Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il giornalismo s’affaccia al Novecento forte di 300 anni di stampa periodica e di due secoli di quella quotidiana. Nel "secolo breve", tuttavia, il giornalismo affronta molteplici e ripetuti cambiamenti, che ne modificano radicalmente i tratti. Un secolo di guerre e profondi scontri politici porta alla luce il modo in cui l’informazione giornalistica può essere manipolata come strumento di disinformazione o propaganda. Il costante mutamento tecnologico affianca alla stampa prima la radio, poi la televisione, quindi internet e le tecnologie della multimedialità. La Società dell’informazione mette infine il giornalismo a confronto con una dimensione pervasiva della comunicazione. In un quadro di grandi difficoltà, ne risulta comunque un’inaspettata vitalità dei giornalismi: pratiche informative che sanno adattarsi ai mezzi, ai tempi e ai modi attraverso i quali i cittadini usano l’informazione per vivere nel mondo.
Il giornalismo s’affaccia al Novecento forte di una tradizione ultrasecolare. Il primo giornale periodico era nato ad Anversa 300 anni prima, nel 1605. Aveva un titolo programmatico, "Le ultime notizie" ("Nieuwe Tydinghen"), e dava finalmente regolarità allo strumento dei fogli occasionali (le gazzette italiane, gli occasionels francesi), che a loro volta – alla fine del Quattrocento, dopo l’invenzione della stampa – avevano sostituito l’uso di copiare a mano lettere di ambasciatori e commercianti, per allargare la cerchia dei destinatari di quelle prime notizie artigianali.
Il giornalismo quotidiano aveva anch’esso una storia lunga. Il primo era stato il "Daily Currant", uscito in Gran Bretagna nel 1702. E soltanto dieci anni dopo a Londra si contavano già dieci giornali, che vendevano tutti insieme 44 mila copie.
Come il giornalismo, anche la libertà di stampa e dell’informazione entra nel XX secolo forte di una vita combattuta, ma ultrasecolare: sancita dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America il 4 luglio del 1776, ribadita dal primo emendamento della Costituzione nel 1791; affermata in Francia il 26 agosto 1789 con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo; approdata infine in Gran Bretagna con il Libel Act del 1792.
“Preghiera laica del mattino”, secondo la famosa definizione di Hegel, nei due secoli precedenti il Novecento il giornale e il giornalismo si sono dunque radicati nelle abitudini di vita quotidiana di ampie fasce delle popolazioni dei Paesi industrializzati. L’Ottocento aveva visto poi nascere due tratti caratteristici che ritroveremo lungo tutto il corso del XX secolo. Da un lato si è registrata l’affermazione degli Stati Uniti come il luogo della sperimentazione, dell’anticipo e del consolidamento di tendenze "mediatiche", che da quel Paese estenderanno più o meno velocemente a tutto il mondo occidentale. Dall’altro ha fatto la sua comparsa un tema che abbandonerà le discussioni sul rapporto tra giornalismo e opinione pubblica: la questione se il compito del giornalismo sia riportare fatti nel modo più sereno e imparziale possibile, oppure se possa o debba interpretare quegli stessi fatti nei modi che sono più consoni a chi ha nella scrittura il suo strumento di lavoro, e cioè raccontando non solo una notizia, ma una storia. Quindi costruendo attorno alla notizia del "fatto" quel contesto narrativo che la rende comprensibile, oltre che attraente e avvincente per il lettore.
Proprio gli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento hanno visto due novità radicali per l’allora già non più giovane giornalismo. A partire dal 1830 si afferma infatti la penny press, giornali quotidiani del costo di un solo penny (contro i sei dei quotidiani precedenti). Si affermano in quegli anni i promotori di una "rivoluzione commerciale" che fa del giornalismo quotidiano una vera e propria industria, non più la bottega artigianale destinata a veicolare idee politiche oppure pubblicità, com’era accaduto fino ad allora. Con la penny press, destinata al pubblico di piccola e media borghesia delle grandi aree urbane e metropolitane, il giornalismo americano inizia ad abbandonare la sua vocazione letteraria o politica (o puramente pubblicitaria) per acquisire nel tempo standard professionali differenti. Quasi contemporaneamente, appena 18 anni dopo, nel 1848 con la diffusione del telegrafo, nasce la prima grande agenzia di stampa: l’Associated Press (AP). AP vende i suoi dispacci a molti giornali, ovviamente anche d’orientamento politico nettamente differente tra loro. Deve quindi costruire le sue notizie secondo stili e convenzioni che ne permettano l’uso in contesti anche opposti. Lo stesso strumento di trasmissione, quel telegrafo costoso e incerto nei suoi primi anni di vita (il brevetto di Morse è del 1840), costringe a regole nuove. "Chi, che cosa, quando, dove e perché": le cinque w, che ora si ritrovano in qualunque manuale di giornalismo (who, what, when, where, why), diventano lo standard per iniziare qualunque resoconto giornalistico. È l’unico modo per garantirsi che arrivi al destinatario almeno l’essenziale della notizia, evitando di trasmettere informazioni superflue. Poi semmai qualcun altro provvederà ad abbellirla con colore o buona scrittura.
