GIORGIONE (appellativo di Giorgio da Castelfranco)
Pittore. Fra tutti i maggiori artisti del Rinascimento italiano, G. appare quello più difficile da conoscere, non solo per la difficoltà che è insita nel genio di farsi intendere nella sua intima potenza creativa, ma anche nel senso più materiale, di sapere quali opere effettivamente l'artista abbia compiuto. Quando si dice Raffaello o Michelangelo, Correggio o Tiziano, subito si vede un nucleo numeroso di pitture che caratterizzano bene la personalità del maestro; e i problemi insoluti o insolvibili di attribuzione riguardano soltanto opere non essenziali alla ricostruzione critica. Non così per G. Si è parlato persino del mito di G., quando le notizie sicure non erano ancora distinte da quelle incerte. Oggi non più: se la data di nascita è incerta, sappiamo con certezza ch'egli morì ancor giovane nel 1510, quando già aveva raggiunta la fama, perché aveva ricevuto onorevoli incarichi: nel 1507 e nel 1508 dipinse una tela per Palazzo Ducale e nel 1508 i freschi del Fondaco dei Tedeschi. Purtroppo il primo lavoro è distrutto, e del secondo restano tracce insignificanti e alcune incisioni settecentesche. Il Vasari ci dà poche notizie sulla vita, ma suggestive e attendibili approssimativamente: "Il quale, quantunque nato d'humilissima stirpe, non fu però se non gentile e di buoni costumi in tutta sua vita. Fu allevato in Vinegia e dilettossi continouamente delle cose d'amore e piacqueli il suono del Liuto mirabilmente e tanto, che egli sonava e cantava nel suo tempo tanto divinamente, che egli era spesso per quello adoperato a diverse musiche ed onoranze, et ragunate di persone nobili". Tutta l'arte di G. è la più palese dimostrazione dei caratteri amorosi e musicali dello spirito di lui. La ragione della morte precoce fu la peste, come anche il Vasari raccontò.
Per le opere le notizie del Vasari sono vaghe e confuse: egli conosce soltanto quelle pubbliche per essere straniero a Venezia e non quelle fatte per i privati. Per fortuna un contemporaneo, Marc'Antonio Michiel, elencò alcune opere di G. che si sono conservate: 1. I tre filosofi della Galleria di Vienna; 2. la Venere della Galleria di Dresda; 3. la Tempesta della collezione Giovanelli a Venezia, ora acquistata dal governo italiano e donata alle Gallerie di Venezia; 4. il Cristo della chiesa di S. Rocco a Venezia. Il Michiel ricordò anche una Nascita di Paride, nota attraverso una stampa e una copia di frammento, un Ragazzo con una freccia di cui una copia è conservata nella Galleria di Vienna, una Nuda "stesa e volta", riprodotta in un'incisione; e altre opere che sono andate perdute, fra cui alcuni effetti di notte. Per una scritta nel verso si deve considerare opera sicura del maestro: 5. un ritratto di donna della Galleria di Vienna. Per ragioni di stile e di probabilità storiche sono anche da considerarsi come opere di G. le seguenti: 6. la Madonna in trono fra i santi Francesco e Liberale nel duomo di Castelfranco; 7. la Giuditta dell'Ermitage di Leningrado; 8. il ritratto di giovine del Museo di Berlino. Infine un Davide con la testa di Golia, che si deve annoverare fra le opere sicure di G., è conosciuto attraverso due stampe e il frammento d'una copia.
Alle opere suddette che devono essere considerate di G., altre si aggiungono che possono essere attribuite a lui. Esse sono: 1. il Concerto campestre, del Museo del Louvre; 2. il Concerto, della Galleria Pitti a Firenze; 3. la Madonna col Bambino, .S. Antonio e S. Rocco, del Museo del Prado a Madrid; 4. il Cristo che porta la croce, del Museo Gardner a Boston; 5. il disegno d'un pastore davanti alle mura di Castelfranco, già presso la casa Böhler a Lucerna. S'intende che il problema critico va fondato sulle opere che debbono essere attribuite a Giorgione.
