GIOSUÈ (Iosue)
Non conosciamo il luogo e la data di nascita di questo monaco, eletto abate del monastero di S. Vincenzo al Volturno il 20 ott. 792, dopo sei giorni di vacanza seguiti alla morte del suo predecessore Paolo, che era stato in carica dal 783.
Durante l'abbaziato di Paolo, S. Vincenzo al Volturno era stato riconosciuto, con un praeceptum emesso il 24 marzo 787, in occasione della permanenza di Carlo Magno a Capua, monastero regio e aveva ricevuto l'immunità giudiziaria e fiscale, nonché la potestà di scegliere al proprio interno l'abate, "absque cuiuslibet inquietudine vel contradicione" (Chronicon Vulturnense, I, p. 215). Tre giorni dopo, il medesimo privilegio venne accordato dal re anche a Montecassino. L'assunzione di queste decisioni da parte del sovrano franco è segno della rilevanza che i due cenobi avevano acquisito, nel corso dell'VIII secolo, nel panorama del monachesimo italiano, ma anche della posizione strategica che essi occupavano, sullo spartiacque fra le aree, a Nord, ove più forte si era stabilita l'influenza dei conquistatori franchi, e quelle a Sud, appartenenti al Principato longobardo di Benevento, che, grazie all'opera di Arechi II, erano riuscite a mantenere un'indipendenza di fatto.
Indice di questo stato di cose sarebbe stato, a giudizio di alcuni storici, il precoce fenomeno dell'entrata nella comunità di S. Vincenzo di persone di origine franca, almeno a partire dai primi anni Quaranta (questa situazione si determinò, con gli stessi tempi, anche a Montecassino). Nel 777-778 fu abate di S. Vincenzo Ambrogio Autperto, di origine provenzale, ed è quindi da credere che già in questo periodo la presenza transalpina nella comunità vulturnense fosse di una certa rilevanza.
Stando alle parole del Chronicon Vulturnense (I, p. 219), anche G. avrebbe fatto parte di questo gruppo. La fonte afferma infatti che la moglie di Ludovico il Pio sarebbe stata sorella di G. ("germana soror", p. 221): un franco anch'egli, quindi, che sarebbe addirittura vissuto alla corte carolingia, prima di vestire l'abito monastico. G., anche grazie a questi suoi legami familiari, avrebbe ricevuto a S. Vincenzo, nell'808, la visita di Ludovico e della moglie, in occasione della consacrazione della nuova chiesa abbaziale di S. Vincenzo Maggiore. Tuttavia le notizie riportate dal Chronicon su questa vicenda non solo sono prive di riscontri presso altre fonti, ma si trovano all'interno di un più esteso racconto relativo ai rapporti di G. con Ludovico il Pio, infarcito di incongruenze e che sembra ricalcare le linee della narrazione, sempre a opera del redattore del Chronicon, dei rapporti, altrettanto dubbi, fra Carlo Magno e Ambrogio Autperto.
Paolo Delogu osserva che i due passaggi della cronaca monastica che riferiscono di queste vicende farebbero parte di un programma, elaborato a S. Vincenzo nel XII secolo, di recupero della fase più gloriosa della vita della comunità monastica, e cioè quella di età carolingia, "nel momento in cui essa si organizzava per una nuova vita [e il futuro] dipendeva in gran parte da quello che essa era stata nel passato" (I monaci e le origini, pp. 56 s.). Un programma che, tuttavia, affondava le radici in tradizioni più antiche interne al monastero, giacché il racconto della visita di Ludovico il Pio a G. appare già nel cosiddetto Frammento Sabatini (cfr. Federici, 1941, p. 101), che è quanto resta di una prima e più succinta redazione di una storia del monastero vulturnense, redatta, secondo gli ultimi studi, al suo interno tra la fine del X e gli inizi dell'XI secolo.
Le opportune cautele da tenere presenti nel valutare le suddette fonti, non destituiscono necessariamente di fondamento l'ipotesi che G. possa effettivamente essere stato di origine franca. Ciò anche considerando che a Montecassino, nel 777-778, venne eletto abate il frisone Teodemaro e che a Farfa ben tre abati consecutivamente eletti fra il 781 e il 790 - Ragombaldus, Altbertus e Mauroaldus - sarebbero stati di origine transalpina (Houben, L'influsso carolingio, pp. 33, 38). È quindi plausibile che, in un'ottica di collegamento delle maggiori fondazioni monastiche dell'Italia centromeridionale al potere franco, sia stata sostenuta, anche a S. Vincenzo, la collocazione, al vertice del monastero, di un personaggio di origine transalpina.