Eppure, anche di fronte a una storia ormai tanto lunga e anche se quel che accade nel Novecento ha radici saldamente affondate nel Sette e nell’Ottocento, il XX secolo appare un concentrato e un drammatico acceleratore dei mutamenti che modificheranno costantemente volto al giornalismo con ritmi incalzanti per tutta la durata del secolo.
Non c’è bisogno di sottolineare come il Novecento sia quel "secolo breve" che s’apre e si chiude con due rovesciamenti radicali dell’ordine geopolitico mondiale, passando attraverso le dittature e il confronto tra i due grandi blocchi. Lo ricordiamo qui, tuttavia, per notare come il ripetuto sovvertimento del contesto storico e politico, non si abbina solo a un’evoluzione economica portentosa (che è fatta di sviluppo, ma anche di crisi gravissime). Dal punto di vista del giornalismo, il secolo nel quale la storia "si accelera" è infatti lo stesso che imprime una parallela e impressionante accelerazione al cambiamento, alla moltiplicazione e poi all’integrazione delle tecnologie della comunicazione: vale a dire proprio agli strumenti con i quali il giornalismo vive e lavora.
C’è una costante che accompagna la storia novecentesca del giornalismo. È una costante che accompagna anche l’evoluzione delle tecnologie delle comunicazioni di massa, ma che ha, nel campo giornalistico, un’ulteriore specificità. Tutti conoscono il destino delle profezie che hanno accompagnato la diffusione e l’affermazione della radio per prima, della televisione in seguito e infine del web e delle tecnologie o degli strumenti multimediali. In tutti questi casi, negli anni Venti, negli anni Cinquanta e poi nei Novanta, compagnie intere di profeti hanno vaticinato la scomparsa delle tecnologie o dei media preesistenti. La radio avrebbe dovuto seppellire la stampa. La tv avrebbe dovuto togliere dalla circolazione radio, libri e giornali. Per il web e per gli strumenti multimediali c’è ancora qualcuno che s’affanna, un po’ pateticamente, a preconizzare un futuro d’assoluto dominio, privo della concorrenza di televisione, radio, libri e giornali.
In realtà, qualunque prospettiva storica mette in mostra una partitura completamente diversa: nelle comunicazioni di massa l’affermarsi di una nuova tecnologia, o di un nuovo medium non toglie di mezzo le tecnologie già affermate negli usi quotidiani degli utenti, ma piuttosto le integra, vi si affianca e le costringe a una generale ridefinizione di contenuti, formati e linguaggi.
Questa regola, ormai stabilita nella storia delle comunicazioni di massa, tende invece a essere misconosciuta nel campo giornalistico. Ancora negli ultimi anni è stato sufficiente il successo anche parziale o effimero di qualunque nuovo strumento per suscitare i timori dei giornalisti impegnati nei "vecchi" media, o per salutare nuove e impreviste rivoluzioni che avrebbero dovuto modificare drasticamente gli assetti giornalistici esistenti. Dalla teoria della "teledipendenza" dei giornali, fino alle recentissime esaltazioni dei blog o delle street tv, la successione di previsioni sulla morte del giornalismo "tradizionale" non conosce interruzioni.
Non tutte queste analisi sono infondate. È certo, per esempio, che i quotidiani hanno subito a lungo la concorrenza con il giornalismo televisivo, prima di intraprendere con fatica la strada ancora lunga di una nuova definizione di temi, temporalità e forme espressive. Così come non c’è dubbio sul fatto che il multiforme mondo del web stia mettendo a dura prova le capacità creative e l’inventiva dei giornalisti che lavorano nella stampa, alla radio e in tv. Ma di fronte a tutto questo, una prospettiva lunga sul Novecento non può che arrivare a una conclusione diversa.
Passata la boa dell’anno 2000, oggi l’informazione giornalistica è l’unico contenuto che sia proprio a qualunque medium e a qualunque tecnologia nelle comunicazioni di massa. Né la fiction, né l’intrattenimento, e neppure altri contenuti più specifici o circoscritti (dalla pedagogia alla cultura, al gioco e via elencando) possono contare su altrettanta universalità e versatilità nell’adattarsi a qualunque mezzo, per qualunque pubblico, su qualunque scala temporale.
Il giornalismo conserva le sue sedi canoniche e le sue cadenze tradizionali (quotidiane o periodiche) nella stampa, alla radio, in televisione. È riuscito a declinare nuovi formati nei nuovi media, dai canali televisivi all news (24 ore su 24) ai siti web, dai blog agli sms. Ma nello stesso tempo l’informazione giornalistica, o meglio: la capacità di scavare nei temi dell’attualità di rilevanza pubblica con intenti esplicitamente informativi, ha saputo trovare altri spazi, talvolta totalmente inattesi. Basta pensare al lavoro teatrale di Beppe Grillo o Marco Paolini in Italia, alla riscoperta del documentario in versione cinematografica per il quale è probabilmente ingeneroso citare solo il canonico Michael Moore, per arrivare infine al recupero del libro come strumento più appropriato all’inchiesta giornalistica di lungo respiro (caso in cui, restando sempre in Italia e scartando con cura le produzioni pamphlettistiche o letterarie, basterebbe ricordare la costante presenza di giornalisti nelle classifiche di distribuzione della saggistica, da Gian Antonio Stella a Dario Di Vico, da Federico Rampini a Gianni Riotta, passando per i più anziani Giorgio Bocca e Giampaolo Pansa, per citarne soltanto alcuni).
