GIOTTO di maestro Stefano, detto Giottino
Non si conoscono le date di nascita e di morte di questo pittore, che nel 1368 risulta essere iscritto alla Compagnia di S. Luca di Firenze (Gualandi). Dal luglio all'ottobre 1369 fu impegnato a Roma nella decorazione di due cappelle (una "parva" e una "magna") del palazzo Vaticano, su commissione di Urbano V, accanto ad altri artisti, tra cui Giovanni da Milano e i concittadini Giovanni e Agnolo Gaddi (Cavalcaselle - Crowe, 1883). È inoltre documentata la presenza di due suoi discepoli, altrimenti sconosciuti, Giovanni "Auri" da Firenze e Giovanni da Montepulciano (Colnaghi).
Sembra da accantonare l'ipotesi che identifica G. con il "Giotto pittore" pagato 70 fiorini dall'Opera del duomo di Pisa per aver dipinto due scrigni (Bonaini) e probabilmente residente a Pisa nel 1362 e già morto nel 1372 (Fanucci Lovitch).
L'identificazione di G. con il Giottino ricordato dalle fonti solo a partire dal XVI secolo, non accertata per via documentaria, fu affermata per la prima volta da G. Milanesi (1846; poi 1878) nel commento alle Vite del Vasari, e appare oggi ipotesi storiografica accreditata.
La più antica menzione di G. come Giottino si trova nelle fonti prevasariane.
Nel Codice Magliabechiano si precisa che era figlio del pittore Stefano; la notizia è confermata da Vasari (1550, p. 170; 1568), il quale dichiara Giottino discepolo del padre, e così denominato poiché "prontissimo imitatore di Giotto".
L'identificazione della personalità artistica di Stefano è al momento ancora problematica; occorre ricordare che già il Libro di Antonio Billi parla di una sua parentela con Giotto; mentre Baldinucci (1681) afferma che egli era pittore e nipote del grande maestro: figlio di Ricco di Lapo e di Caterina, sua figlia. In ogni caso, il padre di G. potrebbe essere identificato con il pittore Stefano menzionato in un documento pistoiese poco dopo il 1348 (Chiappelli, 1900).
Il Libro di Antonio Billi fornisce un elenco di opere del pittore: a Firenze, nella chiesa di Ognissanti (S. Cristoforo e un'Annunciazione), nel convento di S. Gallo (una Pietà), alle Campora (convento dei girolamini di S. Maria di S. Sepolcro a Colombaia), nella chiesa degli Ermini (degli Armeni: S. Basilio), in piazza S. Spirito (un tabernacolo, già attribuito a Maso di Banco da L. Ghiberti); al ponte al Romito in Valdarno (un tabernacolo); a Roma, in S. Maria d'Aracoeli e in S. Giovanni in Laterano. F. Albertini (1510) ricorda di G., oltre al tabernacolo di piazza S. Spirito e alla Pietà in S. Gallo, anche i Ss. Cosma e Damiano nella cappella di S. Lorenzo in S. Maria Novella (poi ricordata da Vasari come della famiglia Ginochi; Wood Brown). Tutte le opere citate sono andate perdute, con l'eccezione del tabernacolo di S. Spirito: l'Annunciazione che si conserva nella chiesa di Ognissanti dev'essere probabilmente identificata con quella del Maestro di Barberino datata 1369.
Forse in base alla diversa autografia proposta per il tabernacolo di S. Spirito, Vasari fuse nella vita del pittore le due distinte tradizioni storiografiche risalenti a Ghiberti e al Libro di Antonio Billi, creando un'unica personalità di artista, Tommaso di Stefano detto Giottino, in cui confluirono opere già assegnate a entrambi i pittori: dagli affreschi di Maso nella cappella Bardi di Vernio in S. Croce alle opere attribuite a G. dalle fonti precedenti. A esse aggiunse l'importante tavola con il Compianto su Cristo morto in S. Remigio (Firenze, Uffizi), e due imprese ad affresco: in S. Stefano al Ponte (perduta) e in S. Pancrazio. Qui ricordava un Cristo portacroce e santi e inoltre, su un pilastro, la copia della Pietà del convento di S. Gallo.
Due frammenti ad affresco con teste di Santi (Firenze, Museo dello Spedale degli Innocenti), probabili parti di un'Annunciazione, provengono dalla cappella Scarfi in S. Pancrazio (De Juliis), e sono stati attribuiti a G. da Volpe che li data verso il 1350-60 (ipotesi accettata da C. De Benedictis); più convincente rimane però il riferimento proposto da Bellosi (1977) a un pittore fiorentino vicino a Nardo di Cione (ai rapporti individuati con Giovanni Bonsi si possono aggiungere quelli con Niccolò di Tommaso).