All'abbaziato di G. sono legati i momenti forse più gloriosi della storia del cenobio vulturnense, per la conoscenza dei quali le informazioni delle fonti scritte si sono felicemente integrate con i dati emersi dalla esplorazione archeologica del monastero.
L'accresciuto afflusso di donazioni di proprietà fondiarie, ben attestato dal Chronicon Vulturnense in questo periodo, insieme con le immunità fiscali di cui l'abbazia vulturnense iniziò a godere dal 787, consentirono un forte accrescimento delle risorse di cui essa disponeva. Tale situazione consentì a G. di avviare un programma di radicale rinnovamento architettonico del monastero, connesso a un suo notevole ampliamento.
In base alla ricognizione complessiva dell'area archeologica di S. Vincenzo, si presume che il monastero, in seguito alle iniziative di G., sia arrivato a coprire circa 6 ettari di superficie costruita. Perno del monastero rinnovato è la monumentale chiesa abbaziale di S. Vincenzo Maggiore. Il Chronicon Vulturnense ne parla (I, pp. 220 s.) come di una costruzione realizzata recuperando, a Capua, materiali appartenenti a un antico tempio, tra i quali in particolare trentadue colonne e altri marmi preziosi; lo descrive altresì come una costruzione di dimensioni inusitatamente monumentali (36 passi in lunghezza, per 16 in larghezza per 12 in altezza), la cui facciata era stata abbellita con un'iscrizione celebrativa dell'impresa promossa da G., con il sostegno della comunità tutta, per l'erezione dell'edificio ("Queque vides, ospes, pendencia celsa, vel ima, / vir Domini Iosue struxit cum fratribus una", p. 221). Le indagini archeologiche, che hanno portato alla luce S. Vincenzo Maggiore, hanno rivelato straordinarie corrispondenze fra la fonte e le evidenze materiali. L'edificio ecclesiale (basilica a tre navate e tre absidi, con una cripta anulare realizzata al di sotto dell'abside centrale) misura 63 metri di lunghezza e 28 di larghezza, riproducendo esattamente il rapporto di 2,25/1, che si ottiene rapportando le misure in passi. La conoscenza delle misure in metri della lunghezza e della larghezza hanno consentito di valutare quale fosse l'altezza dell'edificio, che risulta quindi pari a 21 metri. Dagli scavi è anche emerso che l'edificio era stato dotato di colonne di granito africano e che gli spolia destinati alla decorazione architettonica (capitelli, cornici) sono molto probabilmente di area campana. Ma il riscontro più rilevante si è avuto con la scoperta di numerosi frammenti dell'iscrizione originariamente apposta sulla facciata della chiesa. Si trattava di un'iscrizione monumentale in lettere bronzee, all'incirca dell'altezza di un piede romano, inserite entro alveoli praticati in lastre di marmo bianco. Questa epigrafe riproduce un tipo di scrittura d'apparato per gli edifici pubblici ben attestata in età classica, ma inedita per l'alto Medioevo. L'unico parallelo noto è quello della cosiddetta cappella palatina del principe di Benevento, Arechi II; parallelo forse non casuale, che rimanda a un più vasto orizzonte di prossimità culturale fra il monastero di G. e la cultura della Langobardia Minor, in cui le arti e le lettere vissero, proprio sotto Arechi, una stagione di grande vitalità. Tutta la cultura artistica del monastero propone comunque nessi rilevanti con l'ambiente beneventano-salernitano dell'età di Arechi. Ciò è apparso evidente in modo particolare dalle testimonianze pittoriche attribuibili all'età di G., quali la sequenza dei profeti rinvenuta nell'ambiente attiguo al refettorio e le decorazioni della cripta anulare di S. Vincenzo Maggiore.