Il giornalismo attraversa il Novecento incorrendo in rischi esiziali – il più pesante dei quali è l’uso distorto e distorcente che sempre se n’è fatto in tempi di guerra, dall’inizio alla fine del secolo – ma approda appunto al nuovo secolo scoprendosi l’unico contenuto comune a ogni mezzo o tecnologia delle comunicazioni di massa. È una condizione di pervasività quella che s’afferma per il giornalismo nel secolo scorso. È una condizione d’indubbio primato (l’informazione giornalistica è ovunque, pervade ogni dimensione della vita sociale e ogni mezzo di comunicazione), che tuttavia espone il giornalismo nello stesso tempo ad altre due e più profonde dimensioni di rischio, che non sono legate a meccanismi interni o a fattori distorsivi, ma – per così dire – alle sue nuove condizioni "di sistema".
Quest’alea di rischio, probabilmente sconosciuta agli inizi del secolo, è dovuta a due nuovi elementi strutturali che sono venuti maturando nel corso del Novecento. Da un lato abbiamo infatti la ragione principale per la quale l’informazione giornalistica è divenuta contenuto veicolabile da qualunque medium, cioè la centralità che la comunicazione ha assunto nell’affermazione della presenza e dell’identità sociale di qualunque soggetto: istituzionale, culturale, economico, politico, associativo, religioso. Dall’altro troviamo un secondo fattore ben noto: la capacità del sistema dei media di sovrapporre, mescolare, integrare, confondere o, se non altro, sfumare i confini tra i suoi generi, contenuti o formati.
Il giornalismo si ritrova alla fine del secolo come elemento cardine della "società dell’informazione", e non poteva essere altrimenti. Questa sua stessa centralità ne mette però in discussione i confini statutari. Il giornalismo, infatti, si ritrova oggi pressato da una parte dalle molteplici attività di comunicazione prodotte da qualunque soggetto sociale, anche senza la mediazione di un’istituzione giornalistica.
Questo è il nodo e questi sono i temi che il giornalismo affronta nel corso del Novecento, in particolare nella sua seconda metà. Sono questioni complesse che vanno affrontate con lucidità e capacità analitica, per definire qual è lo statuto del giornalismo che il Novecento consegna al nuovo millennio.
Il primo passo per affrontare il problema, può essere quello di schematizzare in tre grandi nodi gli aspetti critici propri del giornalismo del Novecento.
Scaffali e scaffali di archivi giornalistici sono la miniera inesauribile di vicende ed episodi, curiosi, drammatici e comunque complessi, che possono restituire la misura concreta dei tre aspetti.
Il programma radiofonico di Orson Welles, con la falsa cronaca dello sbarco dei marziani sulla Terra, testimonia bene tanto la forza persuasiva di un nuovo medium, radicatosi velocemente nei consumi di massa, quanto il modo in cui utilizzando le forme di credibilità d’un medium affermato si possano trasmettere contenuti "aberranti".
Sulla medesima falsariga, potremmo però giocare altri esempi, molto distanti tra loro nel tempo. L’antefatto della seconda guerra mondiale precede soltanto di un anno l’esperimento di Welles. È il 31 agosto del 1939 quando militari tedeschi, camuffati in uniformi dell’esercito polacco, assaltano una stazione radio tedesca a Gleiwitz, nell’Alta Slesia. Ammazzano il guardiano e lanciano un proclama. Nessuno lo sente, ma è sufficiente che Goebbels lo riprenda a Berlino, denunciando l’attacco polacco a un mezzo d’informazione tedesco. La mattina dopo la Germania invade la Polonia. Più di sessant’anni dopo, nel 2003, è con prove false sulla presenza di armi di distruzione di massa, prontamente rilanciate dai media di tutto il mondo, che si dà inizio alla seconda guerra contro l’Iraq nell’arco di un decennio. Così come, qualche anno prima, proprio attraverso un nuovo medium, attraverso il web, viene diffuso il Rapporto Starr che fa precipitare sul presidente Clinton la valanga di uno scandalo sessuale, che metterà seriamente a rischio una delle presidenze più innovative nella storia americana. Ed è ancora un nuovo strumento, questa volta un blog italiano (o più d’uno, a seconda delle versioni), a ridicolizzare nella primavera del 2005 il tentativo di diffondere un rapporto americano censurato sulla tragica fine dell’agente segreto italiano Nicola Calipari, ucciso da militari statunitensi a un posto di blocco in Iraq. È risibile quel tentativo, perché sono state sufficienti elementari conoscenze informatiche per mettere in circolo il documento, totalmente decrittato. Inutile aggiungere che dal blog italiano, quel testo ha fatto il giro del mondo in pochissime ore. E poche settimane dopo quell’episodio, il mondo intero è venuto a conoscere, a distanza di più di trent’anni, la fonte grazie alla quale Bob Woodward e Carl Bernstein, giornalisti del "Washington Post", avevano inchiodato il presidente Richard Nixon alle sue bugie, durante lo scandalo Watergate che, nel 1974, lo costrinse alle dimissioni. Ti tratta del vicedirettore del FBI, Mark Felt, incapace di andarsene nella tomba con il suo segreto. Anche lui, a novantun anni, ha voluto il suo momento di gloria e la sua ribalta mediatica, svelando il mistero di una delle pagine più famose del giornalismo investigativo di tutti i tempi.