In epoca coeva alla prima redazione vasariana (1550), la fusione di due diverse tradizioni storiografiche trova eco immediata nella breve vita che Gelli dedica a "Masone detto Giottino". Nel 1568 Vasari aggiunse alle opere romane del pittore il perduto ciclo degli Uomini famosi in casa Orsini, e ne estese l'attività ad Assisi, dove avrebbe eseguito, con altre opere, anche gli affreschi con l'Incoronazione della Vergine e Storie di s. Stanislao (erroneamente citate come di "s. Nicola") nella cantoria della chiesa inferiore di S. Francesco (impresa poi confluita, a partire da Venturi, ma soprattutto in seguito all'importante saggio di Longhi del 1951, nel catalogo del padre Stefano). Questa e altre imprese decorative nella città umbra sono state però restituite, in seguito a successive indagini documentarie, al pittore assisiate Puccio Capanna (Scarpellini); ma l'intervento di Longhi conserva un'emblematica attualità per la comprensione della corrente stilistica che, nata all'interno della stessa bottega di G., costituì per G. la premessa del suo "dipingere unitamente" e della sua "dolce maniera" (Vasari, 1550, p. 170). Bocchi e Cinelli ricordavano una tavola di G. in S. Stefano al Ponte, la stessa che Baldinucci (p. 281) dice ubicata nella cappella Gucci Tolomei, con l'improbabile firma di "Tommaso di Stefano Fortunatino" (è documentata l'esecuzione nel 1412 di un dipinto per questo altare da parte di Mariotto di Nardo: Milanesi, 1878). Lanzi ripropose la notizia della discendenza di Tommaso di Stefano da Giotto, e ne menzionò il Compianto di S. Remigio e l'attività ad Assisi.
La storiografia dell'Ottocento continuò a perseverare nella fusione di Maso e di G., pur accantonando il fittizio nome vasariano di Tommaso di Stefano, in seguito all'identificazione di Milanesi. Al tradizionale corpus di opere del pittore, Crowe e Cavalcaselle (1864; 1869; 1883) aggiunsero gli affreschi della cappella funeraria degli Strozzi in S. Maria Novella (restituiti al Maestro di S. Lucchese: Boskovits, 1987). Il catalogo di G. fu ulteriormente ampliato da Sirén (1908) nella monografia sul pittore con numeri in seguito riconosciuti a Orcagna (Crocifissione affrescata nel capitolo di S. Spirito), a Nardo di Cione (tabernacolo di Londra, Courtauld Institute Art Gallery), ad Allegretto Nuzi (polittico di Filadelfia, Museum of Art, J.G. Johnson Collection), a don Silvestro de' Gherarducci (Crocifissione di New York, Metropolitam Museum, Lehman Collection), a un pittore fiorentino tra Maso e Orcagna (affreschi in S. Trinita, cappella Davanzati). Non contribuirono a chiarire la questione Van Marle, che confermò a G. quest'ultima impresa e quella della cappella funeraria degli Strozzi in S. Maria Novella, mentre assegnava a Maso il Compianto di S. Remigio, né il successivo intervento di Sirén (1927-28).
Si debbono a Longhi (1928-29) e a Offner (1929) la decisiva distinzione tra i cataloghi dei due pittori e la fondamentale puntualizzazione degli unici due numeri spettanti a G.: l'affresco del tabernacolo di S. Spirito, raffigurante la Madonna con il Bambino tra otto angeli, s. Giovanni Battista e s. Benedetto (in seguito trasportato in via del Leone, attualmente nei depositi della Soprintendenza fiorentina) e il Compianto di S. Remigio, un dipinto di grande preziosità e raffinatezza esecutive che già Vasari descriveva con larghezza di elogi. Successivamente Longhi (nel 1940, ma non più nel 1951) attribuì al pittore la Crocifissione, già n. 1655A, ora M.I.358 del Louvre (opera napoletana ora restituita al Maestro di Giovanni Barrile: Boskovits, 2000); ma di Longhi vanno ricordate soprattutto le aperture sui rapporti intercorsi tra pittura fiorentina e lombarda, affermati dalle connessioni individuabili tra G. e Giovanni da Milano, residente a Firenze nel 1346 e ancora negli anni Sessanta. Anche Coletti si espresse su questi contatti, proponendo di assegnare a G. la Crocifissione affrescata in S. Gottardo a Milano. In un primo momento L. Marcucci (1963) concordò con questa proposta attributiva in favore di G., imputando a una prolungata attività nel Nord la scarsità di sue opere in patria. Una voce di dissenso fu quella di Berenson (1932; 1936; 1963), che attribuendo a Nardo di Cione il Compianto di S. Remigio e il tabernacolo di via del Leone, ne puntualizzava la matrice fondamentalmente fiorentina. Toesca era piuttosto propenso a raggruppare, sotto il nome di Maso, parte del catalogo vasariano di G., in cui i due numeri di via del Leone e di S. Remigio costituivano gli esiti più tardi: si trattava sostanzialmente della necessità di riaffermare la presenza nella pittura fiorentina di una tendenza stilistica attenta ai valori di luce e di colore, le cui radici affondavano nell'arte di Giotto.