Intorno alla basilica venne attivato un cantiere in grado di produrre i materiali (per es. vetro, laterizi, metalli) necessari per la costruzione del grande edificio ecclesiastico e delle altre costruzioni - sacre e profane - di cui il monastero doveva dotarsi. Il monastero di G., come è stato posto in evidenza dalla scoperta del grande refettorio e dal calcolo dei posti a sedere al suo interno, ospitava una comunità di almeno duecentocinquanta-trecento confratelli. Il dato archeologico ha confermato così l'appartenenza di S. Vincenzo, in seguito alle trasformazioni promosse da G., al novero delle grandi comunità aderenti alla regola benedettina che prosperarono all'interno dell'Impero franco. È indubbiamente al ventennio dell'abbaziato di G. che si deve collegare la realizzazione della gran parte del progetto della "città monastica" vulturnense (secondo la definizione di Pantoni), anche se la sua concezione potrebbe risalire al predecessore Paolo. Saranno i successori di G. - Talarico ed Epifanio, fra l'817 e l'842 - a portare a compimento la sua realizzazione, ma secondo le linee definite al tempo del suo reggimento abbaziale.
L'abbaziato di G. si caratterizzò anche per il forte incremento del patrimonio monastico di S. Vincenzo al Volturno. Lo spazio assai ampio (da c. 80v a c. 103v) che, all'interno del Chronicon Vulturnense, la vita di questo abate occupa, è per la quasi totalità destinato alla riproduzione di testi (in copia integrale, in transunto o in regesto), principalmente relativi ad atti di donazione compiuti da privati in favore del monastero. Nella maggioranza dei casi i benefattori sono personaggi di rilievo dell'aristocrazia beneventana (tra cui il principe Grimoaldo III e il vescovo Davide) e capuana, ma troviamo menzionato anche il duca Ildeprando di Spoleto. Il risultato fu la crescita delle pertinenze patrimoniali di S. Vincenzo ben oltre l'iniziale bacino appenninico, compreso fra le valli del Volturno e del Sangro, ove si concentravano inizialmente i possessi. L'abbazia vulturnense, intorno all'815, annoverava così importanti interessi nell'area capuana, in quella beneventana, nel Salernitano, nella Puglia (a eccezione del Salento), in Basilicata, nei territori di Penne, di Chieti, nella Marsica e nell'alta Val Pescara in Abruzzo.
Alla sua morte, avvenuta il 4 maggio 817, G. fu sepolto presso l'ingresso della chiesa di S. Vincenzo Maggiore.
Nella camera centrale della cripta della chiesa è stato rinvenuto il ritratto di un personaggio, a mezzo busto, in abito monastico e in posa di orante, con il capo sormontato dal nimbo quadrato. Si è ritenuto che si tratti del ritratto di G., posto di fronte al luogo in cui dovevano essere state collocate le reliquie di s. Vincenzo di Saragozza, portate dalla Spagna dai monaci vulturnensi all'inizio del IX secolo. La sepoltura di G. fu collocata in dextera parte, immediatamente all'esterno dell'entrata di S. Vincenzo Maggiore, in perfetto allineamento con la posizione del presunto ritratto nella cripta.
La memoria di questo abate rimase sempre viva nella comunità. Il suo corpo, infatti, venne traslato, all'inizio del XII secolo, nel nuovo monastero, ricostruito sulla riva destra del Volturno, insieme con quelli di Ambrogio Autperto e di Ilario, abate nell'XI secolo e restauratore di S. Vincenzo Maggiore. Del luogo della sua risepoltura, nella nuova abbazia di S. Vincenzo, non è stata invece a oggi riconosciuta alcuna traccia.
In conclusione, appare chiaro, in particolar modo dall'esame dei resti archeologici recentemente riportati alla luce, che l'apporto dell'abbaziato di G. alla crescita di S. Vincenzo fu molto rilevante, e l'ambizione progettuale a monte delle realizzazioni avviate, e in vari casi concluse, sotto la sua guida rivaleggiava con quella delle grandi abbazie poste nel cuore dell'Impero carolingio. Certamente essa non era inferiore a quella che animò, nello stesso periodo, gli abati di Montecassino, ma nonostante ciò, la figura di G. è restata nell'ombra sullo scenario italiano. Al di là delle fonti "interne" al cenobio vulturnense, solo la Chronica monasterii Casinensis dà una fugace menzione dell'uomo e della sua principale creazione, e cioè la costruzione di S. Vincenzo Maggiore. Il problema da porsi è pertanto quello di capire se la sproporzione tra la "visibilità archeologica" e quella "storica" di G. dipenda da fattori insiti nella natura delle fonti scritte superstiti o legati alla perdita più in generale di fonti coeve - ai quali può solo porre riparo un approccio di natura del tutto diversa, quale quello offerto dalle testimonianze materiali - o se, viceversa, essa sia legata a un più complesso scenario di difficoltà oggettiva del monastero vulturnense di apparire come "evento" nell'orizzonte dell'Italia carolingia.
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