G. non adatta un contenuto tradizionale alla sua fantasia artistica, ma inventa il contenuto nuovo che sia tutt'uno con la nuova forma, senza dover modificare alcuna tradizione di contenuto indipendente dalla nuova forma. Onde nasce un senso di libertà e di spontaneità, di novità totale, d'indipendenza da precedenti storici conosciuti, insomma quel senso di miracolo che non poco ha concorso a creare il "mito" di G.
Nel momento in cui sorse G., i pittori veneziani dimostravano con insistenza il desiderio di rappresentare la scena sacra all'aria aperta. Erano in questa tendenza due motivi, l'uno stretto al mestiere dell'arte, l'aspirazione realistica, l'altro che si ricollega alla condizione della civihà, la diminuzione della severità della coscienza religiosa. Si trattava di fare la breccia nelle pareti chiesastiche, di sostituire il sole alla lampada, la visione della natura alla concentrazione nell'apparire di un'immagine sacra.
Quando verso il 1504 si accinse alla pala di Castelfranco, G. sentì che la pala d'altare non può essere profana. Evitò quindi la scena campestre che snaturava lo scopo dell'opera, né ritornò al motivo absidale, che non gli permetteva di manifestare il suo entusiasmo per la natura. Ricercò e ottenne la soluzione nuova.
Il sentimento religioso precisato, materializzato in un'autorità morale da Giovanni Bellini, qui diviene libero e fantastico, si spande nell'aria ma non si perde, perché si eleva, perché si distingue dalla terra e dai suoi rappresentanti, perché spiritualmente si raffina. Non più il chiuso del tempio e nemmeno la libertà piena e noncurante della campagna. La lontananza del paesaggio e la comunione dell'immagine con l'aria aperta contrapposta all'ambiente chiuso e terreno dove vivono gli uomini, salvano G. dalla superficialità realistica quanto dalle limitazioni religiose.
Le immagini della pala di Castelfranco non hanno fra loro una relazione di movimento, ognuna si atteggia per proprio conto. La loro unità è nel carattere di stilizzazione, le proporzioni allungate, il posar lieve, la squisita finezza dei lineamenti ci dicono che i personaggi del quadro sono anime elevate, delicate, sofferenti, per una tristezza vaga che si perde nel sogno.
Con la pala d'altare, un'altra tradizione iconografica aveva raggiunto nel Quattrocento veneziano un'espressione tipica: la Pietà. Anche G. produsse una Pietà, afferma l'elenco del Michiel; ma essa non è giunta a noi. Si conserva invece di lui, nella chiesa di S. Rocco a Venezia, una scena che ha un indirizzo spirituale simile alla Pietà: il Cristo che porta la croce tirato per la fune da un manigoldo. Anche oggi dalla sola modellazione rimasta, si ha l'impressione dell'eccezionale. Lo spirito di G. si rivela per l'abbandono nella testa del Cristo, la quale, di fronte al piegare della testa di S. Francesco nel quadro di Castelfranco, raggiunge una meravigliosa espressione di sconforto; le sofferenze hanno toccato gli ultimi gradi; e solo e nudo rimane il valore etico. Anche l'atteggiamento del manigoldo ha il carattere giorgionesco della mancanza assoluta di volgarità. La scena è questa: il manigoldo si volge per dare uno strappo alla corda: ma il braccio rimane inerte, non usa violenza.
Così pure né violenza né ripugnanza emana la testa di Oloferne sotto il piede di Giuditta nel quadro dell'Ermitage di Leningrado. La Giuditta è immaginata in piedi davanti a un muricciolo, accanto a un albero, di là dai quali si stendono le campagne e il mare. La donna è in atto di schiacciare la testa di Oloferne ma il piede giunto a porsi sulla fronte sfiora e non preme, la volontà tentenna. L'azione si risolve nel raccoglimento, la violenza in un soffio di delicatezza.