Le due opere assegnate a G. (Tabernacolo di S. Spirito e Compianto di S. Remigio) non sono datate.
Per la prima un appiglio cronologico è fornito dal tabernacolo di via del Leone, in base alla ricostruzione delle sue vicende avanzata da Chiappelli (1909).
L'affresco menzionato dalle fonti cinquecentesche in piazza S. Spirito fu rimosso nel XVIII secolo (epoca a cui risale la pittura tuttora in loco) e trasportato in via del Leone, come conferma l'adattamento che l'opera subì per essere qui collocata. Lumachi menzionava nel luogo del tabernacolo in piazza S. Spirito la presenza di un'iscrizione con la notizia di una cappella qui fondata dai Manfredi nel 1356; Procacci, collegando per primo questo ricordo con l'affresco di G., leggeva in loco la data ormai mutila "MCCCL". La collocazione dell'opera nel 1356 appariva plausibile a L. Marcucci (1963; 1965), per il legame ancora vivo con la tradizione di Maso.
Nel Compianto di S. Remigio le tangenze con il naturalismo epidermico e le ricerche espressive di Giovanni da Milano implicano una vicinanza cronologica con la Pietà eseguita dal lombardo nel 1365 per il convento fiorentino di S. Girolamo alla Costa (Firenze, Galleria dell'Accademia); significative risultano inoltre le affinità compositive con la Deposizione dell'anconetta di Giovanni nella Galleria nazionale d'arte antica di palazzo Corsini, a Roma (Birkmeyer).
Sulla base dell'analisi dei punzoni utilizzati dal pittore, una datazione successiva al 1363 è stata avvalorata da Skaug. L'evoluzione verso una nuova tensione lineare, che ritaglia i personaggi e ne blocca i gesti contro lo sfondo aureo, si pone ora in parallelo ai coevi sviluppi dell'arte di Nardo di Cione e di Niccolò di Tommaso. Rara nella Firenze dell'epoca (Antal) è la soluzione iconografica di inserire le due committenti all'interno del gruppo sacro, differenziate da un minimo scarto dimensionale rispetto agli altri personaggi. Sullo sfondo sono raffigurati s. Benedetto (che qualifica come appartenente al suo Ordine la monaca sul cui capo poggia la mano), s. Remigio, s. Giovanni, Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea; intorno al Cristo deposto sono la Madonna e le pie donne (problematica è l'identificazione della santa inginocchiata ai piedi di Cristo, come ha evidenziato Birkmeyer).
Varie proposte sono state avanzate circa l'originaria destinazione del dipinto. Schlosser ipotizzava che fosse una copia della Deposizione commissionata a Maso da Drea degli Albizzi, collocata sulla porta del cimitero di S. Pier Maggiore, fatta restaurare da Benedetto di Banco, della medesima famiglia, a Niccolò di Pietro Gerini nel 1392; Valentiner riteneva che si potesse trattare dello stesso dipinto, e attribuiva a Maso la tavola di S. Remigio (Wilkins). Per Birkmeyer era un dipinto funerario, ritenendo plausibile l'ipotesi di Schubring di collegarlo alla morte di Caroccio degli Alberti (1371), sepolto due anni dopo in S. Remigio. Il fregio decorativo alla base della tavola, interrotto da due clipei con figure di draghi alati, veniva avvicinato da Sirén (1908) agli stemmi dei Dragomanni in S. Domenico di Arezzo; mentre L. Marcucci (1963) precisava il loro carattere decorativo. Un analogo motivo ornamentale si ritrova nella cornice di dipinti dell'epoca: oltre all'Incoronazionedella Vergine del Maestro dell'Incoronazione Christ Church (Firenze, Museo del Bargello; Carrand, n. 2009), il trittico con la Pentecoste di Orcagna (Firenze, Galleria dell'Accademia), la Madonna di Iacopo di Cione datata 1362 (già Bruxelles, collezione Stoclet).