Potremmo andare avanti a lungo, perché gli esempi hanno il vantaggio di dimostrare nei fatti quel che le norme dicono in termini astratti, o generali. E tuttavia, per il nostro scopo, per mettere in luce come il Novecento abbia influito sulla tradizione plurisecolare del giornalismo d’informazione, qui è sufficiente enucleare gli elementi che ritornano costantemente nei diversi episodi ricordati: la questione dell’attendibilità o dell’obiettività delle notizie, che attraversa tutto quanto il secolo (magari nella forma dell’uso di notizie false a scopo di "disinformazione"); la capacità delle tecnologie della comunicazione di presa sul pubblico, che è tanto maggiore, quanto più veloce è stata la loro diffusione come abitudine acquisita negli stili di vita delle persone; la dimensione allargata della comunicazione, che è più ampia di quella dell’informazione giornalistica in senso stretto, perché implica non solo la gestione delle notizie, ma anche la previsione e il controllo degli effetti che queste potrebbero avere sul pubblico.
Proprio questi sono i tre grandi nodi attorno ai quali si gioca il mutamento del giornalismo nel Novecento che potrebbero tranquillamente trovare moltitudini di esemplificazioni nei secoli precedenti. Si potrebbe aggiungere che la velocità che la tecnologia imprime ai processi di comunicazione risale se non altro a Gutenberg, e questo per restare solo nella modernità. Si potrebbe rammentare infine come l’Amleto di Shakespeare potrebbe essere considerato un’ottima dimostrazione della differenza tra informazione obiettiva e comunicazione persuasiva.
Comunque la specificità novecentesca sta nel fatto che soltanto nel Novecento questi tre fattori agiscono sistematicamente, nel campo giornalistico e la loro interazione è tanto radicata.
Solo una pubblicistica immemore ha potuto contrabbandare negli anni Settanta la critica statunitense, italiana ed europea dell’obiettività come un tema nuovo nel dibattito sul giornalismo. In realtà quelle analisi – dagli interventi di Umberto Eco in Italia al rinnovamento della sociologia statunitense del giornalismo con l’affermarsi degli studi sul newsmaking – smascheravano la costruzione d’una pretesa "tradizione" del giornalismo obiettivo che aveva poco meno di 50 anni. Curiosamente era una sorta di "effetto di ritorno", ossia la riedizione novecentesca di un movimento che già aveva cambiato il volto del giornalismo, almeno negli Stati Uniti, nel secolo precedente.
L’obiettività, la pretesa di riportare i fatti e le notizie nella loro nuda essenzialità, lasciando a parte il commento e l’interpretazione, non è tuttavia un presupposto storico del giornalismo. Al contrario, il giornalismo delle origini è radicalmente diverso su entrambe le sponde dell’Atlantico.
L’imprinting del giornalismo europeo viene dalla Rivoluzione francese, dove il giornale è strumento d’azione e lotta politica. L’archetipo è in questo caso la raffigurazione dell’assassinio di Jean-Paul Marat, dipinto da David. Marat, ucciso da Charlotte Corday, è disteso nella vasca da bagno, dove cura il suo eczema, mentre ha in mano un foglio. Quel testo incompiuto era un articolo per l’"Ami du peuple", il giornale del quale Marat era direttore. Dalla Rivoluzione francese, come ha bene raccontato Jurgen Habermas nei suoi studi sull’opinione pubblica, i giornali sono in Europa fino alla fase tra le due guerre mondiali, il sostituto dell’agorà ateniese. I giornali sono la piazza, sono lo strumento nel quale si formano, si confrontano e s’affermano le pubbliche opinioni sui temi di rilevanza collettiva. Quindi uno strumento diretto d’interpretazione, d’azione e di scontro politico. Proprio il contrario dell’asettica obiettività, che avrebbe preteso l’egemonia nel Novecento.
