratelli vennero ascritti alla nobiltà genovese il 1° ott. 1677, quando presumibilmente la famiglia rientrò a Genova. È altrimenti errata la notizia del Levati (ricavata da G. Giscardi) secondo cui il G. morì sine uxore e sine liberis, dato che un suo figlio legittimo, Pietro Gerolamo, fu battezzato il 13 dic. 1702 nella cattedrale di Lipari e ascritto alla nobiltà genovese il 10 ott. 1710.
Queste inesattezze poterono essere favorite anche dal fatto che il G. visse molti anni lontano da Genova, in un ambiente internazionale che, se ne favorì le competenze e i successi in diplomazia - sulla base di uno spirito aperto, curioso e intelligente -, lo lasciò, tuttavia, estraneo alla madrepatria che pure servì, seppure in modo indipendente, come si ricava da più indizi. Anche il Levati, per spiegare la scarsità di cariche ricoperte in patria, ipotizzò frequenti ambascerie del G. presso varie corti europee (Vienna, Berlino, Parigi, Lisbona, Londra) e prima, nella giovinezza trascorsa sul mare, impegni anche militari con esiti brillanti nell'arcipelago greco, forse sulla rotta della perduta Chio. Tali riferimenti, però, restano generici e quasi romanzati, mancando date e riscontri d'archivio.
Accanto alle poche cariche attestate nei manuali del Senato (nel 1699 membro del magistrato dei Poveri; nel 1701 sindacatore supremo; nel 1703 membro dell'officium belli), una documentazione dettagliata si ha per due missioni diplomatiche che consentono di riconoscere nel G. - specie la prima - notevoli doti anche intellettuali e culturali. La prima fu quella di inviato straordinario a Londra. Partito il 12 giugno 1698, vi giunse il 14 luglio e fu ricevuto in udienza ufficiale il 28 seguente; ripartì dopo un anno, il 14 maggio 1699. La relazione che presentò al governo, pubblicata parzialmente dal Morandi, per stile e acume può essere considerata un autentico breve saggio storico, con spunti da brillante pamphlet preilluminista.
Accanto a notazioni di costume, nel riconoscere in Londra la patria della libertà di pensiero ("lasciando libero a ciascheduno seguitare a suo capriccio quella credenza che più le piace") o nel sottolineare l'elasticità nell'applicazione della legislazione ritenuta antiquata ("tali leggi […], stabilite sono due secoli, si vedono dall'uso modificate"), la relazione-trattatello passa in rassegna le istituzioni e il loro funzionamento: dal trono al Parlamento, alla giustizia civile e penale, nella quale ultima il G. sottolinea e apprezza la diversità delle procedure rispetto a quelle italiane ed europee. Sono poi netti e quasi divertiti i giudizi sulle personalità più influenti a corte, dall'arcivescovo di Canterbury (che, "promosso a tal grado dal re presente […] dalla oscura condizione di paroco in Londra" senza che se ne comprenda il motivo, visto che è "poverissimo di abilità, […] e solo adatto a gridare contro i divertimenti giovanili", non s'inserisce nelle faccende straniere "ma solo si conforma col sentimento dei suoi colleghi"), al gran cancelliere J. Somers e a J. Churchill, conte di Marlborough, del quale predice l'ascesa, al "repubblicano" consigliere di Stato, W. Cavendish duca di Devonshire ("persona di gran testa con un gran cuore, di genio inclinato alla libertà", che potrebbe risultare "profittevole […] ne i negoziati stranieri, come d'intelligenza adattata agli affari, ed anche per essere libero nel parlare ai ministri della corte e al re medesimo"). Seguono i puntuali e gustosi ritratti dei due segretari di Stato, Ch. Talbot, conte e duca di Shrewsbury, e il signor di Vernon, per concludere con i due favoriti olandesi e con lo stesso re Guglielmo, giudicato serio e complessivamente capace. Tra i problemi aperti per gli Inglesi il G. individua, oltre alle tensioni con la Scozia e l'Irlanda, la rivalità commerciale e marittima con gli Olandesi, anche per la concorrenza nelle Indie, e sulla base di un breve excursus storico da Elisabetta I a Giacomo II conclude che "dovrà credersi ridotta fra poco la monarchia ad un'ombra apparente di solo nome, ed in sostanza ad una libertà di repubblica".