V'è nel profilo della guancia destra del giovane ritratto nel museo di Berlino un non so che di energico: v'è nel collo un'ombra dura; nello sguardo una penetrazione fredda che allontana l'osservatore. Ma sotto la freddezza apparente è un velo di malinconia e le carni delicate, le linee fini del naso e del mento, la mano e le labbra che sfiorano appena, suggeriscono l'idea di una natura delicata, d'un giovane gracile, quasi malato, di alto lignaggio, superbo, che allontana da sé e s'allontana non senza rimpianto.
Nelle scene fantastiche, profane o mitologiche, G. non ebbe un precursore. I motivi mitologici di un Cima da Conegliano hanno per scopo soltanto di stendere sotto gli occhi con chiarezza una scena, e non di elaborarla fantasticamente, senza cioè esorbitare dal carattere puro e semplice dell'illustrazione. Né i motivi mitologici o simbolici trattati a Mantova dal Mantegna o a Ferrara dal Tura, dal Cossa, dal Roberti e dalle loro scuole, avevano altro scopo oltre la determinazione realistica o l'efficacia simbolica.
Nella Tempesta della collezione Giovanelli, per la prima volta nell'arte italiana, le figure non sfuggono al loro ambiente perché immaginate con una fantasia rivolta a un'impressione di paese. Non più figure con paese, ma paese con figure. G. aveva chiaro nello spirito un effetto naturale estivo che in Venezia assume un carattere particolarissimo. Quando il sole è sceso da poco, e lascia il cielo di ponente affatto limpido, mentre verso oriente le nubi si sovraccaricano, allora le nubi assumono una colorazione di un intensissimo verd'azzurro minaccioso, e se più sotto vi sono case che guardano a ponente, le facciate di queste si colorano di luci argentine con riflessi di lievissimo azzurro e di rosa: il tutto ha una delicatezza, una finezza quasi timida di fronte all'ampia e greve massa azzurra. Sulla terra è un continuo contrasto: le parti in luce assumono la delicatezza coloristica delle case, le parti in ombra accentuano l'oscurità delle nubi. La fantasia di G. non contenta di un'ampia nube grave, vuole agitarla, vuole squarciarla con un crudissimo lampo: troppo bisogno di vita nervosa egli ha, perché attraverso l'animo un indifferente cielo nuvoloso non si trasformi in una tempesta. E mentre nel lampo trova motivo di farsi terribile, tutta la gaiezza del suo spirito si manifesta nelle parti illuminate del paese. E gode dei riflessi nelle case, rendendone le ombre trasparenti, giocando nei contrasti d'ombra e di luce. Ma se la tempesta è il soggetto del quadro non per questo meno belle sono le figure.
Il valore delle carni della donna, manifesto per il contrasto con il drappo bianco - il bianco del drappo indica qual vita assume il bianco rosato delle carni -, raggiunge un'energia specialissima in quanto traspare attraverso l'arbusto fronzuto, che per contrasto vien colorato di nero. Il bimbo poppante è una creazione felicissima per quel rientrare della testa nel collo, come avviene di chi gode di un'intimità cui s'abbandona con profonda soddisfazione. La donna guarda avanti a sé, fissa; la sua vita è sospesa nella contemplazione. Leggermente mesta e pensosa, lascia che il tempo trascorra, assorta nelle sue funzioni di madre, e la noncuranza della sua nudità accentuata dal drappo che copre solo le spalle, le dà un carattere notevole che la rende omogenea con le piante che l'attorniano, con il ruscello che per poco non le lambisce i piedi. Il volto è segnato accuratamente; il resto del corpo immaginato sommariamente nelle sue masse. Nell'atteggiamento non è snellezza, come appunto avviene quando si dipinge un nudo non già fondandosi sull'acquisita conoscenza dell'elasticità della macchina anatomica, ma sull'impressione della massa del nudo stesso.