L’alternativa al foglio politico è allora, in Europa come negli Stati Uniti e soprattutto in Italia, il giornale letterario: il giornale colto, spesso ampolloso, strumento esclusivo di élite ristrette, le sole che possano avere interesse e possibilità d’accesso a uno strumento che disdegna l’attualità quotidiana e cerca ristoro nei terreni impervi dell’alta cultura. Ancora una volta, esattamente l’opposto del giornalismo obiettivo.
Come terza via tra il giornale politico e quello letterario, negli Stati Uniti aveva preso piede nell’Ottocento il giornale come veicolo di propaganda, réclame e pubblicità. Nulla, ancora, a che vedere con l’obiettività.
È solo a metà dell’Ottocento, con l’affermarsi della penny press e quindi con una sensibile diffusione del quotidiano presso il grande pubblico, che si fa strada la necessità di un’informazione documentata e quindi obiettiva. Con l’inizio del secolo successivo il giornalismo muckraker, il giornalismo aggressivo, prende di mira negli Stati Uniti i temi della speculazione edilizia, delle speculazioni finanziarie, il potere delle lobby. Il tentativo è chiaro: solo giornali che sappiano cogliere gli interessi di fasce ampie della popolazione possono aspirare a dati di vendita meno ristretti di quelli dei fogli della tradizione. Le tecniche iniziano a essere quelle dell’esibizione delle fonti e dell’uso di un linguaggio più asciutto. I rischi sono altrettanto chiari: Jack Lemmon e Walther Matthau ne sono la personificazione nell’indimenticabile Prima Pagina, diretto da Billy Wilder.
Ma l’obiettività come ideologia, o meglio come insieme di pratiche e procedure tese a garantire la trasparenza e la verificabilità delle notizie riportate sui giornali, nasce davvero solo dopo la prima guerra mondiale. È allora, quando sono stati messi a confronto sia con la censura e la disinformazione sistematicamente praticata dagli eserciti in conflitto, sia con il nascente mondo del news management e delle news relations, che i giornalisti americani vanno alla ricerca di standard che possano garantire al loro lavoro l’attendibilità e la credibilità, messe in discussione da un mondo che sempre più viene organizzandosi per usare i mezzi d’informazione come strumenti di comunicazione, e quindi ne mette a rischio l’autonomia e l’indipendenza, i criteri stessi sui quali si fonda la pratica giornalistica.
L’obiettività ha però vita breve. Diventa certo un assioma del giornalismo che cerca una strada per "istituzionalizzarsi" e acquisire prestigio e autorevolezza fra gli anni Trenta e i Cinquanta. Trova anche solidi canali attraverso i quali diffondersi con la rapida affermazione delle scuole di giornalismo (la più famosa, la Columbia School of Journalism è stata aperta il 30 settembre del 1912). Paradossalmente prende forza proprio dai movimenti che dovranno poi metterla in crisi, perché il già citato lavoro del "Washington Post" sul Watergate e, più in generale, la copertura dei media americani sulla guerra del Vietnam hanno fatto molto per rinsaldare la fama del giornalismo obiettivo, che non guarda in faccia a nessuno pur di raccontare i fatti e niente altro che i fatti.
Eppure è lo stesso sviluppo del sistema dei media a liquidare l’obiettività, almeno nelle sue pretese più rigide ed esplicite. “La notizia, solo la notizia” è una formula che non basta più a spiegare un mondo complesso. La notizia fuori dal suo contesto può difficilmente prendere senso e quindi pesare nel vero lavoro che il giornalismo è chiamato a fare dalla seconda metà del Novecento: raccontare quel che accade e stabilire una prima griglia delle priorità. Nel 1968 la rete televisiva americana CBS lancia 60 Minutes, il primo programma di approfondimento. È il segnale. Anche la televisione, il mezzo che allora poteva essere il primo per immediatezza, sintesi e pura referenzialità, decide di affiancare l’analisi e l’indagine in profondità all’elenco delle notizie di giornata.
L’analisi, la contestualizzazione, l’approfondimento possono ovviamente rispondere a criteri di trasparenza, attendibilità e verificabilità. Non sono però all the news that fit to print come recita ancora oggi sotto la testata il "New York Times". Richiedono altro, non solo la notizia, ma l’interpretazione, lo scavo, l’inquadramento.
Il Novecento ha visto insomma la breve parabola dell’obiettività. Ma l’idea che il giornalismo obiettivo possa essere quello che riferisce solo le notizie, niente altro che le notizie e in maniera asettica o oggettiva, si è infranta tutto sommato rapidamente contro un ostacolo insormontabile. Per essere comprese, le notizie vanno analizzate, interpretate e spiegate. Non è possibile limitarsi a riferirle. La complessità sociale esige altre strategie informative e impone altri codici narrativi.
A ben guardare è poi l’altro grande fattore di mutamento del secolo che ha messo in crisi quel tentativo di istituzionalizzare il giornalismo su un terreno che non poteva essergli proprio, come quello dell’obiettività assoluta. Nessun altro secolo, al pari del Novecento, ha visto succedersi tanti profondissimi mutamenti tecnologici. Alla stampa, con la tradizione che abbiamo raccontato, s’affiancano rapidamente la radio, la televisione, il web e le altre tecnologie della multimedialità. È un processo d’innovazione costante e radicale, che non solo non scalza i media preesistenti all’affacciarsi d’una nuova tecnologia, ma ha piuttosto due altri e fondamentali effetti: costringe via via tutti media a ridefinire in continuazione contenuti e formati, linguaggi e logiche; e poi cambia radicalmente i tempi o le temporalità dei singoli mezzi.