Un'indicazione sull'antica collocazione del dipinto in S. Remigio si ha, forse, nel Sepoltuariofiorentino di Stefano Rosselli del 1657 (Arch. di Stato di Firenze, ms. 624, cc. 566 s.), che descrive sulla porta che conduce al chiostro nella navata destra un "quadro antichissimo della Deposizione di Croce di Nostro Signore", proveniente dall'altare della famiglia Bellacci (all'epoca di patronato dei Totti), allora collocato subito dopo la cappella a cornu evangeli, sulla parete sinistra della chiesa. Rosselli vedeva nella base della tavola un'"arme che poco si distingue: il campo par d'oro, le tre palle paiono indanaiate". Lo stemma Bellacci era costituito da tre rose rosse su banda argento e fondo verde; analoghe insegne aveva in chiesa la famiglia dei Fazi (ma con colori diversi: tre rose bianche su fondo oro). L'attendibilità del manoscritto seicentesco riguardo la descrizione dell'antico stemma (perduto) è problematica; in ogni caso, Rosselli riporta la notizia dell'antico patronato dei Bellacci anche sul "coro" che attraversava la chiesa (il tramezzo su cui Vasari vedeva collocato il Compianto nel 1568). Dopo la distruzione di questa struttura intorno al 1570, è probabile che il dipinto trovasse successivamente diverse collocazioni, se è identificabile con quello citato nella visita pastorale del 1575-76 sull'altare della Pietà (Firenze, Archivio arcivescovile, V.P.12, c. 54: "tabula lignea imagine Salvatoris Nostri depicta"), senza specificazione di patronato. In seguito Richa lo ricordava in sacrestia; nel 1842 passò alle Gallerie fiorentine (Bellosi, 1979).
Mentre Coletti si soffermò sul tono "padano" del Compianto di S. Remigio, ipotizzando la personale frequentazione di G. di centri artistici settentrionali, L. Marcucci (1965) ne sottolineò i rapporti con la presenza fiorentina di Giovanni da Milano. Una approfondita riconsiderazione della linea stilistica fra Stefano e G. è affermata da Volpe, che ne ha ribadito la matrice fiorentina e la coerenza delle ricerche di naturalismo in un ambiente progressivamente dominato, dopo la metà del secolo, da soluzioni formali plastico-chiaroscurali legate alla cerchia di Orcagna; anche per questo studioso, gli aspetti nordici del Compianto di S. Remigio troverebbero una spiegazione attraverso i contatti con Giovanni da Milano. Le premesse della variante stilistica del "dipingere unito" sono ravvisate nell'operosità della bottega di Giotto nel corso del secondo decennio, a partire dalla decorazione del transetto destro della basilica inferiore di Assisi, in cui Volpe riconosce la presenza di Stefano (ma recenti interventi in proposito respingono questa identificazione: Bonsanti - Boskovits). L'identificazione dell'autore del tabernacolo di via del Leone e del dipinto degli Uffizi con G. è stata discussa da Cassidy, che propone di lasciare il pittore nell'anonimato, come "Maestro della Pietà di S. Remigio".
Altre proposte sono state avanzate a favore del catalogo del pittore.
L. Marcucci (1963; 1965) gli assegna l'Incoronazione del Museo del Bargello (Carrand, n. 2009; restituita da Zeri nel 1968 al Maestro dell'Incoronazione Christ Church) e una tavoletta con S. Antonio Abate a Cortona nel Museo dell'Accademia Etrusca (proveniente dalla locale collezione Tommasi Baldelli). Da valutare con attenzione è la proposta di Bellosi (in Conti, 1983) di attribuire a G. la parte centrale di un trittico, dalla singolare sagoma a bifora, conservato a Firenze-Careggi nel convento delle oblate, con la Madonna e il Bambino tra santi, la Crocifissione e, nella predella, i committenti ai lati dello stemma centrale dell'ospedale di S. Maria Nuova, da cui il dipinto proviene. Si tratta di una tavoletta dal precario stato conservativo che, nello scomparto con la Madonna in trono, illustra puntuali affinità con l'analoga rappresentazione del tabernacolo di via del Leone, suggerendo una prossimità cronologica tra le due opere entro gli anni Cinquanta. Quest'ultimo affresco rivela l'attività di un artista ormai in possesso di un notevole grado di maturità creativa, indicando che la sua formazione dovette compiersi nel decennio precedente, probabilmente nella cerchia di Maso (Volpe), in stretta contiguità con uno dei suoi più fervidi seguaci, il Maestro di S. Lucchese.