Presso una città, in un luogo abbandonato per rovina di edifizi, isolato per altezza di piante, un uomo e una donna sognano. Per la calma degli atteggiamenti, per il riposato procedere delle loro funzioni è in essi una vita lenta, eco della vita naturale, che li attornia, velata di mestizia, perché in quel momento la natura si vela del crepuscolo. Quell'angolo del mondo non partecipa alla lotta che, d'accordo con la terra, i raggi fanno al fatale progredire della notte. Il soggetto è la natura: uomo, donna e bambino sono soltanto elementi - non i principali - della natura. Con una tale forza di trasformazione fantastica della natura, G. affronta addirittura un contenuto filosofico, non solo per renderlo poetico, ma anche per renderlo natura. Si tratta dei Tre Filosofi della Galleria di Vienna, la cui completa interpretazione è stata data da un erudito italiano.
G. nei Tre Filosofi non ha solo rappresentato tre diversi modi di pensiero, ma addirittura lo svolgimento della cultura che lo circondava. Il trapasso della filosofia aristotelica teologizzante impersonata dalla figura del vecchio col cappuccio, alla filosofia aristotelica averroistica che l'uomo di mezza età impersona col suo costume orientale infine l'atteggiamento delle nuove generazioni nella figura del giovane smarrito nella contemplazione della natura. Il vecchio, che rappresenta la vecchia cultura, impreca; l'uomo di mezza età ha ancora qualche rapporto con il pensiero del vecchio; ma l'atteggiamento assunto dal giovane denota, nel suo atteggiamento sospeso, incertezza. Che questo sia realmente il soggetto del quadro e non fortuita coincidenza con escogitazioni posteriori conferma la diffusione dell'aristotelismo nella nobiltà veneta frequentata da G. Questa interpretazione ricavata da sicuri elementi storici accresce l'immensa grandiosità del mondo lirico di G. in questa veramente sacra conversazione. Mai una tale scena nell'arte di qualunque tempo ha potuto trasformarsi senza residuo in immagine, divenire pura, lirica contemplazione. La severità del pensiero impressa nell'atteggiamento dei gesti e nelle figure risuona solennemente nell'ora del crepuscolo, lontano dal chiuso cantuccio della scienza umana, fondendosi con la natura.
Il medesimo rapimento per l'armonia del creato, per cui l'uomo è sognato un tutto con la natura, è ulteriormente sviluppato nella Venere di Dresda: in essa più che in qualunque altra opera possiamo studiare il massimo sviluppo dell'arte di G.
In aperta campagna Venere dorme: dalla campagna aperta e silenziosa il sonno trae un carattere di tranquillità sacra. La luce del cuscino, su cui poggia il capo di Venere, è violentemente interrotta dai solchi profondi del legaccio che lo stringe e lascia libera la stoffa sovrabbondante. Alcuni di questi solchi sono perfettamente conservati quali G. li dipinse: grossi e grevi, essi sono il prodotto di veri e proprî colpi di pennello, tinto in un rosso quasi nero, terminati da quel grumo di colore caratteristico della strizzatura del pennello. Né Tiziano, né Tintoretto usarono la loro pennellata più liberamente. Delicate, piene di riflessi luminosi, sono le penombre del bianco luminoso. Tutto il godimento dell'artista vibra davanti a un lenzuolo scomposto dal caso, come se anche per esso la luce dovesse portare la gioia, e il groviglio contorto e oscuro, il tormento. Al puro ovale del volto non contrasta il corpo nudo; alla delicatezza delle palpebre chiuse corrisponde la leggerezza del naturalismo del corpo. L'alito della sera appena appena si avverte. Più che dal cielo lontano, l'effetto risulta dalle palpebre chiuse, a fine di raggiungere con il sonno di una vita umana la poetica profezia del sonno della natura.
Se ora noi rivolgiamo lo sguardo allo sviluppo generale dello spirito del Rinascimento, ci accorgiamo che G. ne è un punto cardinale. La nuova conquista della realtà si era compiuta a Firenze attraverso la prospettiva e l'anatomia, attraverso le idee tratte dall'antichità classica, attraverso la liberazione dai dogmi religiosi. Gli effetti erano stati magnifici, ma avevano anch'essi i loro limiti. La possibilità razionale aveva talvolta sacrificato i diritti dei sensi, l'intellettualità pagana aveva rinviato in seconda linea non solo i dogmi, ma anche il sentimento religioso; l'orgoglio umanistico aveva alquanto allontanato l'artista dalla comunità umana. E G. spezza tutti codesti limiti. Egli instaura l'era della sensualità nella pittura, e in genere nell'arte italiana, una sensualità piena e diffusa, che avvolge la carne, come gli alberi, come le luci al tramonto. E per essere cosmica quella sensualità diviene ideale; per non essere turbata da alcun gioco mentale, essa è natura.