Abbiamo già ricordato come le previsioni di rapido e devastante successo d’ogni nuovo medium siano state sistematicamente smentite dai fatti. Stampa, radio, televisione, web e tutti gli altri supporti multimediali si integrano oggi uno con l’altro. La televisione ha forse ancora un vantaggio quantitativo in termini di diffusione e accesso di massa, ma non è detto che i prossimi anni non vedano sopravanzare il web.
Certo è, comunque, che l’affiancarsi di nuovi media a quelli già esistenti ha visto lungo tutto il Novecento una costante ridefinizione di linguaggi, formati e contenuti. Basterebbe pensare, a questo proposito, a due o tre esempi che sono nella memoria storica collettiva.
I quotidiani degli anni Quaranta erano giornali ancora impaginati verticalmente, poveri di fotografie, molto "scritti", come si direbbe oggi. I quotidiani attuali sono, un po’ in tutto il mondo, strumenti dove l’infografica, le pagine tematiche, l’attitudine a costruire dossier sui grandi fatti d’attualità hanno creato modalità cognitive di confezione e lettura delle pagine per le quali l’interconnessione degli elementi testuali, visivi, grafici e numerici presenta straordinarie similitudini più con l’ipertestualità del web che con la simultaneità della televisione.
La radio "di parola", la radio "parlata" ha per prima messo in connessione diretta i giornalisti con gli ascoltatori, a partire – per restare solo dall’esperienza italiana – dagli anni Settanta. L’infotainment televisivo, quel modo di costruire programmi d’informazione e d’intrattenimento, mescolando contenuti, linguaggi e personaggi dei due generi, è diventato abitudine in tutte le televisioni occidentali. Ed è forse, per ascoltare gli analisti più avvertiti, più uno sconfinamento dell’informazione giornalistica negli spazi dell’evasione che non il contrario. Ma ciò accade proprio mentre le tecnologie di diffusione (dal cavo, al satellite, al digitale terrestre, alla web tv) fanno nascere e preludono all’affermazione di canali televisivi tematici (primi fra tutti i canali all news), che a loro volta ridefiniscono i modi dell’offerta e del consumo televisivo.
Dentro questa cornice, troppo nota perché valga la pena di esplorarne i dettagli, la novità probabilmente più rilevante dell’ultima parte del secolo è la profonda torsione alla quale è stata sottoposta la temporalità dei mezzi d’informazione giornalistica. L’innovazione tecnologica ha trovato infatti non pochi ostacoli decisamente ostici. Alcuni stanno nei supporti materiali del giornalismo: il quotidiano su carta ha un ciclo produttivo che impone, quasi automaticamente, la cadenza delle 24 ore. Le abitudini di vita (o d’ascolto) danno ancora oggi il primato all’edizione serale del telegiornale e a quella del mattino del giornale radio. Eppure, anche conservando queste radicate tradizioni, la temporalità dei mezzi d’informazione è in realtà completamente cambiata negli ultimi due o tre decenni.
Il primo e più profondo cambiamento è venuto con la ripresa diretta televisiva (in Italia a partire dalle Olimpiadi di Roma nel 1960). Un mutamento decisivo, i cui effetti sono ancora negli occhi e nella memoria di tutti, dove intere categorie "intellettuali" (basta pensare al modo di raccontare lo sport) sono state costrette a innovazioni totali. Con la televisione si è presto modificata anche la radio. Abbinandosi al telefono, e poi più ancora con la telefonia cellulare, non soltanto ha permesso di portare gli ascoltatori dentro i programmi, ma ha rivoluzionato i tempi dei collegamenti con inviati e corrispondenti: primo esempio di cronaca in tempo reale. Internet e le trasmissioni via satellite hanno poi dato la possibilità viva e concreta di un’informazione in "tempo reale" senza cesure temporali nell’arco della giornata, ma costantemente aggiornate sul tempo degli eventi stessi.
Il "flusso" degli eventi, secondo la fortunata definizione del critico e storico inglese Raymond Williams, è diventato continuo. Una continuità assecondata dall’innovazione tecnologica, che ha però costretto nel contempo tutti i mezzi d’informazione a trovare nuovi punti fermi nel tentativo costante di dare senso (e quindi di fermare) gli eventi in movimento. Il giornale si è "settimanalizzato" prima con supplementi, rubriche, fascicoli, poi ancora oltre con il prolungamento nel tempo (attraverso libri, dischi, cd), e con una versione costantemente aggiornata tramite i siti web. Gli stessi siti hanno dato altre estensioni alla radio e alla televisione, che già avevano costruito i loro palinsesti informativi giocandoli sull’alternanza costante dell’informazione "in tempo reale" e degli spazi di approfondimento. Strumenti antichi, come i periodici, hanno saputo trovare ambiti nuovi specializzandosi.