L'opera di G. non trova riflessi nella pittura fiorentina dopo il 1370 (Boskovits, 1975); mentre l'altissima qualità artistica della sua sintesi tra luce e colore poté piuttosto costituire spunto di riflessione per i maestri del primo Rinascimento (Masolino, Beato Angelico).
Fonti e Bibl.: L. Ghiberti, I commentarii (1447-55 circa), a cura di L. Bartoli, Firenze 1998, p. 86; F. Albertini, Memoriale di molte statue et picture (1510), a cura di O. Campa, Firenze 1932, pp. n.n.; Il libro di Antonio Billi (1500-1530 circa), a cura di C. Frey, Berlin 1892, pp. 8 s.; Codice Magliabechianocl. XVII, 17… (1537-42 circa), a cura di C. Frey, Berlin 1892, p. 59; G. Vasari, Le vite… (1550), a cura di L. Bellosi - A. Rossi, Torino 1986, pp. 169-172; G.B. Gelli, Vite d'artisti (sec. XVI), in Arch. stor. italiano, XVII (1896), p. 43; G. Vasari, Le vite… (1568), a cura di C. Milanesi - G. Milanesi - C. Pini - V. Marchese, II, Firenze 1846, pp. 139-146; a cura di G. Milanesi, I, Firenze 1878, pp. 621-630; R. Borghini, Il riposo (1584), Firenze 1730, pp. 241 s.; F. Bocchi - G. Cinelli, Le bellezze della città di Firenze, Firenze 1677, p. 114; F. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua (1681), a cura di F. Ranalli, I, Firenze 1845, pp. 212 s., 253-256, 281; G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, I, Firenze 1754, p. 258; L. Lanzi, Storia pittorica della Italia, I, Bassano 1809, pp. 45 s.; M. Missirini, Della chiesa priorale di S. Remigio e del suo altare del Ss. Sacramento, Firenze 1839, p. 10; M. Gualandi, Memorie originali italiane risguardanti le belle arti, IV, Bologna 1845, p. 182; F. Bonaini, Memorie inedite intorno alla vita e ai dipinti di Francesco Traini, Pisa 1846, p. 63; J.A. Crowe - G.B. Cavalcaselle, A new history of painting in Italy from the second to the sixteenth century, I, London 1864, pp. 410-424; Id. - Id., Geschichte der italienischen Malerei, I, Leipzig 1869, pp. 341-354; G.B. Cavalcaselle - J.A. Crowe, Storia della pittura in Italia dal secolo II al secolo XVI, II, Firenze 1883, pp. 102-104, 106-130; A. Chiappelli, Di una tavola dipinta da Taddeo Gaddi e di altre antiche pitture nella chiesa di S. Giovanni Fuorcivitas in Pistoia, in Bulletino stor. pistoiese, II (1900), pp. 1-6; P. Schubring, Giottino, in Jahrbuch der Königlich-Preussischen Kunstsammlungen, XXI (1900), pp. 161-177; J. Wood Brown, The Dominican church of S. Maria Novella at Florence, Edinburgh 1902, pp. 86, 116, 134; O. Sirén, Giottino, Leipzig 1908; A. Venturi, La basilica di Assisi, Roma 1908, pp. 139 s.; A. Chiappelli, "Giottino" e un tabernacolo testé riaperto in Firenze, in Rassegna d'arte, IX (1909), pp. 71-73; J. von Schlosser, Das Giottinoproblem und die moderne Stilkritik, in Kunstgeschichtliches Jahrbuch, IV (1910), pp. 192-202; R. Van Marle, The development of the Italian schools of painting, III, The Hague 1924, pp. 410-419; O. Sirén, Il problema Maso-Giottino, in Dedalo, VIII (1927-28), pp. 395-424; F. Lumachi, Firenze. Nuova guida illustrata, Firenze 1928, pp. 524 s.; R. Longhi, Frammenti di Giusto da Padova, in Pinacoteca, I (1928-29), pp. 137-152; R. Offner, Four panels, a fresco and a problem, in The Burlington Magazine, LIV (1929), pp. 224-245; B. Berenson, Italian pictures of the Renaissance, Oxford 1932, p. 383; Id., Pitture italiane del Rinascimento, Milano 1936, p. 329; R. Longhi, Fatti di Masolino e di Masaccio, in Critica d'arte, V (1940), pp. 