E malgrado le apparenze, la nuova concezione della natura, pur attraverso la sua sensualità, e a causa del suo carattere cosmico, non distrugge, ma anzi esalta un particolare modo di sentire religioso. Esso, certo, non è d'accordo col dogma cattolico, ma dipende da quell'affetto verso la natura che il cristianesimo ha scoperto. Se non una concezione, certo quello di G. è un sentimento panteistico della natura. E infine G. ha creato anche l'ambiente sociale della sua pittura. Prima di lui le pitture a Venezia erano destinate alle chiese, alle confraternite e alla Serenissima. Ma i gaudenti signori veneziani si compiacquero di ricever da G. dei quadri, generalmente piccoli di dimensioni, ove si potevano ammirare belle donne, prati erbosi, fresche acque, boschi ombrosi, cieli magici. Non chiedevano di più, come c'insegna M. Michiel, e se il motivo era mitologico, tanto peggio per la mitologia: essi volevano gustare, gaudenti della natura, il ricordo pittorico delle loro esperienze. I motivi fantastici alla G. divennero di moda e furono ricercati per decennî. E però si può dire che G. ha inventato non solo un nuovo modo di sentire il mondo, non solo un nuovo tipo di motivi pittorici, ma persino un nuovo tipo di committente, di amatore di pitture.
Se poi dal mondo del sentimento e della fantasia si passa ad analizzare il mondo della visione, la rivoluzione operata dal rapido passaggio di G. non è meno grande. Giovanni Bellini aveva saputo fondere in uno stile personale le esperienze della forma plastica fiorentina, l'ideale fiorentino dei corpi regolari e la finezza del chiaroscuro fiammingheggiante portato a Venezia da Antonello da Messina. E Carpaccio aveva anche saputo sbizzarrirsi, libero da preconcetti formali, sino a improvvisare macchiette impressionistiche. Ma né Giambellino, né Carpaccio avevano saputo profittare delle graduazioni di luce e ombra, delle rifrazioni luminose individuatrici delle diverse materie rappresentate, degli ardimenti luministici che la pittura fiamminga aveva scoperto e coltivato.
Portare il gusto delle graduazioni e delle rifrazioni di luce dallo stato particolaristico in cui i Fiamminghi l'avevano conservato, sino al grado di sistema organizzatore, di sintesi dell'intero quadro: ecco l'effetto della visione di G. Da essa derivarono la morbidezza del contorno o forma aperta, l'immersione dell'immagine nell'atmosfera, un'unità pittorica più fondata sulla subordinazione che sulla coordinazione degli elementi. Certo lo slancio sensuale di G. chiede ai colori la massima intensità, anzi adopera la luce e l'ombra come forze esaltanti i colori. E però di fronte alla vivacità cromatica di G. le penombre di Rembrandt sembrano delle meditazioni opposte a un canto spiegato. Ma, qualunque sia la divergenza tra le personalità, non è dubbio che nella storia del gusto, G. appare come l'iniziatore dell'era pittorica moderna.
Una rigorosa e perfetta unità di forma artistica e di contenuto, una libertà sensuale che abbraccia l'intero cosmo, una simpatia per la natura che accomuna uomini e cose, una chiara coscienza dei diritti della fantasia, non subordinata a nessun ideale intellettuale o morale, un sentimento panteistico della natura, una visione tonale in cui sono totalmente realizzati forma plastica e colori: ecco il gusto di G. L'accento intimo di quel gusto, l'essenza della personalità dell'artista è poi un giovanile candore che rende ideale la sensualità, magico il colore, leggendaria ogni realtà.
V. tavv. LXV e LXVI e tav. a colori.
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