Il tema del "flusso" è diventato quindi essenziale per ciascun mezzo, costringendolo a ridefinire le temporalità della tradizione in funzione di un ambiente mediatico nel quale gli eventi sono raccontati e ripresi già nella dimensione del loro farsi. Ed è poi diventato, soprattutto, abitudine quotidiani negli stili di vita dei cittadini informati. I ripetuti crash dei siti web d’informazione ne sono la prova più evidente. Un sito web "va in crash" quando gli utenti che vogliono accedere alle sue pagine sono più numerosi degli accessi garantiti dal server. E puntualmente ciò è accaduto in occasione di ogni grande evento, nazionale o internazionale: dalla diffusione del Rapporto Starr alle Olimpiadi, dall’avvio delle numerose operazioni belliche nell’ultimo decennio del Novecento e nei primi anni Duemila. Così come le immagini di quegli stessi grandi eventi, dal funerale di Diana Spencer all’attacco alle Due Torri, fanno parte della memoria collettiva: la memoria di chi ha la televisione e internet come strumento "naturale" di accesso alle informazioni, nel momento stesso in cui le informazioni (cioè gli eventi) si producono.
Dov’è chiaro infine, che la questione del "flusso" si lega strettamente al tema della temporalità dei media, nell’effetto di distorsione che spesso avviene tra la possibilità di assistere in diretta a un evento e la non conseguente possibilità di interpretarlo o di ricostruirne una dimensione storica almeno approssimativa.
Il Novecento ha quindi costretto il giornalismo a un mutamento incessante, spingendolo lungo le strade di una continua innovazione tecnologica, che ha fatto i conti con una complessità sociale in crescita esponenziale, inducendo ad adeguare gli strumenti essenziali della cronaca alle necessità ben più articolate di temporalità e linguaggi che possano inquadrare gli eventi di rilevanza pubblica. Detto altrimenti, il giornalismo ha percorso territori ben diversi da quelli dell’ideologia dell’obiettività. Le notizie e il modo di trattarle sono divenute sempre più il risultato d’un lavoro attorno ad alcuni fattori decisivi: le tecnologie di raccolta e diffusione; i tempi e i modi dell’uso che il pubblico può farne; la collocazione, o la rilevanza, del giornalismo rispetto agli altri poteri, o meglio: rispetto alle altre "istituzioni sociali", con le quali divide – spesso in maniera conflittuale – il potere di stabilire l’agenda della pubblica opinione.
Quest’ultimo aspetto introduce il terzo grande fattore di mutamento novecentesco: la nascita, l’affermazione e, infine, il dominio della dimensione della comunicazione nella presenza pubblica di qualunque soggetto, attore o istituzione sociale.
La "comunicazione" è una sfera ben distinta dall’informazione giornalistica. Tutto, certo, può essere comunicazione. Qui, tuttavia, intendiamo con questo termine l’attività comunicativa promossa o prodotta da qualunque attore sociale, con o senza la mediazione giornalistica. Dalla pubblicità fino agli URP (gli uffici per le relazioni con il pubblico, riconosciuti da apposita legge per qualunque ente pubblico in Italia), passando attraverso il news management, la comunicazione politica, quella aziendale o le pubbliche relazioni, il tema è ben noto. È il nodo dello sviluppo progressivo e inarrestabile dello sforzo di comunicare direttamente con clienti, utenti o cittadini, con o senza la mediazione (che è inevitabilmente un filtro) dell’informazione giornalistica.
È un tema complesso, che non può essere ridotto alla dimensione del news management o delle relazioni pubbliche. Potremmo dire piuttosto che la dimensione della comunicazione prende spazio sul terreno delle relazioni sociali, oppure che ne diventa uno degli elementi determinanti. Potremmo aggiungere, più specificatamente, che all’informazione giornalistica si associa oggi (insieme a molto altro) una componente fondamentale di valore d’uso, dove il valore sta nel tentativo di aderire alla realtà, dandone un quadro interpretativo ancorato alla cerniera dell’attualità; mentre alla comunicazione si associa un valore di scambio, che risiede (in misure e pacchetti variabili) nei contenuti simbolici, nelle strategie di persuasione, passando per i contenuti del vissuto quotidiano.
Per quanto incerta e approssimativa, questa distinzione dice soprattutto una cosa. Tra l’informazione giornalistica e la comunicazione, il Novecento ha messo in campo una partita decisiva. Da un lato c’è la griglia (sempre mutabile) delle notizie d’interesse collettivo, quelle stesse notizie che dovrebbero formare l’agenda delle priorità di una società avvertita, informata e consapevole. Dall’altro c’è il processo continuo che qualunque attore sociale compie per proporre e imporre la sua presenza e i suoi temi in quella stessa agenda.