180 s.; L. Coletti, Contributo al problema Maso-Giottino, in Emporium, XCVIII (1942), pp. 461-478; E.L. Lucignani, Il problema di Giottino nelle fonti, in Rivista d'arte, XXIV (1942), pp. 107-124; G. Sinibaldi - G. Brunetti, Pittura italiana del Duecento e Trecento. Catalogo della mostra giottesca di Firenze del 1937, Firenze 1943, pp. 485-489; W.R. Valentiner, Orcagna and the black death of 1348. I, in The Art Quarterly, XII (1949), pp. 52 s.; R. Longhi, Stefano fiorentino, in Paragone, II (1951), 13, pp. 18-40; P. Toesca, Il Trecento, Torino 1951, pp. 628-634; U. Baldini, in Mostra di affreschi staccati, Firenze 1957, p. 49; F. Antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento (1948), Torino 1960, pp. 227, 311 s.; K. Birkmeyer, The Pietà from S. Remigio, in Gazette des beaux-arts, LX (1962), pp. 459-480; U. Procacci, La tavola di Giotto dell'altar maggiore della chiesa della badia fiorentina, in Scritti di storia dell'arte in onore di Mario Salmi, II, Roma 1962, p. 30 n. 47; B. Berenson, Italian pictures of the Renaissance. Florentine school, I, London 1963, p. 151; L. Marcucci, Dal "Maestro di Figline" a Giottino, in Jahrbuch der Berliner Museen, V (1963), pp. 14-45; Id., Gallerie nazionali di Firenze. I dipinti toscani del secolo XIV, Roma 1965, pp. 88-92; P. Dal Poggetto, Omaggio a Giotto (catal.), Firenze 1967, pp. 52 s.; F. Zeri, Sul catalogo dei dipinti toscani del secolo XIV nelle Gallerie di Firenze, in Gazette des beaux-arts, LXXI (1968), pp. 65-78; M. Boskovits, Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento 1370-1400, Firenze 1975, pp. 40-42; L. Bellosi, in Il Museo dello Spedale degli Innocenti a Firenze, Firenze 1977, p. 231; G. De Juliis, La cappella Riccardi in S. Pancrazio a Firenze, in Commentari, XXIX (1978), pp. 129-143; L. Bellosi, in Gli Uffizi. Catalogo generale, Firenze 1979, p. 295; P. Scarpellini, in Ludovico da Pietralunga, Descrizione della basilica di S. Francesco e di altri santuari di Assisi, Treviso 1982, pp. 292-304; A. Conti, I dintorni di Firenze, Firenze 1983, pp. 32, 34; C. Volpe, Il lungo percorso del "dipingere dolcissimo e tanto unito", in Storia dell'arte italiana, V, Torino 1983, pp. 231-304; D.G. Wilkins, Maso di Banco: a Florentine artist of the early Trecento, New York-London 1985, pp. 204 s.; A. Guerrini, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, II, Milano 1986, pp. 575 s.; M. Boskovits, Gemäldegalerie Berlin. Frühe italienische Malerei, Berlin 1987, p. 124; F. Brasioli - L. Ciuccetti, S. Maria Nuova. Il tesoro dell'arte nell'antico ospedale fiorentino, Firenze 1989, p. 39; M. Fanucci Lovitch, Artisti attivi a Pisa fra XIII e XVIII secolo, I, Pisa 1991, p. 131; E.S. Skaug, Punch marks from Giotto to Fra Angelico, I, Oslo 1993, pp. 191-193; G. Bonsanti - M. Boskovits, Giotto? O solo un "parente"? Una discussione, in Arte cristiana, LXXXII (1994), pp. 299-310; C. De Benedictis, in Enc. dell'arte medievale, VI, Roma 1995, pp. 646-649; B. Cassidy, in The Dictionary of art, XII, London-New York 1996, p. 681; M. Boskovits, in Giotto. Bilancio critico di sessant'anni di studi e ricerche (catal.), Firenze 2000, p. 195; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIV, pp. 92-94; D. Colnaghi, A Dictionary of Florentine painters from the 13th to the 17th centuries (1928), Florence 1986, pp. 125, 131, 228 s.; Diz. encicl. Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani, VI, pp. 7 s.