La missione londinese del G. seguì a ruota quella di un altro inviato straordinario di ottime capacità, Clemente Doria, in un momento in cui il governo genovese, avvertendo la crescente importanza dell'Inghilterra nello scacchiere europeo e il pericolo del favore accordato nei traffici portuali mediterranei alla rivale Livorno, si adoperava per inserire il paese d'Oltremanica nel gioco di relazioni diplomatiche che in tante occasioni aveva consentito a una piccola Repubblica come Genova la difesa di interessi, commerciali e territoriali, altrimenti insostenibile. Così qualche anno dopo, nel 1713, anche le buone relazioni con l'Inghilterra contribuirono alla fortunata operazione dell'acquisto del Finale.
L'operazione sul piano diplomatico vide di nuovo impegnati il G. e il Doria, che firmarono a Vienna l'atto d'acquisto il 20 ag. 1713, il primo come delegato del governo e il secondo come inviato straordinario. Grazie al lavoro ben orchestrato in varie sedi diplomatiche europee, profittando della congiuntura internazionale a ridosso del trattato di Utrecht (aprile 1713) e dell'urgente bisogno di denaro dell'Erario imperiale, con un milione e ottocentomila "pezzi" Genova risolse un problema secolare, eliminando una pericolosa frattura territoriale e garantendosi tutte le vie di comunicazione tra il mare, la Lombardia e la Svizzera.
Reduce dal successo di Vienna, il 22 sett. 1713 il G. fu eletto doge, con 328 voti su 555. La sua incoronazione, avvenuta il 14 novembre, fu celebrata da un'orazione di Luigi Ottavio Restori in palazzo ducale e da una raccolta di rime di arcadi (stampata in Roma l'anno successivo), fra i quali Pier Iacopo Martelli e lo stesso Giovan Mario Crescimbeni, a conferma degli apprezzabili rapporti non municipali del G. anche a livello letterario. Sono anch'essi indizio di un'apertura che rese il G. insofferente alle "trafile burocratiche" e diverso dall'ambiente tradizionale che lo circondava e che poté essere causa - secondo il giudizio del Levati - della censura perpetua, altrimenti inspiegabile, che colpì il G. al termine del dogato. Ma la vera causa è specifica, e non manca di gravità: il G. infatti emise un'ordinanza di distruzione di Castel Gavone senza la preventiva approvazione dei Collegi.
Il riacquisto del Finale aveva infatti posto il problema del mantenimento delle fortezze esistenti sul territorio, ritenuto da Genova troppo oneroso; ma all'abbattimento si opponevano la maggior parte della popolazione e la Spagna, che non aveva ancora riconosciuto la perdita del Milanese, e quindi del Finale. In particolare, la distruzione di Castel Gavone, culla dei Del Carretto, di cui furono salvate solo le mura esterne e la torre detta "del diamante" diede l'avvio a una serie di insurrezioni che si protrassero anche negli anni successivi. L'impopolarità dell'operazione fu scaricata sul G. e sul suo decisionismo, anche grazie all'oggettivo errore di procedura amministrativo-istituzionale.
Dopo il dogato il G. non ricoprì più alcuna carica; tuttavia, ancora molti anni dopo la sua morte, la corrispondenza diplomatica del governo genovese faceva riferimento alle soluzioni da lui adottate come esempio da seguire nelle questioni pregiudiziali di etichetta.
Il G. morì a Genova nel 1735.
Fonti e Bibl.: Genova, Bibl. universitaria, Mss. C.VIII.16: Alberi genealogici Giustiniani, pp. n.n.; Ibid., Bibl. civica Berio, Mss. e rari, X.2.168: A. Della Cella, Famiglie di Genova, c. 492; E. Vincens, Histoire de la République de Gênes, Paris 1842, II, p. 257; G. Banchero, Genova e le due Riviere, Genova 1846, p. 348; F.M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, Genova 1851, II, p. 8; L. Levati, I dogi di Genova dal 1699 al 1721, Genova 1912, pp. 17-20, 136; L. Volpicella, I libri cerimonialidella Repubblica di Genova, Genova 1921, pp. 335 s.; C.M. Brunetti, Castelli liguri, Genova 1932, p. 124; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, Genova 1934, pp. 194 s.; Relazioni di ambasciatori sabaudi genovesi e veneti… 1693-1713, a cura di C. Morandi, Bologna 1935, pp. 149-164; A. Cappellini, Diz. biogr.dei genovesi illustri, Geno-va 1936, p. 86; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1950, p. 321; G. Guelfi Camajani, Il Liber nobilitatis Genuensis, Firenze 1965, pp. 286, 290; G.B. Cavasola Pinea, Gabelle genovesi nel Finale, in La storia dei Genovesi. Atti del Convegno di studi sui ceti dirigenti nelle istituzioni della Repubblica di Genova, Genova 1987, VIII, pp. 225-241.