Riportiamo questa osservazione schematica al contesto che abbiamo descritto sopra e avremo, come agitato da uno shacker, il precipitato del contesto nel quale si muove oggi il giornalismo, dopo un secolo di mutamenti accelerati.
Una competizione continua con altre agenzie di comunicazione per stabilire l’agenda quotidiana, settimanale o periodica dei temi di rilevanza collettiva. Un aggiornamento costante sotto il profilo tecnologico. Una dimensione di rivisitazione permanente di linguaggi, formati e modelli che cercano di adeguarsi ai bisogni e alle attitudini di un pubblico esposto all’offerta di mille altre fonti di comunicazione o informazione. Il rapido dileguarsi di standard sui quali s’era tentato di consolidare uno statuto professionale, che non può invece che essere rimesso quotidianamente in discussione.
“La preghiera laica del mattino” può essere recitata oggi in qualunque momento della giornata. Un collegamento a internet può ricostruire un’agenda della giornata, della settimana, dell’anno o della stessa fase storica, ben diversa da ciò che si ritrova sulla prima pagina o nel fascicolo del nostro quotidiano preferito. Quella stessa preghiera potrebbe anche essere lanciata non dal sacerdote imparziale, detentore delle virtù obiettive che gli erano state attribuite. In funzione dei nostri interessi e delle nostre predilezioni, l’officiante potrebbe non essere un giornalista imparziale e obiettivo. L’esempio casereccio e nazional popolare di Bruno Vespa, privato del confronto d’ascolti con gli alter ego Enzo Biagi e Michele Santoro, dice molto di più di qualunque dissertazione storica o sociologica.
Il Novecento ci consegna, a pochi anni dalla sua conclusione, un panorama giornalistico drasticamente mutato. È caduta la pretesa dell’obiettività. Non sta più in piedi la pretesa di un resoconto oggettivo sui fatti di giornata. S’è dissolta la stessa cornice tradizionale delle 24 ore come frame temporale nel quale leggere e interpretare le notizie.
Ne soffre, evidentemente e prima di tutto, l’approccio tradizionale al giornalismo. Ne soffre quell’idea di usare l’informazione giornalistica come strumento di razionalità e razionalizzazione del dibattito politico, che è oggi con tutta chiarezza un retaggio ottocentesco non più utilizzabile. Ne soffre inoltre l’idea che il giornalismo sia il campo principale attraverso il quale l’opinione pubblica seleziona i temi rilevanti, l’agenda delle priorità.
Il giornalismo resta, però, uno strumento discreto. Contro tutti coloro che ne lamentano l’invadenza, il giornalismo ha saputo trovare modi e forme per accompagnare la modernità. Nei fatti il giornalismo si è adattato alla differenziazione dei bisogni sociali e della domanda d’informazione. L’incredibile proliferazione di strumenti, dalla free press nelle metropolitane fino ai quotidiani di qualità, dai tabloid da supermercato fino ai programmi televisivi di giornalismo d’inchiesta, dai siti internet fino alle lettere d’informazione riservate a ristretti club di abbonati, il giornalismo ha saputo declinare i suoi strumenti proprio in funzione di una domanda differenziata e articolata.
Fleet Street, la mitica strada dei grandi mezzi d’informazione londinesi, ha visto l’abbandono dell’ultimo reduce all’inizio dell’estate 2005. Dopo il "Times", il "Guardian", il "Daily Mirror", come tutti gli altri ha cambiato sede anche la Reuters, così come in tutta Europa (e negli Stati Uniti da tempo) i grandi quotidiani hanno abbandonato il centro delle città e delle metropoli, per prendere posto in periferia. Ma i traslochi non hanno, se non per poco, valenze simboliche. Il giornalismo, semplicemente, non esiste più. Non c’è più quella sola grande macchina quotidiana, della quale avevamo più che altro un’esperienza cinematografica, piuttosto che vissuta, che ogni giorno restituiva il mondo nella sua gerarchia al cittadino informato. Oggi esistono i giornalismi.
I giornalismi sono la pratiche d’informazione giornalistica, differenziate in funzione del pubblico, dei mezzi, della temporalità. I giornalismi sono il lavoro e il prodotto industriale di istituzioni sociali che rispondono a pubblici, audience, interessi e gruppi sociali che trovano ancora nel giornale (sia esso di carta, di parola, d’immagine o multimediale) lo strumento che permette di fare un punto nella giornata, nella settimana, nel mese nell’anno.
Resta lo stesso problema che già si affrontava 400 anni fa. A chi risponde il giornalismo? A chi rispondono i giornalisti? Soltanto al loro pubblico?
Quello che dicono gli ultimi anni del Novecento e i primi del nuovo secolo è che il giornalismo non risponde soltanto a obiettivi (legittimi) di mercato o a profitti industriali. Qualunque ne sia la temporalità, il mezzo di diffusione, l’obiettivo di mercato o il pubblico, il giornalismo deve rispondere ancora alla solita domanda: che cos’è accaduto d’importante nel mondo, qual è l’agenda delle priorità questa mattina, domani, o la prossima settimana e nel prossimo mese?